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L'ombra è l'opposto del sole, ma si nutre di esso.
Un cielo grigio non genera ombre: nessun contrasto, nessun pensiero.


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lunedì 28 aprile 2008

Carolina

Una donna si congeda dalla vita. E, in quei momenti, tornano a lei i figli. Anche solo nel ricordo.
Come Mino/Angelo Zanoni, un uomo generoso tradito e ucciso davanti alla madre.


Angela le accostò un bicchiere alle labbra. Un sapore di agrume: non le piacque. La figlia insisteva perché bevesse e infine deglutì qualche sorso, a fatica.
«Devi mandar giù qualcosa, Mamma».
Lei rispose con un sorriso, quello che riusciva a distillare nel dolore, così leggero che non pareva la sofferenza.
«Federico è venuto?». La voce era fioca.
«Sì, Mamma, ma è raffreddato: non lo lasciano entrare, qui». Angela mentì. Una volta ancora, quella domanda.
Sua madre gliela poneva spesso, come una litania, e lei sempre rispondeva con una bugia pietosa.
Pensò al fratello Federico, alle sue scommesse, i cavalli, i debiti mai pagati. Si augurava, quasi, che lui non venisse mai, lì dalla Mamma: «Avrebbe il coraggio di chiederle denaro anche adesso, che sta così male». Si pentì di quel pensiero cattivo, nato da un momento di rabbia verso quel fratello tanto diverso da lei, ma fratello. E lei, Angela, gli voleva bene. E la madre ancora di più lo amava, di quell’amore che fa tremare e piangere per un figlio malato di grandezza, del genio sfrenato che si strugge fra le tende fumose di una bisca, nel rumore di una sala scommesse. Quel figlio così perduto, così solo, quando tornava al paese. Si abbandonava sul suo grembiule e singhiozzava di stanchezza, di nausea per il gioco, per i soldi intravisti e sfumati per l’ennesima volta. Quello che lui chiamava prestito, quel denaro che lui le chiedeva non sarebbe arrivato ai debitori: lui l’avrebbe sciupato in qualche disastroso affare o in una delle sue imprese che sapevano di furbo, d’illecito.
Lì, in ospedale, non si era ancora visto.
Angela sperava, dentro di sé, che Federico avesse almeno l’intenzione di venire. «Magari non l’hanno fatto entrare... Forse il medico della Rianimazione, così severo...», pensava. E guardava la madre: la malata fissava il Crocefisso, appeso davanti a lei, sulla parete bianca.
Quel segno nero, la Croce, a Carolina pareva farsi più vicino, e poi mutare: una fessura scura, dentro cui spiare.

