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L'ombra è l'opposto del sole, ma si nutre di esso.
Un cielo grigio non genera ombre: nessun contrasto, nessun pensiero.


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sabato 28 febbraio 2015

Adolescenza

 
adolescenza (dal latino adolescentia, derivato dal verbo adolescĕre, «crescere») è quel tratto dell'età evolutiva caratterizzato dalla transizione dallo stato infantile a quello dell'individuo adulto. Quando si parla di adolescenza, è molto importante ricordarsi che essa è un tema di carattere prettamente psicologico, e darle limiti fissi è un'impresa molto ardua. Bisogna considerare che:

  • lo sviluppo psicologico-emozionale non procede sempre di pari passo con lo sviluppo fisico;
  • le società occidentalizzate stanno provocando un ritardo sempre maggiore dello sviluppo psicologico mentre in altre zone del mondo pare verificarsi l'opposto;
  • i limiti di età sono diversi tra persone di sesso diverso;
  • più tardi si verificherà lo sviluppo puberale, più tardi finirà l'adolescenza;
  • certi tratti psicologici considerati tipici dell'adolescenza permangono oltre la prima giovinezza per certi individui.
La preadolescenza è la fase nella quale l'individuo comincia a subire le modifiche somatiche e psicologiche e a perdere le caratteristiche dell'infanzia. La sessualità ha raggiunto la forma alloerotica (cioè bisogno del partner); il pensiero ha maturato le forme logiche, l'egocentrismo infantile è superato. Queste nuove strutture sono però appena abbozzate; ora hanno bisogno di essere consolidate. Ciò avviene nell'arco di tempo che va, approssimativamente, dai 13 ai 19 anni.
La fragilità somatica e psicologica del soggetto, in questa fase, è evidente e facilmente spiegabile se si tiene conto del lavoro per il consolidamento delle sue strutture fisico-psichiche che in lui si va compiendo.
Altro aspetto dell'adolescenza è dato dall'esperienza che ora il soggetto va facendo degli schemi mentali di tipo logico-formale. 
Balthus – Thérèse rêvant - 1938

Il tipo operatorio-concreto del pensiero del fanciullo (5-8 anni) non consente al soggetto di immaginare il possibile fuori degli schemi della realtà, così come egli la vive e la sperimenta. Per il fanciullo il possibile è solo ciò che non è ancora avvenuto ma può avvenire. Il pensiero logico-formale consente invece di concepire il possibile come ciò che non è contraddittorio. Mentre il fanciullo lavora di fantasia, ma il suo mondo fantastico è legato alla realtà delle cose concrete, si tratti pure di eroi spaziali o di mostri metà animali e metà uomini, il mondo fantastico dell'adolescente è costituito da ipotesi sociali, etiche, politiche, ecc., non reali, ma logicamente realizzabili.
Vi è un egocentrismo tipico dell'adolescente dato dalla tendenza a rinchiudersi in questo mondo fantastico, che lo può portare a grandi mete, ma anche ad aspre delusioni. Cronologicamente questa fase si colloca nella tarda adolescenza e nella prima giovinezza, tra i 16/17 anni e i 22/23 anni per la femmina e tra i 17/18 e i 28/29 per il maschio. Connesso con lo sviluppo del pensiero logico-formale vi è pure la maturazione degli schemi sociali.
Lo sviluppo della socialità comincia con il superamento dell'egocentrismo infantile verso i 9/11 anni, ma solo verso i 15/16 anni il sentimento della socialità orienta il soggetto verso rapporti di parità con gli altri e verso forme ideali di amicizia che non devono più rispondere alla necessità di avere compagni con cui giocare e divertirsi ma amici con cui coltivare ideali o condividere idee. Un fenomeno caratteristico della socialità adolescenziale è quello della solidarietà con i coetanei, sia nelle circostanze in cui uno ha bisogno dell'altro fino a portare a vere e proprie complicità delittuose, sia ad una solidarietà di classe che spesso porta a contestazioni di maniera nei riguardi degli adulti. Questa solidarietà di classe, mista a contestazione, si manifesta spesso in quella che viene chiamata crisi di originalità. L'adolescente sceglie per il suo comportamento condotte che lo distinguano da tutti gli altri, ma la sua attenzione è a tutto ciò che può distinguerlo dagli adulti. 
Gli schemi della personalità di un individuo sono la risultante di fattori naturali e altresì di fattori culturali.
Balthus – Thérèse - 1938
Nei primi mesi di vita i fattori culturali cominciano appena a condizionare il comportamento dell'individuo, per cui la condotta di un bambino di pochi mesi non differisce granché da quella di tutti gli altri bambini, ma più si avanza negli anni e più questi fattori contribuiscono a differenziare la condotta degli individui. Le linee di comportamento qui descritte riguardo alle caratteristiche dell'adolescenza sono solo orientative per capire i soggetti in questa età, perché nella realtà molto forte sarà la differenza tra soggetto e soggetto a seconda dell'ambiente e dei fattori culturali che avranno concorso a condizionare lo sviluppo di ciascuno. Un'altra evidente caratteristica dell'adolescenza è la voglia di indipendenza associata al bisogno di avere una figura di riferimento.
Questa particolarità determina i conflitti tra genitori e adolescenti (da Wikipedia).
 
