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L'ombra è l'opposto del sole, ma si nutre di esso.
Un cielo grigio non genera ombre: nessun contrasto, nessun pensiero.


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mercoledì 29 settembre 2010


FANTASIA SETTEMBRINA

Questa notte è passato l’autunno:
l’accompagnava un’orchestrina arguta
di pioggia e folatelle e gli gemeva
una ballata, carezzosamente.
Tutto il corteo ha danzato sopra i tegoli
E zampettato dentro la grondaia
Fin dopo il tocco; poi la brigatella
Si è incamminata verso la montagna,
col suo fulvo signore. E tutta notte
hanno gozzovigliato in mezzo ai boschi,
i gaietti compari. In lunghe file,
hanno scalato i dossi più audaci,
hanno ridato come pazzi in vetta
ai roccioni più aspri. Verso l’alba,
si son scagliati in basso a precipizio,
scivolando sul capo dei castani,
investendo a rovina le betulle,
lacerando fra i ciuffi di robinie
le tuniche dorate, abbandonando
i drappeggi di nebbia in mezzo ai rovi.
Stamane, di buon’ora, quando il sole
Ha profilato d’oro le montagne,
si sono dileguati. Ma sul dorso
d’ogni boscaglia, son rimaste tracce
del festino notturno: guizzi gialli,
guizzi rossastri, appesi ad ogni ramo
come stelle filanti; manciatelle
di ruggine nel folto del fogliame
come pugni sfacciati di coriandoli;
tazzettine di colchici, smarrite
dalle fate nei prati, per la fretta;
e in noi, l’eco affiochita delle nenie
frusciate dalla pioggia, nella notte;
in noi una bontà dimenticata
- tenerezza calduccia di bambino -
in noi un abbandono senza nome
- desiderio di brace e carezze -

Antonia Pozzi

martedì 28 settembre 2010

Impressioni di settembre
Premiata Forneria Marconi (PFM)
Mogol - Pagani - Mussida (1971)

Quante gocce di rugiada intorno a me
cerco il sole, ma non c'è.
Dorme ancora la campagna, forse no,
è sveglia, mi guarda, non so.
Già l'odor di terra, odor di grano
sale adagio verso me,
e la vita nel mio petto batte piano,
respiro la nebbia, penso a te.
Quanto verde tutto intorno, e ancor più in là
sembra quasi un mare d'erba,
e leggero il mio pensiero vola e va
ho quasi paura che si perda...
Un cavallo tende il collo verso il prato
resta fermo come me.
Faccio un passo, lui mi vede, è già fuggito
respiro la nebbia, penso a te.
No, cosa sono adesso non lo so,
sono un uomo, un uomo in cerca di se stesso.
No, cosa sono adesso non lo so,
sono solo, solo il suono del mio passo.
e intanto il sole tra la nebbia filtra già
il giorno come sempre sarà

.

lunedì 27 settembre 2010



AMORE VIVO

Amo il biondo ed il fuoco;
amo l'estate
Più della primavera,
Le donne indebitate,
Trenta e quaranta,
la rossa e la nera.
Amo gli acri profumi e la riviera,
Musset, le schioppettate,
La birra di Baviera
E il compagno di Sant'Antonio abate.
Ed amo te, Francesca,
Te bionda come la birra tedesca,
Te infocata che abbruci e che consumi,
Che a Montecarlo sei,
Circondata da un nuvolo d'ebrei.
Spumeggiante nel brago e nei profumi.