Pochi anni, in punta di piedi, lo sguardo nella toppa della porta chiusa.
C’era odore di prete, d’incenso. Dal buco vedeva la stanza dei genitori: la schiena del padre in ginocchio, chino sul letto, tremava. La sagoma del Papà era una macchia indistinta in quel giorno così luminoso, quel giorno strano di gente per casa, di zie mai viste, stranamente affettuose, piene di attenzioni verso di lei, la piccola di casa. E quella vicina antipatica, che la guardava con le labbra serrate, e scuoteva la testa ossuta, scolpita in alto dai capelli troppo tirati, quasi grigi: «Bruttissima, questa!», pensava Carolina. «La mia Mamma, invece...». La sua Mamma, la sua bella Mamma era in quella stanza, quella della porta chiusa, dalla quale spiava.
Dalla toppa vide il padre voltarsi e venire verso la porta.
La bimba si spostò dall’uscio, mentre il padre ne usciva.
Lui la guardò: Carolina temeva un rimprovero; sapeva che non era bene sbirciare nelle serrature. Invece lui la prese in braccio e la strinse forte. Piangeva, il Papà, lui così forte, lui con quei baffi imperiosi e folti, che si prolungavano nelle basette, a incorniciare il viso. Le lacrime gli correvano giù dagli occhi arrossati, sulle guance, fino ai baffi, in gocce limpide, grandi.
Carolina si smarriva in quel pianto e non capiva. Così stonate, prive di senso suonavano le parole del padre...
«Che vuol dire morta?». Lontana, malata... Quello si capiva... Ma la morte, no. Era cosa di maiali, a Novembre, quando le grida dai porcili svegliavano i bambini, nelle nebbie di un mattino sempre buio, e il masatur faceva correre i ragazzi e le donne, coi secchi d’acqua scaldata sulla culdera. C’era un’aria seria, un po’ colpevole, in giro, e la gente che aveva allevato il maiale lavorava senza parlare, quasi contrita per il sacrificio, per una stagione di cure finite lì, in una pozza di sangue scuro. E poi l’inganno dell’ultimo richiamo affettuoso e la paura negli occhi della bestia... Perché il maiale la sentiva, la morte, e non voleva.
«Anche la Mamma non vuole, ma non grida... Dov’è che si muore, noi?» così farfugliava Carolina al padre. Poi le zie, la vicina odiosa l’avevano portata via.
Avrebbe compreso la morte: l’assenza, la casa piena di silenzio...
Il padre s’impensierì, già dolente e spento dentro di sé, per la tristezza di Carolina. Pensò che una donna dovesse occuparsi di lei e prese moglie: quell’antipatica, la vicina, che si era fatta sempre più presente e assidua, nella loro casa.
Di lei Carolina non avrebbe mai dimenticato il viso arcigno e le tante percosse, ricevute per la sola colpa di essere stata amata dalla vera madre, di essere adorata dal padre.
Non doveva gridare, quando veniva picchiata. Non poteva lamentarsi, quando la matrigna la pettinava, infierendo nei lunghi capelli con cattiveria. La donna, dopo la tortura quotidiana, le faceva volteggiare davanti agli occhi folti ciuffi di capelli aggrovigliati e la feriva, dicendo: «E’ la rabbia, che li annoda!».
Rabbia, sì, ne covava nel cuore. Ma al padre non disse mai nulla: per Papà teneva le cose migliori, quello di sé che cantava con voce gioiosa e rideva bambino e voleva imparare.
Suo padre era mezzadro e il padrone delle terre, il Conte, lo stimava, perché era onesto e preciso; inoltre sapeva leggere e scrivere e far di conto, cosa rara a quei tempi. Questo imparava Carolina dal genitore: scrivere, leggere, contare. E altro.
Il Papà le volle consegnare il suo segreto, il Segno misterioso che guariva fratture e distorsioni.
Quando suo padre morì, Carolina ormai donna sapeva tutto sulle erbe da cercare e su come mescolarle alla sugna e all’aglio, per farne unguenti e impacchi per chi veniva a cercarla, anche da lontano, con un braccio al collo o una gamba gonfia e dolorante. Lei, la Donna del Segno, medicava e pregava: i malati guarivano e le serbavano riconoscenza: mai volle denaro, per quel che faceva. Mai tramandò quel segreto avuto dal padre.
Ai figli disse: «Non sono più tempi per queste cose: il Segno morirà con me, sarà un ricordo in più che se ne andrà coi vecchi». La Croce...
Ora la vedeva di nuovo distintamente: la Croce scura sulla parete bianca della sua camera.
«Mamma... Dormivi?» Angela le chiedeva con premura.
«No, riposavo. E tu? Va’ a casa, che sei stanca».
Angela rifiutò: «No, Mamma: sto bene. E poi aspetto Mario per salutarlo».
Mario non tardò. Dopo un cenno dell’infermiera, davanti alla porta a vetri della stanza, Angela vide apparire la sagoma corpulenta del fratello Mario, accompagnato da Fermo, il fratello più giovane, con la sua espressione smarrita da fanciullo scaraventato fra gli adulti, il viso quasi imberbe, eppure inquinato da rughe. «Come una ragnatela» pensò Angela, osservando Fermo, il suo sorriso scomposto, che le suggeriva sempre qualche dissimetria interiore, un disagio invadente che gli anni e l’affetto non sapevano cancellare.
Mario parlò al fratello, che assentì ripetutamente col capo e si appoggiò con le palme delle mani e col naso al vetro della porta, osservando sua madre e la stanza. Gli avevano detto che aveva un male brutto dentro, la Mamma. Ma lui la vedeva bella come sempre, solo più bianca, nel letto bianco, più piccola, fra le lenzuola candide. Pensò che sarebbe guarita presto e che sarebbe tornata a casa, per curarlo, quando la febbre lo faceva sudare, o i brividi del suo corpo, di notte, non lo facevano dormire.
Mario gli premette ancora la mano sulla spalla: «Sta’ buono!» disse. Quindi raggiunse la madre e la sorella, all’interno.
«Mario...» la voce della malata pareva più fioca «L’orto: come va? I crisantemi portali al cimitero, dal Papà, prima che geli». Ancora domande e raccomandazioni: fatti piccoli e banali, le cose di tutti i giorni, quelle che la madre condivideva con il figlio e la nuora, nella casa dove vivevano insieme.