Memorie d'adolescenza


Un'estate, che d'estate son i tramonti lenti,
pesante quant'il sonno e la stanchezza medesima,
non avrei voluto altro che riposare, se fosse stato
possibile. Non reggeva più neppure la voglia
amara d'inasprire in me stesso il mio male.
Non avrei voluto cedere in nulla, ma invece
mi toccava assopirmi al sole in materia
stanca. E dalla stanchezza un filo di melodia.
Supino, ombre e sole, foglie
e cielo, silenzio e cicale. Le mani
le abbandonavo sull'erba riarsa, si tuffava
nell'estate l'anima e tornava d'ogni parte
carica d'ogni cosa, non articolava, non distingueva,

tornava stanca. E non poté credere a sé stessa
la mattina che le filtrò un'estatica canzoncina.

Irma Bernasconi Pannes, Prato estivo

Riccardo Bacchelli
 

 e prati infiniti,
profumo di fieno,
api, vespe e frinire di grilli e cicale;
e il caldo, possente, unico,
il sonno sul ciglio
del prato da sfalcio...


venerdì 27 febbraio 2015

Angoscia tra poesia e definizione

Giuseppe Mazzoli
Angoscia in pietra, 1948
Angoscia
 
Ahimè che angoscia, ahimè che vil tortura
Egli e, vivendo, d’aspettar la morte,
Contare i giorni, maledir la sorte,
L’ore intesser di rabbia e di paura.
Ahimè che angoscia andarne alla ventura
Su questo mar tumultuoso e forte,
E veder come le piu fide scorte
Il tempo inesorabile ne fura.
Amar pur cio che piu ne offende e nuoce,
Sperar pur cio che piu sperare e insano,
Fuggire un mal ch’e piu di noi veloce;
Perder la mente e il core a brano a brano,
A inutile lamento alzar la voce,
Patir, pugnare, soggiacere invano.

Arturo Graf
 

quando prende, la mattina,
quando ti stringe, la notte,
quando piangi o ridi,
quando sorridi...
 
 
esiste uno stato d’animo, l’angoscia, che sebbene molto diffuso non viene davvero considerato, o viene scambiato per altro. 
- L’ansia sana è una normale reazione di adattamento a un pericolo o a un’importante prova o situazione della vita.
- L’ansia patologica è una reazione abnorme e sproporzionata di allarme rispetto un pericolo più o meno reale, oppure uno stato di allerta continuo senza causa apparente.
- L’angoscia è un gradino ancora più su: è uno stato d’animo sempre di impronta ansiosa ma ancor più invasivo, inquietante e paralizzante, dovuto a un afflusso di stimoli emotivi - interni o esterni - troppo intensi e ravvicinati nell’unità di tempo per poter essere controllati e filtrati dalle difese psichiche. Se l’ansia perciò è il segnale di un’energia che cerca in qualche modo di trovare soluzioni prima che si venga sommersi dall’angoscia, quest’ultima segnala invece che le difese sono cadute e che l’anima è ormai invasa da atmosfere negative.
 
Emozioni al crocevia
Non si ha la sensazione che stia per accadere qualcosa di brutto e incontrollabile - come nel panico - ma che stia già accadendo. L’angoscia perciò è al crocevia degli altri tre stati: è oltre l’ansia, è prima del panico e, se dura troppo, è alla base di una forte depressione. Perciò va riconosciuta e curata.                                 
Cosa rischi se non la vedi
- Se la tratti come "semplice" ansia (ad esempio sottoponendoti a tecniche di rilassamento) la sottovaluti e la rendi cronica, spingendo verso una crisi depressiva.
- Se la tratti come depressione  (ad esempio assumendo farmaci antidepressivi) la fai esplodere in forma di euforia patologica rischiando di aprire le porte a qualcosa di ben peggio, come un disturbo bipolare.
- Se la tratti come panico  (ad esempio assumendo farmaci specifici): la sopprimi, la schiacci nel corpo che la trasformerà in un sintomo fisico.
- Se fai finta di nulla rischi una depressione maggiore o un disturbo  da attacchi di panico.  Talora, molto più di rado  e se c’è predisposizione, un episodio psicotico.

L'angoscia esistenziale
appare tipicamente in certi momenti della vita, nei quali tante problematiche irrisolte vengono a galla tutte insieme (amore, lavoro, eventi traumatici…) . In questo caso:
- Affidati alla psicoterapia del profondo
Serve guardarsi dentro e in profondità: è il momento di capire le cause profonde del malessere.

- No agli psicofarmaci
Se sopprimi l’angoscia artificialmente non saprai mai se il lavoro psicologico è valido. Non metterti fretta o le cose peggioreranno.

- Apriti a nuovi progetti
A volte l’angoscia è creata dal vuoto e dal non senso. Se qualche idea sul futuro si affaccia spontaneamente, “acchiappala”.

 
Se invece l'angoscia è di tipo situazionale, dovuta ad esempio a una grave malattia di un familiare, dall’esito incerto che si protrae nel tempo, fai così:
- Chiedi aiuto
Può sempre servire una psicoterapia, ma orientata soprattutto al supporto che ti permetta di sfogarti, di sentirti “accolto” e di avere consigli per questa dura prova della vita.

- Affidati ai rimedi naturali
Se la situazione di vita ti ha risucchiato ogni energia psicofisica, alcuni rimedi possono servire: fitoterapia, omeopatia, rimedi floreali...

- Non stare solo
Se non sono persone ansiogene, cerca il calore di amici e/o familiari. A patto che che non si parli sempre del “problema”.


dalla rete

giovedì 26 febbraio 2015

Fragment


Fragment
 
Vagavo sul ponte, per un’ora, stanotte
sotto un cielo nuvoloso e senza luna; e sbirciavo
nelle finestre, guardavo i miei amici a tavola,
o giocando a carte, o in piedi sull’uscio,
o venendo fuori nell’oscurità. Ancora
nessuno poteva vedermi.