Remigio Zena

venerdì 24 settembre 2010

Don Chisciotte

O caro Don Chisciotte, o Cavaliere
dalla Triste Figura
girasti il mondo in cerca d'avventura,
con Ronzinante e Sancio il tuo scudiere,
pronto a combattere senza paura
per ogni causa pura.
Maghi e stregoni ti facevano guerra,
e le pale incantate dei mulini
ti gettavano a terra;
ma tu, con le ossa rotte,
nobile Don Chisciotte,
in sella rimontavi e, lancia in resta,
tornavi a farti rompere la testa.
In cuore abbiamo tutti un Cavaliere
pieno di coraggio,
pronto a rimettersi sempre in viaggio,
e uno scudiero sonnolento,
che ha paura dei mulini a vento...
Ma se la causa è giusta, fammi un segno,
perché
- magari con una spada di legno -
andiamo, Don Chisciotte, io son con te!

Gianni Rodari

giovedì 23 settembre 2010


Autunno

Già lo sentimmo venire
nel vento d'agosto,
nelle pioggie di settembre
torrenziali e piangenti
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste,
accoglie un sole smarrito.
Ora che passa e declina,
in quest'autunno che incede
con lentezza indicibile,
il miglior tempo della nostra vita
e lungamente ci dice addio.

Vincenzo Cardarelli

mercoledì 22 settembre 2010

CASTORE e POLLUCE


Conosciuti come Dioscuri, cioè "figli di Zeus", erano gemelli figli di Leda, moglie del re di Sparta, ma erano gemelli particolari, nati da due uova che contenevano uno Polluce ed Elena e l'altro Castore e Clitennestra.
In molti racconti soltanto Polluce era immortale, essendo stato concepito quando Zeus aveva assunto le sembianze di un cigno per sedurre Leda.

Castore, come Elena e Clitennestra, era mortale, figlio di Tindaro, con il quale Leda, inconsapevole di essere stata fecondata da Giove, su era congiunta la stessa notte.
Eroi spartani per eccellenza, Castore e Polluce vissero poco prima della guerra di Troia.
I due inseparabili gemelli parteciparono a molte famose imprese, tra cui la spedizione contro Atene, quando Teseo rapì Elena da Sparta, la spedizione degli Argonauti alla conquista del Vello d'Oro e la lunga lotta con i figli di Afareo (Idas e Linceo) insieme
ai quali avevano rubato un bellissimo gregge in Arcadia.
Questa ultima avventura si concluse male perchè al momento della spartizione del bottino Idas si prese la maggior parte del gregge portandoselo nella sua terra, a Messene.
Castore e Polluce andarono a loro volta a Messene per recuperare il gregge.
Nello scontro Castore venne ferito mortalmente dalla lancia di Idas, Polluce uccise Linceo e, quando Idas gli ruppe una roccia in testa, Zeus suo padre, intervenì incenerendolo con un fulmine.
Sostenendo Castore morente, per non essere divisi, Polluce implorò Zeus di far morire anche lui oppure di dare l'immortalità anche al fratello.
Zeus esaudì per metà la preghiera di Polluce decise di ricongiungerli permettendo loro di stare insieme per sempre, metà del tempo agli Inferi e metà con gli dei sul monte Olimpo.
Secondo un'altra leggenda Zeus concesse loro di vivere e morire un giorno per ciascuno trasformati nella costellazione dei Gemelli.
Infatti, nella costellazione dei Gemelli, una delle stelle principali si nasconde sotto l’orizzonte quando appare l’altra, ricordando permanentemente il destino che unisce i due fratelli.
La mitologia classica descrive i due gemelli come inseparabili, guerrieri intrepidi e abili domatori di cavalli. Sia i Greci che i Romani considerano i Dioscuri i protettori degli uomini da ogni pericolo e in ogni difficoltà, sulla terra e sul mare.