Mario rispondeva in dialetto, e in quel dire di trepide futilità si animava e non si avvedeva di quei bagliori sul viso della madre, come guizzi di fiamma quando la candela si consuma e lo stoppino affonda nella cera fusa, sfrigola. E si spegne.
Da quei discorsi, Angela ricavava l’immagine della Mamma e del fratello, chini nell’orto a legare i pomodori ai sostegni. Così si figurava la moglie di Mario, mentre cucinava accanto alla madre, e parlava con lei.
Provò un bruciante senso di esclusione, come se la Mamma le avesse negato una gran parte di sé, per farne dono quotidiano a quel figlio buono e un po’ ignorante, uno che giocava con i vecchietti sui tavoli sporchi dell’osteria e sapeva sempre di fumo e di vino. Lo stesso odore di suo padre, per quel che ricordava di lui, morto ormai da molti anni: un ometto con pochi capelli, gli occhi chiari e la faccia larga. Gli stessi lineamenti che avevano ereditato quasi tutti i suoi figli.
Ancora giovane, si era infortunato mentre lavorava nei campi, come bracciante, e non aveva più lavorato per i suoi. Il peso di tutta la famiglia era piombato sulle spalle della moglie, quando i figli erano così piccoli da poter dare solo impegni e apprensioni. Erano stati anni difficili: Angela ricordava la fame, il freddo...
La Mamma teneva a balia i figli d’altri e loro, quelli veri, dovevano curarsi l’un l’altro e contentarsi delle carezze stanche di lei, in piedi dall’alba, con un piccolo estraneo al seno e gli occhi segnati dalla fatica.
La carità di parenti e amici garantiva loro un po’ di pane, il latte. Al padre, i compagni dell’osteria riservavano sempre qualche bicchierino, quando faceva da arbitro, nella Morra.
Tornava a notte fonda, ondeggiando sulla bicicletta, e biascicava parole tedesche, che mai avrebbe saputo ripetere, quand’era sobrio. Sotto casa, appoggiava il piede al paracarro, per non cadere, poi chiamava urlando quelli dentro.
La moglie lo aiutava a scendere e, dopo averlo svestito in qualche modo, lo portava a letto. Lì, dove il piacere era tutto del maschio, geni ubriachi avevano dato ad Angela quel fratello, Fermo, il cui nome era quasi una beffa alla sua condizione.
All’inizio del matrimonio, forse, suo padre e sua madre si erano amati davvero. Angela lo credeva, lo sperava per lei, secondogenita di sei fratelli: voleva essere figlia di amore, non di una violenza coniugale, o del vino.
Riguardo all’unione dei genitori, però, la gente raccontava cose vaghe: un altro uomo, prima. La guerra.
Angela non aveva mai saputo nulla di preciso riguardo al passato sentimentale della madre. In verità non aveva neppure indagato a riguardo. Chiedere certe cose le sembrava inopportuno, poco discreto, fastidioso. In fondo ognuno ha diritto a un sé riposto, quello delle piccole e grandi colpe, quello dei pensieri notturni, dei ricordi che sempre vibrano dietro le palpebre del cuore.
Mentre pensava agli occhi dell’anima, si accorse che la madre socchiudeva i suoi e, con atto di volontà, si sforzava di riaprirli, per non mancare di attenzione nello sguardo verso Mario, che le stava parlando.
Angela propose: «Mamma, riposa un po’. Noi andiamo a bere un caffè con Fermo, così anche lui si distrae, al bar».
La madre sorrise e assentì, poi seguì i figli con la vista, mentre uscivano dalla stanza e si avviavano con Fermo lungo il corridoio.
Si sentiva stanca: le palpebre chiuse le davano una pausa di ombra in quella luce eccessiva, da cui le pareva fosse invasa la camera.
Nella penombra tornavano i ricordi. Ora che tre dei suoi figli l’avevano lasciata per qualche istante, quanto avrebbe voluto che altri tre venissero al suo capezzale.
Prima di tutti, il piccolo, mai vissuto, che per miracolo non l’aveva fatta morire. Per giorni l’aveva tenuto in sé, già morto, senza saperlo.
Quanto si era ignoranti, un tempo! Il dottore non si vedeva mai, e le cose del corpo, le cose del sesso, sapevano di peccato, di proibito.
Poi, al suo letto di ospedale, avrebbe voluto lei, la bionda Agostina, rosea e paffuta come un angelo... Come un angelo vissuta fino a quattro anni. Meningite, avevano detto. Poche ore di febbre altissima, il visetto di lei acceso, gli occhi lucidi, poi lontani. Li chiuse, pietosamente, la mano tremante della madre.
Se Agostina fosse venuta lì, avrebbe avuto la vestina bianca di quando fu sepolta, ma il viso no. Quello sarebbe stato pieno e vivo come lo ricordava lei, che l’aveva generata.
Eppure, più di tutti, aspettava lui, Mino, il figlio maggiore.
Era bello Mino: un viso da uomo, deciso, il labbro leporino appena segnato, che neppure si notava. Aveva spalle forti ed era alto, più del padre, più di tutti loro.
Era diverso dagli altri figli. Le ricordava sempre una persona che avrebbe voluto dimenticare, tanto amore, tanto odio aveva suscitato in lei, un tempo.
Un tempo... Prima della guerra. Lei aveva sedici anni.
Lui, ventenne, veniva da una cascina distante qualche chilometro. Nelle sere d’estate, di domenica, lo vedeva arrivare con la giacca buona e il cappello, sul carro carico di giovani che venivano dal suo podere. Al suo fianco, a cassetta, teneva una fisarmonica: il suo bene, diceva, l’oggetto di tutto il suo tempo libero, del suo studio cocciuto di autodidatta.
Lui smontava ed era subito festa. Si ballava sull’aia fino a tarda notte.
Carolina sentiva su di sé gli sguardi di lui, mentre danzava con il Papà o con qualche ragazzo amico: balli e risate, a piedi nudi, la faccia arrossata e gli occhi luminosi, quando incrociavano quelli del suonatore.
Talvolta lui posava la fisarmonica, affidandola con mille raccomandazioni a qualche compagno, e si dava a girare con finta indifferenza di crocchio in crocchio, accettando una sigaretta o una pacca sulla spalla da qualche bonario ammiratore del suo estro musicale.