………………….Avrei pensato a loro
- svagati, a una settimana dalla battaglia – con pena,
fieri nella loro forza e nel peso e fermezza
e compatta bellezza dei corpi, con pena che
questa lieta macchina di splendore sarebbe stata presto [spezzata,
dimenticata, smontata, fatta a pezzi…

…………………..Ma come sempre
potevo solo vederli passare, davanti alla luce della lampada,
come ombre colorate, più sottili di una membrana di [vetro,
deboli bolle, più tenui della tenue luce delle onde
che scoppiarono in fosforo nella notte,
cose caduche e strani fantasmi – prossimi a morire
per altri fantasmi – questo, o quello, o io.
 
Rupert Brooke
 
nei pezzi sparsi di vetri frantumati
frammenti colorati sfuggono,
ritorcono i lati taglienti,
rigano di strie i percorsi,
graffiano i cuori...
 

framménto
(ant. fragménto) s. m. [dal lat. fragmentum, der. di frangĕre «rompere»].
- Vocabolario TRECCANI -


1.
Ciascuno dei pezzi in cui s’è rotto un oggetto, o, più genericam., piccola parte staccatasi o tolta da un oggetto: un f. di vetro, di ceramica; un f. d’osso; un f. del frontone del Partenone; esaminare al microscopio un f. di tessuto; frammenti di fissione nucleare, i due, o più, nuclei leggeri che si originano dalla fissione di un nucleo atomico pesante.
2.
a. Parte di opera letteraria pervenutaci mutila: i f. degli storici greci; i f. di Saffo, di Alceo; anche, singolo brano di un’opera concepita frammentariamente e che, per ragioni artistiche o per altro motivo, non abbia avuto una sua esteriore unità: i f. delle «Grazie» del Foscolo.

b. Denominazione usata dagli studiosi del diritto romano per designare ogni singolo passo di cui si compone il Digesto.
c. Nella letteratura moderna, breve componimento lirico, in prosa o in versi, caratteristico del frammentismo.
 
◆ Dim. frammentino, frammentùccio, frammentuzzo; pegg. frammentàccio

mercoledì 25 febbraio 2015

Chats

Chats
 
I fervidi innamorati e gli austeri dotti
amano ugualmente, nella loro età matura,
i gatti possenti e dolci, orgoglio della casa,
come loro freddolosi e sedentari.
Amici della scienza e della voluttà,
ricercano il silenzio e l'orrore delle tenebre;
l'Erebo li avrebbe presi per funebri corsieri
se mai avesse potuto piegare al servaggio la loro fierezza.
Prendono, meditando, i nobili atteggiamenti
delle grandi sfingi allungate in fondo a solitudini,
che sembrano addormirsi in un sogno senza fine;
le loro reni feconde sono piene di magiche scintille
e di frammenti aurei, come sabbia fine
scintillano vagamente le loro pupille mistiche.
 
                        Charles Baudelaire
 
i mondi dentro gli occhi,
quelli dei gatti;
le leccate del cane,
le smorfie del criceto;
compagnie "no cost",
amici di sempre...

 
gatto
sostantivo maschile
[lat. tardo cattus, forse voce celtica].
- (zool.) [animale domestico dei felidi] ≈ felino,
Ⓖ (fam.) micio, [nel linguaggio infantile] miao.
 
Il termine "gatto" deriva dal termine latino (o forse addirittura celtico) cattus.
Si tratta di un piccolo animale mammifero carnivoro tra i più amati dall'uomo e il più diffuso al mondo.
Si contanto circa cinquanta differenti razze di gatto, un numero davvero elevato che fa capire le diversità che possono esserci tra un esemplare e l'altro.
Ecco perché è importante conoscere a fondo il carattere, le abitudini, l'alimentazione e le cure necessarie per allevare in modo adeguato il proprio amico.
Tra gli animali domestici i gatti occupano un posto particolare per la loro bellezza, solennità ed eleganza.
Non è un caso, infatti, che spesso si parli di Sua Maestà il Gatto.  (dalla rete).
 

martedì 24 febbraio 2015

Assorto

Sempre assorto
Sempre assorto in me stesso e nel mio mondo
come in sonno tra gli uomini mi muovo.
Di chi m'urta col braccio non m'accorgo,
e se ogni cosa guardo acutamente
quasi sempre non vedo ciò che guardo.
Stizza mi prende contro chi mi toglie
a me stesso. Ogni voce m'importuna.
Amo solo la voce delle cose.
M'irrita tutto ciò che è necessario
e consueto, tutto ciò che è vita,
com'irrita il fuscello la lumaca
e com'essa in me stesso mi ritiro.
 