martedì 21 settembre 2010

Il pensiero dominante

Dolcissimo, possente
Dominator di mia profonda mente;
Terribile, ma caro
Dono del ciel; consorte
Ai lúgubri miei giorni,
Pensier che innanzi a me sì spesso torni.
Di tua natura arcana
Chi non favella? il suo poter fra noi
Chi non sentì? Pur sempre
Che in dir gli effetti suoi
Le umane lingue il sentir propio sprona,
Par novo ad ascoltar ciò ch'ei ragiona.
Come solinga è fatta
La mente mia d'allora
Che tu quivi prendesti a far dimora!
Ratto d'intorno intorno al par del lampo
Gli altri pensieri miei
Tutti si dileguàr. Siccome torre
In solitario campo,
Tu stai solo, gigante, in mezzo a lei
Che divenute son, fuor di te solo,
Tutte l'opre terrene,
Tutta intera la vita al guardo mio!
Che intollerabil noia
Gli ozi, i commerci usati,
E di vano piacer la vana spene,
Allato a quella gioia,
Gioia celeste che da te mi viene!
Come da' nudi sassi
Dello scabro Apennino
A un campo verde che lontan sorrida
Volge gli occhi bramoso il pellegrino;
Tal io dal secco ed aspro
Mondano conversar vogliosamente,
Quasi in lieto giardino, a te ritorno,
E ristora i miei sensi il tuo soggiorno.
Quasi incredibil parmi
Che la vita infelice e il mondo sciocco
Già per gran tempo assai
Senza te sopportai;
Quasi intender non posso
Come d'altri desiri,
Fuor ch'a te somiglianti, altri sospiri.
Giammai d'allor che in pria
Questa vita che sia per prova intesi,
Timor di morte non mi strinse il petto.
Oggi mi pare un gioco
Quella che il mondo inetto,
Talor lodando, ognora abborre e trema,
Necessitade estrema;
E se periglio appar, con un sorriso
Le sue minacce a contemplar m'affiso.
Sempre i codardi, e l'alme
Ingenerose, abbiette
Ebbi in dispregio. Or punge ogni atto indegno
Subito i sensi miei;
Move l'alma ogni esempio
Dell'umana viltà subito a sdegno.
Di questa età superba,
Che di vote speranze si nutrica,
Vaga di ciance, e di virtù nemica;
Stolta, che l'util chiede,
E inutile la vita
Quindi più sempre divenir non vede;
Maggior mi sento. A scherno
Ho gli umani giudizi; e il vario volgo
A' bei pensieri infesto,
E degno tuo disprezzator, calpesto.
A quello onde tu movi,
Quale affetto non cede?
Anzi qual altro affetto
Se non quell'uno intra i mortali ha sede?
Avarizia, superbia, odio, disdegno,
Studio d'onor, di regno,
Che sono altro che voglie
Al paragon di lui? Solo un affetto
Vive tra noi: quest'uno,
Prepotente signore,
Dieder l'eterne leggi all'uman core.
Pregio non ha, non ha ragion la vita
Se non per lui, per lui ch'all'uomo è tutto;
Sola discolpa al fato,
Che noi mortali in terra
Pose a tanto patir senz'altro frutto;
Solo per cui talvolta,
Non alla gente stolta, al cor non vile
La vita della morte è più gentile.
Per còr le gioie tue, dolce pensiero,
Provar gli umani affanni,
E sostener molt'anni
Questa vita mortal, fu non indegno;
Ed ancor tornerei,
Così qual son de' nostri mali esperto,
Verso un tal segno a incominciare il corso:
Che tra le sabbie e tra il vipereo morso,
Giammai finor sì stanco
Per lo mortal deserto
Non venni a te, che queste nostre pene
Vincer non mi paresse un tanto bene.
Che mondo mai, che nova
Immensità, che paradiso è quello
Là dove spesso il tuo stupendo incanto
Parmi innalzar! dov'io,
Sott'altra luce che l'usata errando,
Il mio terreno stato
E tutto quanto il ver pongo in obblio!
Tali son, credo, i sogni
Degl'immortali. Ahi finalmente un sogno
In molta parte onde s'abbella il vero
Sei tu, dolce pensiero;
Sogno e palese error. Ma di natura,
Infra i leggiadri errori,
Divina sei perchè sì viva e forte,
Che incontro al ver tenacemente dura,
E spesso al ver s'adegua,
Nè si dilegua pria, che in grembo a morte.
E tu per certo o mio pensier, tu solo
Vitale ai giorni miei.
Cagion diletta d'infiniti affanni,
Meco sarai per morte a un tempo spento:
Ch' a vivi segni dentro l'alma io sento
Che in perpetuo signor dato mi sei.
Altri gentili inganni
Soleami il vero aspetto
Più sempre infievolir. Quanto più torno
A riveder colei
Della qual teco ragionando io vivo
Cresce quel gran diletto,
Cresce quel gran delirio, ond'io respiro.
Angelica beltade!
Parmi ogni più bel volto, ovunque io miro,
Quasi una finta imago
Il tuo volto imitar. Tu sola fonte
D'ogni altra leggiadria,
Sola vera beltà parmi che sia
Da che ti vidi pria,
Di qual mia seria cura ultimo obbietto
Non fosti tu? quanto del giorno è scorso,
Ch'io di te non pensassi? ai sogni miei
La tua sovrana imago
Quante volte mancò? Bella qual sogno,
Angelica sembianza,
Nella terrena stanza,
Nell'alte vie dell'universo intero,
Che chiedo io mai, che spero
Altro che gli occhi tuoi veder più vago?
Altro più dolce aver che il tuo pensiero?