Poi, come fosse un caso, lei se lo ritrovava accanto, sorridente e bello. Le chiese se le piaceva la musica e se si divertiva: «Sempre in volo» diceva «come una farfalla».
Una sera, mentre lei sedeva spossata dalla danza, lui venne a salutarla con un sorriso e un gesto che gli era abituale: si sollevò la tesa del cappello e si asciugò la fronte con il fazzoletto. Poi, repentinamente, s’inginocchiò a terra e le prese fra le mani i piedi scalzi, polverosi e induriti dalla terra: lei sentì in quell’insolito contatto un senso dolce e aggressivo. Il desiderio che quelle mani la sfiorassero ancora, in carezze che mai aveva provato.
Si vinse. Tolse i piedi dalle mani di lui, schermendosi con una risata e una battuta.
Lui non rise. Per un istante la fissò dritto nell’anima, poi schiuse le labbra in un sorriso breve e la lasciò, per tornare a suonare.
C’erano state altre feste.
Lei attendeva con ansia l’acciottolio del carro, sui sassi della strada. Un giorno, senza volere, si era ritrovata a camminare lungo il fosso, nella direzione da cui sapeva che lui sarebbe arrivato.
Si diede della sciocca, quella volta. Si diede della peccatrice, spesso, quando si sentiva così indifesa, così scoperta nel desiderio di quelle mani, di quel viso vicino e sorridente.
Le donne, per conto loro, qualcosa avevano capito.
La matrigna, poi, impietosa, la rimbrottava pesantemente, quando la scopriva assorta in un vago sorriso, con le mani nell’acquaio o nei panni da cucire. Allora, con cattiveria, la falsa madre fischiettava qualcuno dei motivi che lui abitualmente suonava, soprattutto quella canzone che lui aveva dedicato "Alla farfalla più bella e più leggera". E aveva guardato Carolina, quella volta. Lei era arrossita, come se tutti si fossero accorti di quello sguardo, avessero capito.
Nei sogni, si immaginava sposa: una veste chiara, fiori nei capelli e sul dito l’anello. Lui se lo vedeva accanto, con la giacca buona e il cappello, mentre le cingeva la vita e la attirava a sé. Oltre non andava, con la fantasia: già la prendevano inquietudini strane, e qualcuno le aveva inculcato che erano male e peccato.
Venne un periodo buio: il carro non si vedeva spesso come prima.
Il Paese era entrato in guerra. Molti uomini erano partiti, anche il Papà, che era caporale.
Lui venne a piedi, a cercarla.
L’estate era finita da un pezzo e la gente stava nella stalla, la sera, per scaldarsi e parlare.
Lui venne in mezzo a tutti e la chiamò per nome: «Carolina!», disse. «Voglio parlarti».
Lei si alzò e lo seguì, con gli occhi bassi, per evitare gli sguardi dei parenti: se li sentiva addosso, anche quando fu con lui nel cortile, oltre la porta della rimessa.
Mentre camminavano, lui la prese per mano. Lei s’irrigidì al contatto: faceva molto freddo, e la mano di lui, così calda, la metteva a disagio. Camminarono lungo il muro che racchiudeva l’aia, fino al fienile.
Lui disse: «Devo partire, domani».
Carolina capì: il fronte chiamava soldati. Così scriveva anche il padre, nelle sue ultime lettere. Dentro di sé sentì un vuoto, un gelo: prima il Babbo, poi lui.
La mano del ragazzo si era fatta ancora più calda, quasi avesse la febbre. Con l’altra le prese il fianco, con forza: «Ti dispiace almeno un po’? Almeno un po’ mi penserai? E adesso mi pensi, Carolina, mi vuoi?»
Parlava e l’attirava a sé, addossandola al muro. Non sembrava lui: gli occhi lucidi, la fronte sudata: «Là dovrò sparare, sai? Dovrò uccidere gente, Carolina. Io ci muoio, là, Carolina!». La voce si fece più roca: «Fammi l’amore, prima che vada».
Lei cercava di scostarsi. Non lo riconosceva, così addosso. Le sue mani si infilarono sotto la gonna, la sua bocca fu più vicina.
Carolina si divincolò, allontanandolo con tutta la forza che aveva. Lo fissò negli occhi, piena di umiliazione e paura.
Poi sentì una rabbia grande, voglia di andar lontano, di non vederlo mai più.
Lo lasciò appoggiato a quel muro con una mano, il capo chino, le spalle basse. Sconfitto, come mai avrebbe pensato di vederlo.
Così lo ricordò per il tempo che seguì e mai l’abbandonò la sensazione bruciante delle sue mani sulle cosce e la luce insana, cattiva, che gli aveva visto negli occhi.
Forse morì in guerra, come aveva mormorato quella sera.
Forse visse e andò lontano. Lei non lo seppe, non lo volle sapere mai.
Fu morto, per lei, in quella richiesta acerba, in quell’abbraccio senza grazia, contro il freddo di un muro.
In seguito, dopo qualche tempo, Carolina volle scegliere quello che sarebbe divenuto suo marito: uno dei braccianti che venivano al raccolto, un buon uomo più vecchio di lei. Sembrava un tipo solido, piaceva a suo padre, anche se non sapeva leggere e parlava poco, con lei. Erano cose di secondaria importanza, forse.
Si sposarono a guerra finita, a primavera.
A Gennaio, lei partorì il suo primogenito: lo chiamò Mino, così, il primo nome che venne loro in mente.
Ma lui, Mino, non fu mai un tipo ordinario. Fin da piccolo dimostrò i suoi talenti naturali: un’intelligenza pronta e vivace, impegno e determinazione in quel che faceva, amore per la famiglia, per la giustizia e l’onore, un’esigenza insopprimibile di libertà per sé e per gli altri.
La luce dietro le palpebre la disturbò: Carolina aprì gli occhi. Una suora aveva socchiuso le veneziane della finestra, perché doveva venire il prete, da lì a poco. «Per la Comunione» disse la suora alla malata. Lei sperò dentro di sé che si trattasse del Viatico. Lo desiderava: nella spossatezza innaturale in cui la lasciava la morfina, il male era sempre intenso, proprio lì, fra il cuore e la gola. Ad ogni fitta le pareva di sentirlo battere più forte, il cuore: «Chissà se i medici se ne accorgono?» si chiedeva.
Quando si sentiva affranta e dolente, a volte, come in quel momento, frugava con lo sguardo le proprie dita, lunghe e antiche, il dorso delle mani, quelle vene così rilevate, così scure che lo solcavano. Le ricordarono i serpenti che aveva visto appena sposa, su un viottolo fra i campi: bisce grosse, nere. Le avevano attraversato la strada, dileguandosi fra i canneti.