Camillo Sbarbaro
 
assòrto
agg. [propr. part. pass. di assorbire,
dal lat. absorptus, part. pass. di absorbēre].
– TRECCANI -

1. Immerso in qualche pensiero: essere a. nello studio, nella contemplazione, nella preghiera.

2. Nella lingua ant. e poet. anche con valore di participio e col sign. del verbo assorbire (per quest’uso, cfr. absorto): Pur, se nell’onta della Patria assorte Fien mie speranze (Foscolo).
risvegli delusi e soli,
occhi gonfi per il poco riposo
o per il pianto,
la notte ci lascia alla luce,
quella del giorno... 

lunedì 23 febbraio 2015

Danza e Salomè

Il serpente che danza

O quant’amo vedere, cara indolente,
delle tue membra belle,
come tremula stella rilucente,
luccicare la pelle!
Sulla capigliatura tua profonda
dall’acri essenze asprine,
odorosa marea vagabonda
di onde turchine,
come un bastimento che si desta
al vento antelucano
l’anima mia al salpare s’appresta
per un cielo lontano.
I tuoi occhi in cui nulla si rivela
di dolce né d’amaro
son due freddi gioielli, una miscela
d’oro e di duro acciaro.
Quando cammini cadenzatamente
bella nell’espansione,
si direbbe, al vederti, che un serpente
danzi in cima a un bastone.
 
Charles Baudelaire
 
 
 
lenti movimenti, sinuosi,
sedurre è un arte
essere incline a tutto
e respirare suoni e gemiti...


Il predicatore Giovanni Battista racconta che Erode ha un amore incestuoso e adultero con Erodiade.
Sia l'incesto che l'adulterio erano contrari alla legge di Mosè e Giovanni Battista, in veste di moralizzatore e profeta, li additava alla vergogna del popolo.
Erode allora lo fa imprigionare per mettere a tacere queste insinuazioni (che erano fondate).
Erodiade, invece, vuole che si chiuda la bocca per sempre al predicatore, condannandolo a morte.
Erode, temendo la reazione del popolo che venera il Battista, continua a rimandare la decisione di farlo morire.
La malvagia Erodiade decide allora di sfruttare la lussuria del compagno Erode, che sbavava per Salomè, figlia adolescente della donna, tramando alle sue spalle.
Durante una festa per il compleanno di Erode, Salomè si esibisce in una danza, la famosa danza dei sette veli, che piace così tanto al festeggiato, da fargli promettere alla ragazza che avrebbe esaudito qualsiasi suo desiderio.
Erodiade prende la palla al balzo e convince Salomè di chiedere a Erode, come suo desiderio, di avere la testa di Giovanni Battista in un bacile.
La condanna è eseguita e Salomè consegna alla madre la testa del Battista.
La storia di Salomè è un incrocio fra storia e leggenda, un mito affrontato per secoli da artisti, in ogni campo: Caravaggio nella pittura, Oscar Wilde nel teatro, Richard Strauss nella musica.
Nel modello artistico, Salomè, giovane incosciente strumento di vendetta della madre, diventa il simbolo della più devastante e morbosa lussuria.
Bernardino Luini - Salomè
Le sue relazioni adulterine con Erodiade dopo il ripudio della sposa, figlia del re arabo Areta IV°, suscitarono grande scandalo tra gli ebrei e gli attirarono le critiche di Giovanni Battista, che, secondo il racconto evangelico, fece decapitare.
Recatosi a Roma per ottenere il titolo di re, fu invece privato della tetrarchia e deportato in Gallia.
Morì in esilio a Lione.
Si ricorda che Gesù, riferendosi a lui, usò il termine "quella volpe", animale che è considerato dagli ebrei il più astuto del creato.
Nella storia della Redenzione, il Battista è tra le personalità più singolari: è l'ultimo profeta e il primo apostolo, in quanto precede il Messia e gli rende testimonianza. "È più che un profeta" disse Gesù.
Il Vangelo di Marco ci racconta che Giovanni Battista venne fatto arrestare da Erode, accusato di adulterio dallo stesso predicatore, il quale, temendolo, non accolse tuttavia la richiesta della moglie Erodiade che lo voleva far giustiziare. Erodiade convinse la figlia Salomè a ballare per il patrigno e a chiedergli, come ricompensa, la testa del prigioniero.
La vera storia di Salomè, quella che tutti conoscono e visualizzano nell’immagine di una ragazza che danza o in una testa sanguinante adagiata su un vassoio, è una storia/icona prodotta dalla pittura, dalla letteratura, dalla musica, dal teatro, nel corso dei secoli.
E’ una storia che non appartiene ad un autore, eppure è una storia letteraria. Questo perché è una storia della comunità letteraria, e non solo.
Così, almeno virtualmente, ogni riscrittura ha lo stesso rapporto con l’originale testo letterario “assente”.
Salomè ha lo stesso valore e la stessa funzione di un personaggio del mito, un mito che però non appartiene ad un solo autore. E’ un personaggio che si offre volentieri a versioni aggiornate.
Una Salomè ottocentesca non è una Salomè seicentesca. Dal momento che si tratta di una storia nota, è possibile contare sulla possibile complicità con il lettore/spettatore, il quale sa che la storia preesiste ad entrambi, autore e lettore (dalla rete Settemuse).

domenica 22 febbraio 2015

Lettere

ha un orizzonte la lettera
è quello che penso tu possa
ascoltare, ha filari di
nocciòli che si piegano
inchinandosi ai canali
ha una faccia che sta per
essere dimenticata la
lettera
e scrive scrive per disegnare
lineamenti sulla parete
del petto dove di notte

cerca casa lo sterminato
vuoto e non trova la bocca
ad aspettarlo le parole
tra le dita a tessergli

la scala ma nei corridoi
deserti scrive scrive
i confini di una lettera.
 