Giacomo Leopardi



lunedì 20 settembre 2010

LUCE IN NUCE

I

Luce
luce in nuce
abscondit nux lucem
la greve noce
nasconde luce
siccome scrigno serrato
il diamante

Oltre i confini
della lingua
cerco luce

II

Un grido echeggia:
lux extra nucem
natus est nobis puer

Adamo
è uscito dall'ombra
dall'oscuro involucro

Gianni Gasparini, 1993





venerdì 17 settembre 2010

La camicia della trisavola

Quando (il tempo non ricordo!)
cani, gatti, topi a schiera
ben si misero d'accordo
c'era, allora, c'era... c'era...

... un orfano detto Prataiolo, tardo e trasognato, tenuto da tutti per un mentecatto. Prataiolo mendicava di porta in porta ed era accolto benevolmente dalle massaie e dalle fantesche, perché tagliava il legno, attingeva al pozzo; e quelle lo compensavano con una ciotola di minestra. Ma quando Prataiolo compì i diciott'anni, il vicinato cominciò ad accoglierlo meno bene ed a rimproverargli il suo ozioso vagabondare.

Tanto che egli decise di lasciare il paese e di mettersi pel mondo alla ventura.

Andò a salutare la sua sorella di latte, Ciclamina, e questa gli disse:

- Voglio darti una piccola cosa, per mio ricordo. Non sono ricca e non posso fare gran che. Aggiungerò al tuo fardello una logora camicia della mia trisavola, che era negromante.

Prataiolo non poté nascondere un sorriso di delusione.

- Non sdegnare il mio dono, o Prataiolo. Ti sarà più utile che tu non pensi. Ti basterà distendere la camicia per terra e comandare ciò che vorrai: e ciò che vorrai sarà fatto.

Prataiolo prese il dono, abbracciò la sorella, e partì. Verso sera sentiva appetito e trovandosi senza provviste e senza denaro, cominciava ad inquietarsi, perché aveva ben poca fiducia nella tela miracolosa.

Volle provare, tuttavia; la distese in terra e mormorò:

- Camicia della trisavola, vorrei un pollo arrosto!

Ed ecco disegnarsi a poco a poco l'ombra di un pollo, leggiera dapprima e trasparente, poi più densa e concreta, solida e dorata come un pollo naturale. E un profumo delizioso si diffondeva intorno.

Prataiolo non osava toccarlo, temendo un malefizio. Poi si chinò, lo palpò, ne strappò un'ala, la portò alla bocca.

Era un pollo autentico e squisito. Ordinò allora una torta allo zibibbo, un piatto di pesche, una bottiglia di Cipro.

