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L'ombra è l'opposto del sole, ma si nutre di esso.
Un cielo grigio non genera ombre: nessun contrasto, nessun pensiero.


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lunedì 9 giugno 2014

Come il gatto giunse in Islanda

Leggenda islandese


In una catapecchia sprofondata tra le canne sulla riva del lago, vivevano un uomo e una donna molto vecchi assieme al loro figlio Fortunato. La loro abitazione, se così si poteva chiamare, era priva di tutto, salvo due sgangherati sedili, una ciotola unta e un ferro per rovistare nel fuoco.
- Nemmeno un maialepotrebbe viverci! - sentenziavano sbrigative le compari del villaggio quando passavano di lì. E quando attraversavano la piazza del paese si ristoravano la vista col perfetto lindore delle loro casette.
In realtà nessuno sospettava quanto fosse ricco il vecchio della catapecchia, nessuno sapeva del sacco di corone d’oro gelosamente custodite sotto il pagliericcio; e quando morì nessuno avrebbe potuto immaginare che avesse preferito patire la fame per tutta la vita piuttosto che separarsi da una sola delle sue amate monete. Di lì a poco morì anche la vecchia, e il giovane Fortunato si trovò solo al mondo. Mentre sbarazzava l’unica stanza della sua triste dimora urtò col piede nel sacco d’oro e, pensando che contenesse pietre, stava per buttarlo nel lago, quando da una scucitura occhieggiò luccicante una monetina. Sciolse lesto il legaccio che chiudeva
l’imboccatura e d’improvviso seppe d’essere diventato ricco.
Fortunato era un ragazzo semplice, che non vuol dire sciocco, e afferrò subito l’idea di come ora sarebbe cambiata la sua vita. Sorrise tra sé e sé, si ravvivò i capelli, cercò di dare un aspetto ai suoi misteri stracci e si avviò verso il paese. Non aveva fatto metà della strada, e costeggiava ancora il lago, quando sentì un fischio venire dal canneto.
- Qualcuno mi ha chiamato? - chiese fermandosi e girando la testa. Ma non ottenne risposta e già riprendeva il cammino quando di nuovo gli parve che il fischio si ripetesse. - Se qualcuno mi cerca, è bene che si sbrighi! - disse a voce alta fermandosi di nuovo. - Perché questa mattina ho una fretta indiavolata e tra poco nessuno mi vedrà piú da queste parti. Saltò fuori allora un buffo omino, non piú alto di un palmo, vestito tutto di verde come le foglie e con un campanellino d’argento appeso al berretto. - Fortunato, dimmi, se non mi fai del male, ti dirò ciò che ora ti dico? - fu lo strampalato esordio del folletto del lago, perché proprio di un folletto si trattava. - Perché mai dovrei? non ci penso nemmeno - rispose Fortunato un po’ stupido. e infatti non gli era mai passato per il cervello di fare del male a qualcuno, figuriamoci a un folletto. - Sappi allora che quel denaro è stato rubato ai troll, i crudeli giganti delle montagne - disse la minuscola creatura. - Si tratta di oro pericoloso e malvagio. Liberatene subito, oppure donalo ai poveri. Solo nelle loro mani può diventare buono. Tieni invece per te la monetina che hai visto per prima. È l’unica che sia stata guadagnata onestamente.
Ciò detto il folletto sparì tra le canne.
Restato solo, Fortunato non ci pensò su nemmeno una volta e giunto al paese distribuì nottetempo tutto il denaro tra le case piú povere.
La mattina seguente il giovane fischiettava tra i campi felice di essersi liberato tanto in fretta di un così grande pericolo. Aveva una sola moneta in tasca, non era un gran che, ma sempre meglio di niente. Non sapeva neppure dove dirigere i propri passi, ma non per questo perdeva il buon umore. Così imboccò il primo sentiero che lo portava nel bosco.