Aveva gridato di paura, sul momento, poi aveva cercato Papà e gli aveva raccontato di quell’incontro.
Il padre sapeva dei segni, sapeva dire cosa celassero i veli delle cose comuni, i simboli, le figure che popolavano i sogni della gente.
Quando ebbe udito il racconto della figlia, si fece pallido e l’abbracciò: «Lutti, Carolina...Fra i figli che avrai».
Carolina scoprì poi quanto quella profezia fosse vera: il bimbo morto nel ventre, Agostina, e lui, Mino.
La malata richiuse gli occhi. Dentro di sé rivedeva il figlio, mentre giocava coi fratelli, soprattutto con Angela. Fra loro due, i più grandi, si respiravano un affetto e un’armonia rari, preziosi: andarono presto al lavoro, come gli altri fratelli, appena dopo la licenza elementare. Il padre invalido non portava a casa denaro per vivere: la fame abitava con loro, a casa.
Eppure, dopo una giornata in ferriera o su un telaio, solo Angela e Mino si sottraevano alle chiacchiere e alle risate intorno al camino, dove cuoceva la polenta: facevano i compiti dei loro corsi per corrispondenza, quelli dell’"Istituto Volontà".
«Per migliorare», diceva Mino e Angela approvava, cullando anche di giorno, nel frastuono della tessitura, il sogno di diventare infermiera.
Lui voleva essere migliore. «Di chi?» sospirò Carolina.
Non degli altri fratelli, così diversi da lui: Federico e le bugie e i furti dal portamonete della madre; Mario, così indolente nello studio; e Fermo, che parlava a stento fra italiano e dialetto.
Era ricco, Mino. Ricco di sogni, di fantasia. Angela scriveva bene, ma lui aveva una mano felice nel disegno.
La domenica, con la bicicletta, andava lungo i campi e le rogge, con una tela legata a tracolla, oppure un pezzo di legno o cartone biaccato, su cui abbozzava scorci di campagna: una chiusa del canale, una geometria di pioppi vibrante di luce e di vento, una piccola chiesa sepolta nel verde, un vecchio ceppo contorto e annerito, vicino a un fosso. I colori erano di terra: ocra, verdi, bruni: qualche pennellata vivace nel cotto di una tettoia, uno sgranarsi d’indaco nella macchia del glicine, il fazzoletto giallo al suo collo, quando si fece un autoritratto, con quell’espressione limpida e dolce che molti amavano. Carolina adorava quel quadro: lui era bello, i capelli ondulati e folti, il sorriso appena segnato nel labbro, gli occhi luminosi, vivi. Un fiore di campo all’occhiello.
Quel dipinto e gli altri, i disegni e i bozzetti, lei li conservava con amore: li avrebbe appesi anche lì, se avesse potuto, sulle pareti squallide di una stanza d’ospedale.
Riaprì gli occhi.
Angela era tornata al suo capezzale: Fermo e Mario la salutarono con la mano, dalla porta, poi si allontanarono.
La figlia disse: «Mamma, viene il cappellano. Sai, c’è un uomo molto malato, nella stanza accanto alla tua: il prete gli porta l’Estrema Unzione. Vorresti...? Intanto che è qui... La Comunione, una preghiera magari».
«Voglio il Viatico!» Carolina fece un tenue sorriso alla reticenza della figlia.
Il prete venne subito e pregarono insieme, con fervore. Lui le unse il capo e i piedi: lei si sentì leggera, pronta all’Eucaristia. Dopoché si fu comunicata, si portò le mani al viso. Neanche così, con gli occhi coperti dalle palme, le riusciva di trovare un po’ di buio: una luce tanto intensa, sempre più vivida. E il male scomparve.
Angela non realizzò subito che la madre fosse spirata: il respiro estremo le parve un singhiozzo. «Stai male?» chiedeva.
Diede anche uno schiaffo, alla Mamma.
Lei non respirava più, le mani abbandonate, gli occhi ormai fissi.
Angela chiamò i medici. Gridava, chiedeva aiuto.
Lei era morta.
«Dio...», mormorava Angela. «Dio!». E poi si scusava con la Mamma per quello schiaffo e le baciava la fronte, ancora tiepida.
Lei era morta.
In qualche modo pregò, convinse i responsabili. Portarono la madre immediatamente a casa, con l’autoambulanza, fingendo che fosse in agonia. Angela non voleva che lei restasse nel gelo disperato dell’obitorio. La voleva a casa, da Mario.
Con l’aiuto della cognata, svestì la Mamma, la profumò di lavanda, quella colonia che lei amava tanto: tutte le sue cose, la biancheria, la sua stessa camera avevano quel profumo da sempre, e per tanto l’avrebbero conservato.
Le mise una bella veste di lana, nera a piccoli fiori bianchi.
Avrebbe potuto metterle un abito diverso, forse. Ma lei non avrebbe voluto, lei che aveva indossato il lutto per trent’anni, dalla morte di Mino, e mai l’aveva smesso.
Poi le aggiustò i capelli intorno al viso e le accomodò con amore la crocchia di piccole trecce, come tante volte le aveva visto fare, in un rito quotidiano: una piccola donna dai lunghi capelli, candidi e diritti, sempre più rari e lisci, con gli anni, sotto l’implacabile pettinessa.
Sotto le mani, giunte sul petto, mentre l’accomodavano nella bara, Angela pose quello che lei aveva desiderato: un cencio di lana ingiallita, con macchie scure e due fori. Aloni di sangue, di pianto. Segni di pallottole che uccisero.
La maglia di Mino, conservata per trent’anni, quella del figlio tanto amato. Quella di un uomo di ideali, un partigiano, freddato da un fascista che l’aveva scoperto, per il tradimento di una spia. Era tornato a casa, dalla madre, dopo mesi di latitanza: un saluto, un abbraccio, la ferita mortale. Cadde in grembo alla Mamma, quasi rendesse la vita là, dov’era cominciata.
Angela pensò a Mino, pensò alla madre e ai suoi trent’anni di dolore ostinato, silenzioso.
Vide madre e figlio ricongiunti nella morte, in quella vecchia maglia, nella reliquia di un mito sotto le mani bianche e gelide che un tempo l’avevano cullata.
E davvero si sentì infinitamente sola e viva.