E tutto si disegnava leggiero, si concretava a poco a poco sulla camicia miracolosa.

Prataiolo mangiava tranquillo, seduto sull'erba, quando vide sulla strada maestra un mendicante che lo fissava muto e supplichevole.

- Posso offrirti, compagno?

Il vecchio non si fece pregare e divise il banchetto con lui.

Ma quando vide la comparsa meravigliosa delle portate, pregò il ragazzo di donargli la tela magica.

- Ti darò questo mio bastone in compenso.

- E che vuoi che ne faccia?

- Se tu sapessi la virtù di questo mio bastone, accetteresti con gioia. Contiene mille piccole celle ed ogni cella racchiude un cavaliere armato e un cavallo bardato di tutto punto. Ogni volta che avrai bisogno d'aiuto ti basterà comandare: " Fuori l'armata!".

Prataiolo aveva sempre sognato d'essere generale e non poté resistere a quella tentazione: accettò il cambio e si mise in cammino. Ma dopo poche ore era già pentito.

- Ho fame e non ho più la mia camicia! A che può giovarmi un 'armata quando lo stomaco è vuoto?

L'appetito cresceva e per distrarsi egli puntò in terra il bastone e comandò:

- Fuori l'armata!

Ed ecco un fruscìo dal di dentro, poi aprirsi nel legno tante piccole finestre e da ogni finestra uscir fuori un cosino minuscolo come un'ape; poi crescere in pochi secondi, crescere, formare all'intorno una muraglia di cavalli scalpitanti e di cavalieri armati.

Prataiolo guardava trasognato.

- Che cosa comandate, signor generale?

Egli ebbe un'idea.

- Che mi sia riportata la camicia della trisavola!

L'armata partì di gran galoppo, sparve all'orizzonte, e poco dopo era di ritorno con la tela miracolosa.

- L'armata rientri in caserma! ...

Prataiolo puntò il bastone in terra. Cavalli e cavalieri presero a rimpicciolire, in pochi secondi ritornarono minuscoli come api, rientrarono nelle cellette che si rinchiusero sul legno senza lasciar traccia.

Prataiolo era felice.

Riprese la via e giunse ad un mulino.

Il mugnaio era sulla soglia e suonava il flauto: la moglie e i suoi nove figli danzavano intorno. Prataiolo sentì che avvicinandosi gli cresceva una voglia irresistibile di muover le gambe; poi fu costretto da una forza ignorata a ballare con gli altri ballerini.

Sentiva intanto la moglie del mugnaio che danzando gridava furibonda al marito:

- Basta! Basta! Uomo senza cuore! Dacci del pane invece che costringerci a ballare!

Poi rivolgendosi a Prataiolo che ballava con loro:

- Vedete? Questo mascalzone di marito, quando lo si prega di sfamarci, prende il suo flauto dannato e ci costringe a ballare!

Il mugnaio, quando gli piacque, smise di suonare e la moglie, i figli, Prataiolo caddero sfiniti dalla ridda vertiginosa. Prataiolo, riprese le forze, distese la camicia della trisavola e comandò un pranzo magnifico. Invitò il mugnaio e la sua famiglia sbigottita a dividere il pasto. Quelli non si fecero pregare, e giunti alle frutta il mugnaio disse:

- Cedimi la camicia ed io ti do il mio flauto.

Prataiolo accettò il cambio, già sicuro di ciò che doveva fare poco dopo. Giunto, infatti, a dieci miglia dal paese, spedì i mille cavalieri che gli riportarono la tela.

- Ed eccomi ora possessore della camicia, del bastone, del flauto magico... Non posso desiderare di più.

Arrivò verso sera in una città e vide grandi annunci a vivi colori. Si accordava la mano della figlia del Re a chi sapeva guarirla della sua insanabile malinconia.