Era un bel po’ che camminava e cominciava a sentire appetito. Camminò ancora e ancora e l’appetito diventò fame. Il sole scendeva quando vide una casa.
Bussò e una donna aprì l’uscio invitandolo ad entrare. Nella cucina erano riuniti attorno alla tavola il marito, i figli e la vecchia nonna. Gli fecero posto e aggiunsero un piatto. Nessuno fece domande e tutti mangiarono.
Quando fu sazio Fortunato cominciò a guardarsi intorno e vide con sorpresa un animale acciambellato vicino alle braci del cammino, assai diverso da tutti quelli che aveva visto fino ad allora. Aveva il pelo del colore delle castagne mature, lievemente striato, e non era molto grande, ma gli occhi erano larghi, a volte ovali a volte rotondi, e brillavano come specchi profondi. Cantava in una maniera assai strana e sommessa, che si udiva soltanto a stargli vicino.
- Qual è il nome di questa strana creatura? - chiese allora. - L’ha portata un marinaio d’oltremare e ha detto che laggiú la chiamano gatto - risposero quelli. - vorrei comperarlo, se me lo vendete, e non costa troppo e mi farebbe compagnia. -
Gli chiesero una monetina d’oro, e lui fu molto felice di poterlo acquistare.
La mattina seguente si prese il gatto, lo avvolse nel suo povero mantello, si assicurò che fosse comodo e riprese fischiettando il cammino nel bosco. Di lì a poco il bosco finì e si aprì un’ampia campagna lavorata con cura, qua e là punteggiata di tetti rossi delle fattorie. Ancora piú lontano si alzavano le bianche torri del re visibili anche a grande distanza.
Fortunato pensò che lì forse avrebbe potuto trovare lavoro e si diresse alla reggia, chiedendo udienza al sovrano. Mentre attendeva nella grande sala a pianterreno si meravigliò che tutte le persone che vedeva, donne e bambini, vecchi, paggi, guardie o cavalieri camminassero impugnando delle lunghe bacchette con le quali percuotevano distrattamente il pavimento. Quando invece sedevano, davano prima un gran botto sul sedile prescelto, ma poi restavano sospettosi e inquieti, anche se in giro non si vedeva nessuno. A volte spiavano sotto i tavoli, o dietro le tende. Peraltro nessuno, tranne lui, sembrava stupirsi di quell’insolito comportamento. Intanto gli fu detto di andare nella sala da pranzo reale, dove il re lo invitava a mangiare con la sua corte.
Entrando nella sala, il giovane vide con stupore una folla di piccole bestiole scure che correvano dappertutto sul pavimento e sul tavolo. Erano così sfacciate da rubare pezzi di cibo anche al re; e gli altri commensali non si trovavano meglio. Tra un boccone e l’altro tutti cercavano inutilmente di allontanarle colpendole con le loro bacchette. Quando fu seduto, Fortunato chiese alla nobildonna che gli sedeva a lato: - che specie di animale è questo?
- qui li chiamiamo topi - rispose la donna, mentre tentava di allontanarne uno particolarmente interessato al suo piatto. - Sono anni che hanno invaso la corte e il paese e la nostra vita sono diventati impossibili. Il re ha promesso sua figlia in sposa a colui che sarà capace di sterminarli, ma fin ora nessuno ci è riuscito. -
In quel punto si vide un’ombra sfrecciare nell’aria. Il gatto era balzato sulla tavola e dopo morsi e zampate, un bel numero di topi giaceva morto. Ancora un balzo, e ancora altri topi a pancia all’insú. Allora ci fu un grandinio di zampette e la massa brulicante e scura fuggì per porte e finestre fuori della sala.
Il re e la sua corte restarono stupefatti e poi, naturalmente, fecero grandi feste al loro liberatore, il gatto, che non avevano mai visto, e al suo proprietario Fortunato che ebbe la mano della figlia al re. (dalla rete)


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