venerdì 25 aprile 2008

Angelo ZANONI


Tornava a casa, come la rondine di poascoliana memoria.
Tornava a trovare sua madre dopo mesi alla macchia nella Squadra Azione Partigiana che operava nel cremasco. era sopravvissuto a tanta, troppa guerra, uno dei pochi partigiani scampati alla rappresaglia delle SS tedesche nelle alpi valtellinesi.
Poco più che ventenne venne sparato più volte, anche quand'era già ferito e a terra.
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Colpito a morte il 16 Marzo del 1945 morì il 6 Aprile senza riuscire a vedere libera la sua terra.
Un partigiano di un piccolo paese che racchiude la memoria che mi aiuta a ricostruire e a non dimenticare.
Io non so quante persone abbia ucciso nella sua lotta per la nostra libertà, so solo che lui è stato ucciso così prossimo al suo ideale che non può essere che considerato un eroe, uno di quelli più umili e meno noti, uno dei tanti che sono grandi comunque e a prescindere...posso dire di volergli bene e questo altro non è che il mio piccolo contributo a chi non ho mai conosciuto ma stimo profondamente.

lunedì 21 aprile 2008

Come un killer sotto il sole


Tutti hanno un segreto, Sonny,
qualcosa che non riescono a guardare in faccia.
Alcuni passano tutta la vita a cercare di nasconderlo,
se lo portano addosso a ogni passo,
fino a che un giorno se ne liberano,
se ne liberano o lasciano che li trascini sul fondo,
là dove nessuno fa più domande
né perde tempo a guardarti in faccia,
nel buio ai margini della città.

Bruce Springsteen, Darkness on the edge of town

Come un bambino mai nato


Come un bambino mai nato
il senso di questo giorno
e dei giorni dove il sole affoga.
Laghi e pozze
fangose, la pioggia scroscia
senza luce, senza fine.

Non volevo una vita così
mendicando amore
parassita di famiglie altrui.
Sono qui, sembra dire il mio corpo,
fatta guscio al vostro dolore.
Ma del piacere, scusate
prendo solo una goccia, un soffio.

Centesimi e briciole di bene
fra di voi quietamente condiviso
per l’amica inquieta, per la donna sola
per la sorella invecchiata
prima di essere cresciuta.

La linea continua mi esclude.
La contemplo e non mi contempla.
Da ogni angolo acuto, spezzata
sanguino piano
il sangue stinto dei vecchi.

venerdì 18 aprile 2008

Di Draghi che in Noi

Assordante silenzio
è fiato che senti e non vuoi
è dietro di te.

Calcando bui percorsi
di ansia e mestizia
c'è un solo riscontro
che palpebre urta ed incarna.

A guisa di antro
un cuore s'inombra
e perpetua nei ritmici
Inverni del nostro scontento.

Scivolanti declivi
di nere scoscese e piovaschi
ad eludere chiome e cipressi
sferzati da gelido vento
percorsi interiori dilagano.

giovedì 17 aprile 2008

Il codirosso si rivela


In un muro di una vecchia fabbrica di ghiaccioli,
un brutto, infinito rettangolo di cemento pieno di crepe,
un paio di buchi ospitano un mistero:
un codirosso spazzacamino, in cova.
Se ti sente e lo disturbi, esce dal suo anfratto e si apposta nelle vicinanze,
controllando i movimenti del potenziale invasore.
Un uccellino bellissimo, la coda vermiglia in continuo movimento.
Uno di quelli che amano le cime delle montagne.
Eppure ha fatto nido nel suburbio.
Resta splendido, la vita gli brilla negli occhi, gli rosseggia nella coda.
C'è speranza per tutti.
Anche tra le fabbriche di Corsico.

giovedì 10 aprile 2008

Il senso dell’acqua



La coscienza è l’anello
dove appendi il giorno.
E la catena dei pensieri
dondola al ritmo della malinconia.
Batte mesta l’onda
dei ricordi
e di fiume
un velo s’adagia
verde
sulle maglie della memoria.