Prataiolo si presentò subito alla Reggia. Il Re dava quella sera un banchetto di gala agli ambasciatori del Gran Sultano, ma, udita la profferta dello sconosciuto, lo fece passare all'istante. Prataiolo entrò nella sala immensa, e fu abbagliato dallo sfolgorio degli ori e delle gemme.

Sedevano a mensa più di cinquecento persone, con a capo il Re, la Regina e la Principessa, bella ed assorta, pallida come un giglio.

Prataiolo fece legare da un servo le gambe della Principessa, senza che i commensali se n'avvedessero, poi si rifugiò in un angolo e cominciò le prime note. Ed ecco un agitarsi improvviso fra i commensali, un fremere di gambe e di ginocchia... Poi tutti s'alzano d'improvviso, scostano le sedie, cominciano a ballare guardandosi l'un l'altro, spaventati.

Principi, baroni, ambasciatori panciuti, baronesse pingui e venerabili, servi e coppieri, e financo i veltri, i pavoni, i fagiani farciti nei piatti d'oro, tutti si animarono, cominciarono a ballare la danza irresistibile.

- Basta! Basta! Per pietà! - gridavano i più vecchi e i più pingui.

- Avanti! Avanti ancora! - dicevano i più giovani, tenendosi per mano.

La Principessa, legata alla sua sedia, tentava anch'essa d'alzarsi e guardava gli altri, e rideva giubilante. Quando piacque a Prataiolo, il suono cessò e i cinquecento ballerini caddero sfiniti sulle sedie e sui tappeti, le dame senza scarpette e senza parrucca. La Principessa rise per un'ora e quando poté parlare disse al Re:

- Padre mio, costui mi ha risanata ed io sono la sua sposa.

Il Re acconsentì, ma Prataiolo esitava.

- Ho lasciata al paese la mia sorella di latte, bella come il sole e alla quale devo la mia fortuna; vorrei farvela conoscere.

- Partite, dunque, e portatela fra noi - dissero i commensali.

I mille cavalieri comparvero, occupando la sala immensa, fra lo stupore generale.

- Mi sia portata Ciclamina, la mia piccola sorella -. E l'armata attraversò la Reggia, le sale, gli scaloni, con gran fragore. Poco dopo era di ritorno con la sorella Ciclamina. La fanciulla fu trovata così bella, che un ambasciatore se ne innamorò all'istante.

E in uno stesso giorno furono celebrate le doppie nozze.


Guido Gozzano

giovedì 16 settembre 2010


Acqua alpina

Gioia di cantare come te, torrente;
gioia di ridere
sentendo nella bocca i denti
bianchi come il tuo greto;
gioia d'essere nata
soltanto in un mattino di sole
tra le viole
di un pascolo;
d'aver scordato la notte
ed il morso dei ghiacci.

Antonia Pozzi
(Breil) Pasturo, 12 agosto 1933

martedì 14 settembre 2010




Gli odori dei mestieri

Io so gli odori dei mestieri:
di noce moscata sanno i droghieri,
sa d'olio la tuta dell'operaio,
di farina il fornaio,
sanno di terra i contadini,
di vernice gli imbianchini,
sul camice bianco del dottore
di medicine c'è un buon odore.
I fannulloni, strano però
non sanno di nulla e puzzano un po'

Gianni Rodari

lunedì 13 settembre 2010


il filo del vento
sostiene nell'ale
quell'arduo viaggio;
sopporto ormai a stento
il dolore ed il male;
mi conforta un miraggio

anonimo del 1900
frammenti ritrovati

venerdì 10 settembre 2010


Arietta Settembrina

Ritornerà sul mare
la dolcezza dei venti
a schiuder le acque chiare
nel verde delle correnti.
Al porto sul veliero
di carrube l' estate
imbruna, resta nero
il cane delle sassate.
S' addorme la campagna
di limoni e d' arena
nel canto che si lagna
monotono di pena.
Così prossima al mondo
dei gracili segni,
tu riposi nel fondo
della dolcezza che spegni.