Livia Candiani
 
La lettera (dal latino pl. litterae, sinonimo di epistula) è una comunicazione scritta che una persona, ente, società ecc. indirizza e invia ad un'altra.
I primi esempi di "lettere" risalgono alla fine del III millennio a.C. circa, in Babilonia e in Assiria. "Scritte" su tavolette d'argilla (in seguito, di terracotta) si fanno seccare al sole o al fuoco. Per evitare che vengano lette da estranei, vengono avvolte in uno strato di argilla fresca sul quale s'imprime il sigillo del mittente e il nome del destinatario.
Più tardi, i Fenici, i Greci e in seguito i Romani, continuano ad adoperare le tavolette di legno, e iniziano a legare insieme due o più, e a ricoprirle di uno strato di cera su cui la lettera viene scritta con lo stilo, il tutto poi sigillato con una cordicella e col sigillo del mittente. Ancor prima, sono gli egiziani che iniziano a scrivere con giunco, cannuccia e inchiostro su papiri arrotolati, legati e sigillati destinati per lunghi viaggi. In Egitto e in Mesopotamia, si usa anche la pergamena ricavata da pelle di animali, soprattutto da quella di pecora, ma è una pratica meno diffusa rispetto al papiro. Tuttavia, a causa del forte calo della produzione di papiro, si comincia a diffondere l'uso della pergamena vera e propria per scrivere lettere. Durante il Medioevo, è la pergamena a essere quasi esclusivamente usata per la corrispondenza scritta.
Le lettere si arrotolano, si annodano e si sigillano. Anche gli scribi copiano e compilano formulari epistolari sempre su pergamena. Le lettere si continuavano a scrivere su fogli grandi di pergamena ripiegati più volte e inviati chiusi. Poi la carta sostituisce quasi completamente la pergamena.
Per evitare che la lettera si macchiasse (o venisse letta da chiunque) durante un lungo tragitto, si avvolge in un foglio di carta bianca. Da quest'uso sarebbe nata la prima busta attorno al 1668. È solo nel 1820 che il commerciante di carta inglese Brewer di Brighton produce, sebbene sempre a mano, la prima busta da vendere sul mercato (dalla rete).
  
lettere scritte e mai spedite,
spedite e mai lette,
poche quelle ricevute,
poche quelle che contano...

sabato 21 febbraio 2015

Aforisma


Alcuni sentono con le orecchie,
altri con lo stomaco
ed altri ancora con le tasche;
ce ne sono poi altri che non sentono affatto.
 
Khalil Gibran


 
e sono forse la maggior parte,
quelli che fingono,
quelli che ascoltano
e non sanno mai,
ci sono e poi vanno,
vengono e certe volte
restano pure...
 
 

venerdì 20 febbraio 2015

Cera

Cere
 
Cere opache nel buio flebili
stille di luce, brusio nel silenzio perpetra
infiniti, stanchi ritorni;
la pietas raccoglie vivide
immagini e note
si arrocca nel cuore la vita.
Cogli il bisogno, la noia, di fremere
oltre ogni limite; cosparso un breve di nulla
ristoro le immagini grigie.
 
Anonimo
del XX° Secolo
poesie ritrovate
 
Con il termine cera ci si riferisce solitamente alla sostanza secreta dalle api e usata da queste per la costruzione dei favi, ovvero alla cera d'api.
Più generalmente, con cera si indica una sostanza dalle seguenti proprietà: malleabilità a temperatura ambiente; un punto di fusione di circa 45 °C (113 °F), che permette di distinguere le cere da grassi e oli; una viscosità relativamente bassa quando fusa (diversamente da quasi tutte le materie plastiche); insolubilità in acqua; idrofobia.
Le cere possono essere naturali o artificiali. Oltre a cera d'api, cera di carnauba (cera vegetale) e paraffina (cera minerale), sono considerate cere naturali anche altre sostanze di origine naturale come quella oleosa secreta all'interno di alcune cavità animali, ad esempio l'orecchio.
Certi materiali artificiali che presentano le proprietà elencate sopra sono altresì chiamati cere.
Dal punto di vista chimico, le cere sono miscele di esteri, alcoli, acidi saturi con catena da 14 a 30 atomi di carbonio. Una cera è un tipo di lipide, si differenzia dai grassi perché può essere un estere del glicole etilenico con due acidi grassi, mentre i grassi sono esteri della glicerina con tre acidi grassi. Altri alcoli possono prendere il posto del glicole etilenico, a seconda della fonte, e molto frequentemente si incontrano cere derivate dall'esterificazione di un alcool monofunzionale a lunga catena.
Le loro caratteristiche apolari e la loro estrema malleabilità le rendono un materiale molto usato per molte attività umane.
Esse hanno una funzione strutturale ed impediscono la perdita di acqua per traspirazione. La cera per incisioni è un impasto di bitume, cera d'api e mastice in gocce. Viene steso su una lastra matrice, riscaldato leggermente onde ottenere uno strato uniforme e sottilissimo, quindi annerito con una candela per poter poi essere inciso (da Wikipedia).

giovedì 19 febbraio 2015

Poesia e riflesso


Il bambino perduto

Babbo, babbo, dove vai?
Oh, non camminare così veloce.
Parla, babbo, parla al tuo bambino,
O io mi perderò.
La notte era scura, nessun padre c’era;
Il bimbo era bagnato di rugiada;
il fango era profondo,
e il bimbo pianse,
e la nebbia svanì fugace.
 