Il lago è immobile
Non c’è luce, a riva.
Ricordare
non porta all’alba.
Ricordare
non fa di questa muta pioggia
il senso dell’acqua,
la geometria dei cristalli
un riflesso
un guizzo
per poter vivere ancora.

mercoledì 9 aprile 2008

Lontano dagli Occhi




Dall'alto della sua collina Tony avrebbe potuto abbracciare tutto il paesaggio sottostante.
Lo fece.
Aprì le braccia in un ampio gesto e, senza dire una parola, lo fece.
Seguì con lo sguardo il percorso tortuoso del fiume, giù, fino alla casupola di tronchi e sassi che lo stava ospitando ormai da alcuni giorni.
Si accese una sigaretta bestemmiando contro il vento poi si concentrò ad assaporare l'acre aroma del tabacco che si andava infiltrando, calmandogli l'ansia, tra i suoi polmoni.
Ritto, in cima alla collina, ripassò mentalmente la lunga lezione della vita senza riuscire a trarne alcuna valida conclusione.
Cominciò la discesa che già il sole si andava velando dei caldi colori del crepuscolo, rialzò con gesto consumato il bavero del giubbotto e, scrollando le spalle, si avviò.

- Vuoi farmi fumare? -
Il ricordo di quelle poche parole ancora gli ronzava per la testa in modo quasi fastidioso.
Aveva appena avuto il tempo di ingollare un mezzo bicchiere di birra scura che quella domanda gli era improvvisamente rocambolata tra i pensieri distogliendolo dai suoi processi mentali.
- Perchè no? - le rispose e portò istintivamente la mano al taschino della sua camicia scozzese per estrarre il pacchetto stropicciato delle sigarette.
...quanto tempo era passato da allora?..


Il rumore di un tuono lontano riuscì a riportarlo al suo presente di discesa solitaria lungo il ripido sentiero che costeggiava il fianco ovest della collina.
Imprecò scivolando su un sasso umido ma non rallentò l'andatura temendo di essere sorpreso dall'imminente arrivo del temporale.
Tra un passo e l'altro lanciò rapide occhiate al cielo per tenere sotto controllo la situazione ma non sembrò essere eccessivamente preoccupato per ciò che sarebbe inevitabilmente accaduto.
Il buio e la pioggia lo sorpresero poco prima del guado al piccolo ruscello.
Si fermò per un attimo a guardare il fondersi leggero dei cerchi sull'acqua.

L'odore aromatico del caffè pervadeva il locale debolmente illuminato dai riverberi rossastri provenienti dal camino.
Fuori da quell'ambiente tiepido ed accogliente il temporale si era mutato in tempesta e lunghe raffiche di vento costringevano le chiome dei larici secolari in una folle danza spettrale.
Ogni tanto, ad intervalli regolari, Tony credette di riuscire a percepire il suono lontano della campana del paese che, imperturbabile, continuava a scandire lo scorrere delle ore.

- Stai aspettando che si accenda da sola?
- Scusami, - le rispose - stavo pensando ad altro...questa birra è uno schifo...
Già.., quanto tempo era passato da allora...

- Strano modo di destreggiarmi. - riflettè poco convinto mentre, seduto con i piedi appoggiati sul vecchio ceppo posto di fianco al camino, stava religiosamente sorseggianndo una tazza stracolma di caffè.
- Sarei anche potuto rimanere: in fondo cosa avrei avuto da perdere?
L'orgoglio forse?
A quella parola il peso dei suoi pensieri gli fece vacillare il ricordo.
Per un istante perse la cognizione delle cose.
Fu solo un attimo.
Poco dopo si rialzò scacciando faticosamente dalla mente la lunga lista dei fantasmi e delle situazioni.
Lo infastidiva ricordare, si sentiva vecchio e questo non gli andava per niente.
- Dopo questa pioggia le acque del fiume si intorbidiranno, - pensò - sarà utile che mi conceda qualche ora di sonno...domani le trote saranno sicuramente in caccia!
Riordinò l'attrezzatura da pesca adagiandola vicino alla porta di casa e la passò minuziosamente in rassegna.
Non avrebbe lasciato niente al caso.
Sciacquò con noncuranza la tazza ormai vuota, si tolse le scarpe infangate e ancora umide e si infilò completamente vestito nel sacco a pelo vicino al fuoco.
L'ultima cosa che sentì prima di prendere sonno fu il tichettio ormai fattosi rado della pioggia sui vetri sporchi della piccola finestra ed intravide di sfuggita le ultime gocce scivolare rapide verso il terreno.
I primi chiarori dell'alba lo scoprirono su un'ansa tranquilla e profonda del fiume intento a respirare a pieni polmoni l'aria ancora satura di umidità.
Col passare dei minuti intorno a lui le sagome indistinte della notte ripresero le loro forme consuete.
Il rumore improvviso provocato dal salto di una grossa trota scosse il silenzio quasi irreale del bosco e diede il segnale d'avvio alla battuta...