Alfonso Gatto

mercoledì 8 settembre 2010

Il Profeta


SUI FIGLI

E una donna che reggeva un bambino al seno disse:
Parlaci dei Figli.
E lui disse:
I vostri figli non sono figli vostri.
Sono figli e figlie della sete che la vita ha di sé stessa.
Essi vengono attraverso di voi, ma non da voi,
E benché vivano con voi non vi appartengono.

Potete donare loro amore ma non i vostri pensieri:
Essi hanno i loro pensieri.
Potete offrire rifugio ai loro corpi ma non alle loro anime:
Esse abitano la casa del domani, che non vi sarà concesso visitare neppure in sogno.
Potete tentare di essere simili a loro, ma non farvi simili a voi:
La vita procede e non s'attarda sul passato.
Voi site gli archi da cui i figli, come frecce vive, sono scoccate in avanti.
L'Arciere vede il bersaglio sul sentiero dell'infinito, e vi tende con forza affinché le sue frecce vadano rapide e lontane.
Affidatevi con gioia alla mano dellì'Arciere;
Poiché come ama il volo della freccia così ama la fermezza dell'arco.

martedì 7 settembre 2010

Come era tutto diverso allora.
Il testo di questa canzone mi è rimasto nel cuore.
Allora i Camaleonti
facevano sognare ragazzi e ragazze
e tutto stava in una canzone,
anche la noia


ETERNITA'
  
Stare qui ha il sapore dell'eternità dopo aver amato te io ti guardo mentre dormi accanto a me Non ti sveglierò, oh no, no, no perchè tu sorridi un bel sogno forse ora c'è dietro le ciglia chiuse Eternità, spalanca le tue braccia io sono qua, accanto alla felicità che dorme. Per lei vivrò, e quando avrà bisogno io ci sarò, ad asciugare le sue lacrime. Resta qui primo fiore dell'eternità dopo aver amato te sul soffitto passa un angelo per me Non ti sveglierò, oh no, no, no perchè tu sorridi un bel sogno forse ora c'è dietro le ciglia chiuse Eternità, spalanca le tue braccia io sono qua, accanto alla felicità che dorme. Per lei vivrò, e quando avrà bisogno io ci sarò, ad asciugare le sue lacrime Eternità, spalanca le tue braccia io sono qua, ad asciugare le sue lacrime...

lunedì 6 settembre 2010




Il gioco dei se

Se comandasse Arlecchino il cielo sai come lo vuole?
A toppe di cento colori cucite con un raggio di sole.
Se Gianduia diventasse ministro dello Stato,
farebbe le case di zucchero con le porte di cioccolato.
Se comandasse Pulcinella la legge sarebbe questa:
a chi ha brutti pensieri sia data una nuova testa.

Gianni Rodari

venerdì 3 settembre 2010




I PASTORI

Settembre, andiamo. E' tempo di migrare.
Ora in terra d'Abruzzi i miei pastori
lascian gli stazzi e vanno verso il mare:
scendono all'Adriatico selvaggio
che verde è come i pascoli dei monti.

Han bevuto profondamente ai fonti
alpestri, che sapor d'acqua natía
rimanga ne' cuori esuli a conforto,
che lungo illuda la lor sete in via.
Rinnovato hanno verga d'avellano.

E vanno pel tratturo antico al piano,
quasi per un erbal fiume silente,
su le vestigia degli antichi padri.
O voce di colui che primamente
conosce il tremolar della marina!

Ora lungh'esso il litoral cammina
la greggia. Senza mutamento è l'aria.
il sole imbionda sì la viva lana
che quasi dalla sabbia non divaria.
Isciacquío, calpestío, dolci romori.

Ah perché non son io cò miei pastori?


Gabriele D'Annunzio (Alcyone)




Riproporre una poesia è doveroso,
sopratutto quando colpisce così,
nell'intimo e nel pensare...
meditiamoci