William Blake
 
 
dove vai padre così stanco?
provato sei e lo sai, dove vai?
quasi un suono il tuo respiro
e gli occhi, vivi e tristi
immersi nel tuo bianco candore...

mercoledì 18 febbraio 2015

Maschere

 
Chissà se un giorno butteremo le maschere
che portiamo sul volto senza saperlo.
Per questo è tanto difficile identificare

gli uomini che incontriamo.
Forse fra i tanti, fra i milioni c'è
quello in cui viso e maschera coincidono
e lui solo potrebbe dirci la parola
che attendiamo da sempre. Ma è probabile
che egli stesso non sappia il suo privilegio.
Chi l'ha saputo, se uno ne fu mai,
pagò il suo dono con balbuzie o peggio.
Non valeva la pena di trovarlo. Il suo nome
fu sempre impronunciabile per cause
non solo di fonetica. La scienza
ha ben altro da fare o da non fare.
 
Eugenio Montale
("Quaderno di quattro anni")
 
 
il volto coperto da pensieri
è solo, solitario e buio;
poi qualche stella filante
ricorda piacevoli cose;
vorrei, a volte, sospirare sereno,
a volte, vorrei, respirare libero... 


Al giorno d’oggi la maggior parte delle persone è abituata a nascondersi dietro ad una maschera, celando così alcuni aspetti di cui si vergogna ed eventualmente sostituendoli a seconda della situazione.
Lo scopo delle maschere è di farci apparire diversi agli occhi degli altri, facendosi così giudicare per quello che siamo o meglio non siamo, poiché così è più semplice compiacere agli altri e pertanto essere giudicati come vorremmo.
In particolare tendiamo ad indossare una maschera soprattutto quando dobbiamo interagire con uno sconosciuto, nell’intento di essergli simpatici e di apparire diversi da quello che siamo.
Questo a volte può risultare molto complicato, poichè molte volte si arriva a deludere le persone a noi care,ad esempio gli amici, che rimarrebbero sconcertati da eventuali rivelazioni.
Nonostante causi molte conseguenze, è sempre lecito mostrarsi per quello che si è il prima possibile.
Dopotutto un’amicizia basata sulla menzogna non può durare a lungo.
Ormai sono molteplici le maschere che si indossano quotidianamente.
La società infatti,induce le persone ad assumere un ruolo o un atteggiamento diverso a seconda del luogo o di altro nel quale magari non ci si sente a proprio agio.
Anche in famiglia, dove ci si conosce tutti, dove si potrebbero abbandonare le maschere, talvolta se ne indossano di più leggere, meno spesse, ma sempre maschere.
Di conseguenza oggi giorno ci sono tutte “facce costruite” per luogo e tempo richiesto in quel momento.
Dopotutto tempo chi ci nascondiamo dietro questa maschera,dietro questo tunnel senza luce all’orizzonte non se ne esce, non riesci a tornare alla vita che tanto desiderata senza celarti dietro quel qualcosa che magari faceva stare bene.
Forse “gettare le maschere” non sarà mai possibile, perché alla fine caratterizzano parzialmente il nostro carattere, ma bisognerà evitare gli eccessi. Avere una propria opinione e ragionare con la propria testa è importante per superare i problemi che ci troviamo davanti durante tutta la nostra vita.
da "Il quotidiano in classe" gloria97, Istituto: L. Einaudi (Via San Giacomo 13  VERONA) - Il sole 24 ore dalla rete.
 

martedì 17 febbraio 2015

Arlecchino

Nella illustre famiglia delle maschere della Commedia dell'Arte, Arlecchino è la più caratteristica e al tempo stesso la più enigmatica e complessa. Benché nato in provincia di Bergamo, la città del suo compare Brighella, il suo nome deriva dal medioevo francese: Harlequin, o Herlequin o Hellequin si chiamava un diavolo conduttor di diavoli nei misteri popolari del sec. XI. Così il Driesen, il più dotto studioso di questa maschera.
Ma non mancano altre etimologie, più ingegnose che sensate: da Erlenkönig, folletto della mitologia scandinava e germanica; da Alichino, diavolo dantesco che in realtà deriva dall'Harlequin francese, da Achille de Harlay, gentiluomo francese che protesse un comico italiano detto Harlayqino. Secondo altri il nome sarebbe il diminutivo di harle o herle uccello dal manto variopinto.
Anche per le sue caratteristiche esteriori e per il suo tipo si sono cercate origini remote e lo si è riavvicinato agli antichi fallofori, che si imbrattavano il volto di fuliggine e recitavano senza coturno, e al Bucco romano, grande mangione.
Ma l'uso di imbrattarsi il volto per far ridere è universale, e così pure il tipo del pappatore. Troviamo comunque, verso il Cinquecento, la maschera di Arlecchino già definita: parla bergamasco, ha una corta giacchetta e calzoni attillati, l'una e gli altri coperti di pezzetti di stoffa di vari colori messi senza ordine, un bastone alla cintura, barba nera e ispida, mezza maschera nera col naso camuso, berrettone alla Francesco I con una coda di coniglio ciondolante (l'appender code di coniglio di volpe o orecchie di lepre era nel medioevo beffa consueta).
Arlecchino nasce infatti sotto il segno della stupidità: una stupidità insolente, famelica che si addipana nei fili dell'intrigo dai quali si libera con salti acrobatici e botte alla cieca.
Nella seconda meta' del cinquecento fu proprio un Bergamasco, Alberto Ganassa di Oneta di San Giovanni Bianco che, dopo i brillanti esordi presso le corti dei Gonzaga ed egli Estensi, vesti' i panni di Arlecchino nientemeno che davanti ai Sovrani di Francia e di Spagna.
Nella Contrada di Oneta si trova la cosidetta casa d'arlecchino, un edificio quattrocentesco che conserva tutti gli elementi distintivi di un passato splendore e che e' destinato a diventare un museo della maschera e del teatro popolare. La casa era in origine fortificata, ma in seguito divenne un abitazione signorile. All'interno rimangono tracce di affreschi che ingentilivano pareti e che attualmente sono visibili presso la Canonica e la Chiesa Parrocchiale di San Giovanni Bianco.
Un affresco era posto anche sopra la scala d'ingresso e raffigurava un uomo irsuto e vestito di pelli che brandiva un nodoso randello a guardia dell'abitazione, come si deduce dalla scritta posta sul cartiglio: Chi non e' de chortesia, non intragi in chasa mia, se ge venes un poltron, ce daro' col mio baston.
L'edificio apparteneva ai Grataroli, una delle famiglie piu' potenti della Valle, originaria di Oneta, che nel quattrocento vantava a Venezia ricchezze e fortune.
E qui si innesta il riferimento ad Arlecchino; questa maschera vestiva i panni del servo balordo e opportunista, quale erano nella realta' i valligiani brembani dediti nella citta' lagunare a lavori umili e faticosi. Gli stessi Grataroli stabilitisi a Venezia avevano al loro seguito servitori Brembani ai quali affidavano anche la cura dei loro beni di Oneta.
Forse accadde che uno di tali servi, portato all'arte comica, abbia buffonescamente rappresentato sulla scena il ruolo da lui stesso ricoperto nella realta' quotidiana. Il ruolo iniziale si arricchi' di forme e contenuti, favorendo l'imporsi del personaggio Arlecchino, colorito di licenziosa e pungente comicita' che veniva apprezzata in quanto non oltraggiava l'orgoglio Veneziano, ma prendeva di mira il tipo del servitore Bergamasco, costretto ad agguzzare l'ingenio per questioni di soppravvivenza (dalla rete).
 