- Fuori da una bar dentro in un altro, ti ricordi Mark?
- Si, - annuì l'amico - ricordo perfettamente. - e si rimise di nuovo a leggere.
- Probabilmente ci faceva anche comodo buttarci via lungo le strade.
Trovavamo un senso per ogni cosa ed era divertente.
Si, era proprio divertente. - continuò Tony vuotando il posacenere traboccante di mozziconi mentre nella via il rumore delle auto si andava diradando in fretta.
- Ne vuoi un altro goccetto? - intervenne Mark che, senza attendere una risposta, riempì quasi meccanicamente di nuovo i bicchieri.
Insieme ripresero a bere in silenzio...

...Tony, dopo averle accuratamente eviscerate e pulite cucinò due belle trote direttamente sul luogo di pesca servendosi di due grosse pietre precedentemente arroventate.
Non che avesse particolarmente fame ma ciò che stava facendo gli trasmetteva una gradevole sensazione.
Ormai il sole era alto sul mondo.
- Tutto è relativo! - gridò a squarciagola ed un coniglio selvatico, spaventatosi per il suono inconsueto della voce umana, si dileguò come un fulmine nell'abbraccio sicuro della macchia di rovi.
- Si, tutto è relativo!
Sulla scia persistente dell'eco di quelle ultime parole Tony riprese allegramente la via di casa lasciando gli avanzi delle trote alle formiche.
Nella quiete della foresta niente sembrava perdere importanza, ogni cosa al suo posto, intaccata solo dal leggero velo del tempo.
Nel cielo le lente spirali dell'aquila.

venerdì 4 aprile 2008

Quadri nella mia Vita



La primavera secondo Monet non è che una deflagrante esplosione di toni chiari ed irregolari; è suadente ma mai invadente. Riesce con calma ad insinuarsi nei sensi e mostra cieli tersi traboccanti di tepore, luminosi come non mai; è la natura che prende posto di protagonista ed anche dove compare la figura umana è sempre vissuta come un aggettivo necessario ma non fondamentale. Esseri umani ed animali giocano con la stagione a cercarne i colori ed assaporarne i profumi. E' bella Giverny (piccolo villaggio non lontano da Parigi) con i suoi pioppi ed i fiori variopinti, è bella nei sensi di Monet che la vive e si inebria di lei, l'artista non è mai succube del posto in cui ha scelto di vivere gli ultimi anni della sua vita.
La positività dei suoi pensieri la si ritrova nei suoi dipinti e, per fortuna, la sua lunga vita ci ha dato la possibilità di osservare l'evoluzione della sua pittura fino alle impressioni più intime e personali, quelle impercetibili sottigliezze che colgono perfino l'impalpabilità del vento e ne fanno colore e luce.


nasce a Parigi il 14 novembre 1840.
A cinque anni si trasferisce con la famiglia a Le Havre, è qui che studia disegno, manifestando una grande passione per la caricatura in generale.
Sotto la guida di Boudin, suo primo vero maestro, che incontra nel '58, impara ad amare la pittura 'en plein air'.
Nel 1859 si reca a Parigi, frequenta l'Académie Suisse, dove conosce Pissarro, ma più proficue per il suo futuro svolgimento artistico sono le discussioni alla Brasserie des Martyrs e la conoscenza delle opere di Delacroix.
Dopo due anni di vita militare in Algeria, nel '62 ritorna a Le Havre dove passa l'estate dipingendo in compagnia di artisti del calibro di Boudin e di Jongkind. Ritorna a Parigi, frequenta l'atelier Gleyre, dove ben presto, insieme a Renoir, Bazille e Sisley, forma un gruppo di pittori indipendenti e ribelli all'insegnamento del maestro, troppo vincolato ai canoni tradizionali.

Sono anni di dure difficoltà e di miseria.
Lavora accanitamente nella foresta di Fontainebleau, lungo la Senna e in Normandia.
Nel 1866 il suo ritratto di Camille Doncieux ottiene al Salon un discreto successo.
Nel 1874, alla prima mostra degli impressionisti, di cui è uno degli organizzatori, espone quella sua tela ' Impression: soleil levant ' che darà il nome a tutto il gruppo.
Queste mostre si ripeteranno nel '76, '77, '79, '80, '81, '82 e '86; Monet però non parteciperà né alla sesta e ottava edizione, in polemica con le scelte operate da alcuni promotori. Ancora mille difficoltà, malattie, povertà, perdita di persone amate, disprezzo del pubblico e della critica, angustieranno la sua vita.
Raggiunti finalmente onori e lodi, trascorre gli ultimi decenni, lavorando intensamente, a Giverny, ove muore il 5 dicembre del 1926.

mercoledì 2 aprile 2008

Il vento del tramonto



Il vento del tramonto
teso e fresco
gonfia vele che non ho
spinge a un porto
che non c’è.

Tale dolcezza dal sole
disciolto
in impressioni amaranto
meriterebbe un approdo.

E ancora vado
avvinta alle caviglie
da antiche gomene
che nel crepuscolo
sinuose
fluttuano in lunga scia.

Le luci sono lontane.
Né casa
né pallide stelle.

Solo l’odore di sera
ed io
a cercarlo nel cielo.