Il vestito di Arlecchino

Per fare un vestito ad Arlecchino
ci mise una toppa Meneghino,
ne mise un'altra Pulcinella,
una Gianduia, una Brighella.
Pantalone, vecchio pidocchio,
ci mise uno strappo sul ginocchio, 
e Stenterello, largo di mano
qualche macchia di vino toscano.
Colombina che lo cucì
fece un vestito stretto così.
Arlecchino lo mise lo stesso
ma ci stava un tantino perplesso.
Disse allora Balanzone,
bolognese dottorone:
'Ti assicuro e te lo giuro
che ti andrà bene li mese venturo
se osserverai la mia ricetta:
un giorno digiuno e l'altro bolletta!".

Gianni Rodari
 
 

escissi dai pensieri
i ricordi,
le mascherine di Carnevale,
bambini felici
e girovaghi,
io per me,
amo le cose di sole
ma i colori
sono adorabili...

lunedì 16 febbraio 2015

Carnevale


Carnevale
 
Carnevale in filastrocca,
con la maschera sulla bocca,
con la maschera sugli occhi,
con le toppe sui ginocchi:
sono le toppe d'Arlecchino,
vestito di carta, poverino.
Pulcinella è grosso e bianco,
e Pierrot fa il saltimbanco.
Pantalon dei Bisognosi-
Colombina, - dice, - mi sposi?
Gianduia lecca un cioccolatino
e non ne da niente a Meneghino,
mentre Gioppino col suo randello
mena botte a Stenterello.
Per fortuna il dottor Balanzone
gli fa una bella medicazione,
poi lo consola: - E' carnevale,
e ogni scherzo per oggi vale.

Gianni Rodari
(da "PRIME FIABE E FILASTROCCHE")
 
 
colori e coriandoli, le stelle filanti;
ravvivo il ricordo e ripenso,
la foto sbiadita conferma
l'ora e il posto  e sei tu
anima fiancheggi il percorso...


Caratterizzato da colori e schiamazzi, il carnevale è considerata la festa dell'allegria per eccellenza. 
Uomini di ogni ceto sociale si recano a balli in maschera e sfilate variopinte, cercando di liberare la fantasia e di catturare un po' di felicità.
Lo scherzo "vale" ed il commercio che vi è connesso raggiunge il suo apice; vengono acquistati vestiti da indossare solo per qualche giorno, poi, come ogni anno, rimangono soltanto piazze e strade da ripulire.
Oltrepassando pragmatiche e superficiali considerazioni, pro o contro il carnevale, occorre chiedersi da dove esso provenga e di quali concetti religiosi o valori morali sia portatore. (dalla rete)

Le origini del carnevale
Certamente non è facile indagare sulle origini di una festa come il carnevale, le cui tracce storiche nessuno ha potuto o voluto realmente conservare. Non è possibile nemmeno fare luce sui diversi aspetti che ne caratterizzano i festeggiamenti, in quanto, nel corso dei secoli e in realtà geografiche diverse, il carnevale si è arricchito di sfumature sempre nuove.
L'etimologia del termine "carnevale" risale, con ogni probabilità, al latino carnem levare, espressione con cui nel Medioevo si indicava la prescrizione ecclesiastica di astenersi dal mangiare carne a partire dal primo giorno di Quaresima, vale a dire dal giorno successivo alla fine del carnevale, sino al "giovedì santo" prima della Pasqua. Il carnevale infatti, nel calendario liturgico cattolico-romano si colloca necessariamente tra l'Epifania (6 gennaio) e la Quaresima. Le prime testimonianze documentarie del carnevale risalgono ad epoca medievale (sin dall'VIII sec. ca.) e parlano di una festa caratterizzata da uno sregolato godimento di cibi, bevande e piaceri sensuali. Per tutto il periodo si sovvertiva l'ordine sociale vigente e si scambiavano i ruoli soliti, nascondendo la vecchia identità dietro delle maschere.
I festeggiamenti culminavano solitamente con il processo, la condanna, la lettura del testamento, la morte e il funerale di un fantoccio, che rappresentava allo stesso tempo sia il sovrano di un auspicato e mai pago mondo di "cuccagna", sia il capro espiatorio dei mali dell'anno passato. La fine violenta del fantoccio poneva termine al periodo degli sfrenati festeggiamenti e costituiva un augurio per il nuovo anno in corso. Nelle varie manifestazioni carnevalesche è possibile individuare un denominatore comune: la propiziazione e il rinnovamento della fecondità, in particolare della terra, attraverso l'esorcismo della morte.
Il periodo carnevalesco coincide più o meno con l'inizio dell'anno agricolo, un chiaro indizio che permette di collegare direttamente il carnevale alle feste greche di impronta dionisiaca (le feste in onore di Dionisio, dio greco del vino, caratterizzate dal raggiungimento di uno stato di ebbrezza ed esaltazione entusiastica, che sfociavano in vere e proprie orge), e a quelle romane dei Saturnali (solenne festa religiosa, che si celebrava in onore del dio Saturno e durante la quale si tenevano cerimonie religiose di carattere sfrenato e orgiastico, che prevedevano tra l'altro la temporanea sospensione del rapporto servo-padrone).
Lo stretto rapporto esistente tra queste feste e alcuni costumi del carnevale è evidente, anche se ignorato dai più. In tempi recenti gli storici hanno insistito maggiormente sull'origine agraria e sociale del carnevale. Esso è irrisione dell'ordine stabilito e capovolgimento autorizzato, limitato e controllato nel tempo e nello spazio dall'autorità costituita.
In altre parole la festa del carnevale era vista dalle classi sociali più agiate come un'ottima valvola di sfogo concessa ai meno abbienti allo scopo di garantirsi il protrarsi dei propri privilegi. Non meno interessante è l'origine e la valenza demoniaca di alcune tra le maschere carnevalesche più famose e antiche, come quella nera sul volto di Arlecchino o quella bipartita (bianca e nera) di Pulcinella.
Studi sul significato psicologico della volontà di indossare una maschera hanno mostrato che l'irresistibile attrazione esercitata dal carnevale sta proprio nella possibilità di smettere di essere se stessi per assumere le sembianze e il comportamento della maschera. Questa scelta, quando non è condizionata da fattori economici, rivela interessanti, e talvolta inaspettati, aspetti psicologici di una persona. Queste brevi note storiche, lungi dall'esaurire l'argomento, vogliono far riflettere il lettore sulla reale origine del carnevale e sull'impossibilità per ogni cristiano, separato dalle usanze del mondo e consacrato a Dio, di lasciarsi coinvolgere sia pure dal minore di questi aspetti.

Il Carnevale visto come manifestazione sociale
Il Carnevale è la celebrazione del travestimento: di quella promiscuità ribelle che sovverte l'ordine naturale e morale stabilito da Dio: "La donna non si vestirà da uomo, e l'uomo non si vestirà da donna poiché il Signore, il tuo Dio, detesta chiunque fa queste cose" (De.22:5). La condanna è estesa ad ogni licenza dalla propria identità spirituale e dalle responsabilità etiche (So.1:89).
Il Carnevale è il riconoscimento di quella ambiguità che, confondendo realtà e apparenza, verità e finzione, mira ad offuscare quella lucidità e giusta inibizione necessarie ad onorare Dio (Is.5:20,22; Ro.13:12-14). Per diversi credenti basta un disincantato: "non c'è nulla di male..." per rendere implicita l'approvazione di Dio in faccende che non Lo riguarderebbero. Il Carnevale è espressione di una allegrezza abbinata alla volgarità, in contrasto con la gioia cristiana (Ro.14:17, Ef.5:3,4), di una satira dissacratoria completamente in contrasto con la Parola di Dio, che non insegna lo scherno delle autorità, bensì a pregare per esse (I Ti.2:12). Il Carnevale è l'esaltazione sfrenata del godimento fine a sé stesso; tale festa costituisce, tuttavia, più che un'innocente divertimento, uno dei tanti "diversivi" che, con la scusa di fugare noia, tristezza e desideri repressi, allontana le coscienze dalla sana preoccupazione per la condizione dell'anima dinanzi al Giudizio divino (Is.30:9-11; Lu.16:19,25; I Pi.4:3,7).

Il Carnevale visto quale evento religioso
Il Carnevale ha perduto nel tempo certe punte di pura stregoneria, ma sotto il manto della baldoria "scaccia pensieri", la sostanza dell'esorcismo "scaccia spiriti" non è scomparsa; esso è comunque una ricorrenza pagana, con tutto il suo fardello di contraddizioni inconciliabili con lo spirito e l'opera di Cristo (II Co.6:14-16). Il "carnevale religioso" rivisita un rituale che disonora l'unica propiziazione riconosciuta da Dio (I Gv.2:12). La simbologia cattolica delle ceneri ripropone una prescrizione mosaica superata dall'efficacia purificatoria del sacrificio di Gesù Cristo (Eb.9:11-14). Il Carnevale insegna un falso riscatto spirituale, promuovendo il peccato volontario in prospettiva di un "pentimento programmato".