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L'ombra è l'opposto del sole, ma si nutre di esso.
Un cielo grigio non genera ombre: nessun contrasto, nessun pensiero.


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giovedì 31 dicembre 2009

La Strada di Cioccolata


Tre fratellini di Barletta una volta, camminando per la campagna, trovarono una strada liscia liscia e tutta marrone.
"Che sarà" disse il primo. "Legno non è," disse il secondo. "Non è carbone," disse il terzo.
Per saperne di più si inginocchiarono tutti e tre e diedero una leccatina.
Era cioccolato, era una strada di cioccolato. Cominciarono a mangiarne un pezzetto, poi un altro pezzetto, venne la sera e i tre fratellini erano ancora lì che mangiavano la strada di cioccolato, fin che non ce ne fu più neanche un quadratino.
Non c'era più ne' il cioccolato ne' la strada. "Dove siamo? " domandò il primo. "Non siamo a Bari, " disse il secondo. "Non siamo a Molfetta, " disse il terzo.
Non sapevano proprio come fare.
Per fortuna ecco arrivare dai campi un contadino con il suo carretto.
"Vi porto a casa io, " disse il contadino.
E li portò fino a Barletta, fin sulla porta di casa. Nello smontare dal carretto si accorsero che era fatto tutto di biscotto. Senza dire ne' uno ne' due cominciarono a mangiarselo, e non lasciarono ne' le ruote ne' le stanghe.
Tre fratellini così fortunati, a Barletta, non c'erano mai stati prima e chissà quando ci saranno un'altra volta.
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Gianni Rodari
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Una favoletta di fine anno direi porprio che ci sta.
E' stato un anno difficile ma anche pieno di cose, come sempre.
Non è tempo di bilanci, è tempo di arrivederci e di nuovi propositi a divenire. Purtroppo i pochi collaboratori di questo piccolo spazio latitano sommersi da problemi e dal vivere quotidiano che, si sà, può essere estremamente impegnativo ed oneroso.
Io farò ciò che posso...convinto!
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Gujil

mercoledì 30 dicembre 2009

74 & 75

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Un video consigliato da un amico e decisamente divertente su come eravamo e come siamo. Niente più di questo ma sicuramente interessante e piacevole da vedere e da ascoltare. La vita è un insieme di cambiamenti nei confronti dei quali siamo il più delle volte protagonisti impotenti e succubi. Poco importa.

A voi il giudizio.

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74 & 75. Got no reason for coming to me and the rain running down. There's no reason. And the same voice coming to me like it's all slowin down. And believe me-- I was the one who let you know I was your sorry-ever-after. '74-'75 Giving me more and I'll defy 'Cause you're really only after '74-'75. It's not easy, nothing to say 'cause it's already said. It's never easy. When I look on your eyes then I find that I'll do fine. When I look on your eyes then I'll do better. I was the one who let you know I was your sorry-ever-after. '74-'75. Giving me more and I'll defy "cause you're really only after '74-'75.

74 & 75. Non c’è ragione per venire da me e la pioggia sta scendendo Non c’è ragione E la stessa voce arriva a me Come se tutto stesse rallentando E credimi Io ero quello che conosci Ti ho sempre chiesto scusa dopo il ’74-75 Non é facile Niente da dire, perché è già stato detto Non é mai facile Quando guardo nei tuoi occhi Allora scopro che vorrei essere buono Quando guardo nei tuoi occhivorrei essere migliore Io ero quello che conosci Io ero la tua scusa dopo il ’74-75 Dammi di più e sarò migliore Perché sei veramente sola dopo il ’74-75 Non c’è ragione per venire da me Scende la pioggia Non c’è ragione Quando guardo nei tuoi occhi Allora scopro che vorrei essere buono Quando guardo nei tuoi occhi vorrei essere migliore

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martedì 29 dicembre 2009

Invernale
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«... cri... i... i... i... i... icch...» l'incrinatura
il ghiaccio rabescò, stridula e viva.
«A riva!» Ognuno guadagnò la riva
disertando la crosta malsicura.
«A riva! A riva!...» Un soffio di paura
disperse la brigata fuggitiva.
«Resta!» Ella chiuse il mio braccio conserto,
le sue dita intrecciò, vivi legami,
alle mie dita. «Resta, se tu m'ami!»
E sullo specchio subdolo e deserto
soli restammo, in largo volo aperto,
ebbri d'immensità, sordi ai richiami.
Fatto lieve cosí come uno spettro,
senza passato piú, senza ricordo,
m'abbandonai con lei, nel folle accordo,
di larghe rote disegnando il vetro.
Dall'orlo il ghiaccio fece cricch, piú tetro...
Dall'orlo il ghiaccio fece cricch, piú sordo...

Rabbrividii cosí, come chi ascolti
lo stridulo sogghigno della Morte,
e mi chinai, con le pupille assorte,
e trasparire vidi i nostri volti
già risupini lividi sepolti...
Dall'orlo il ghiaccio fece cricch, piú forte.
Oh! Come, come, a quelle dita avvinto,
rimpiansi il mondo e la mia dolce vita!
O voce imperïosa dell'istinto!
O voluttà di vivere infinita!
Le dita liberai da quelle dita,
e guadagnai la ripa, ansante, vinto...
Ella sola restò, sorda al suo nome,
rotando a lungo nel suo regno solo.
Le piacque, alfine, ritoccare il suolo;
e ridendo approdò, sfatta le chiome,
e bella ardita palpitante come
la procellaria che raccoglie il volo.
Non curante l'affanno e le riprese
dello stuolo gaietto femminile,
mi cercò, mi raggiunse tra le file
degli amici con ridere cortese:
«Signor mio caro, grazie!» E mi protese
la mano breve, sibilando: − Vile! −

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Guido Gozzano
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lunedì 28 dicembre 2009

Torri di Amitar

- Siedi, Principe, siedi.
Quelle scarne parole invasero la sala del trono come un torrente impetuoso.
Alle pareti gli arazzi inondati dall'ultima luce della sera luccicavano di dorati riflessi e le armature ombreggiavano tristi, come stanchi cavalieri, negli angoli della stanza reale.
- Dimmi, Vecchio, vedrò mai il sorgere del sole? - domandò il giovane Principe mentre con la mano sinistra accarezzava distrattamente i suoi fini vestiti di raso.
La mano destra, appoggiata al davanzale di marmo levigato dell'immensa finestra, reggeva lo sguardo perduto tra le nuvole basse sull'orizzonte oltre il contorno imbrunito della foresta.
- Principe Larim, hanno nome i suoni delle creature nottur­ne?
Hanno anima gli interminabili voli dei sogni?
- Vecchio, alle mie domande rispondi con altre domande; che storia è questa?
- Tu conosci l'uomo, - gli rispose il vecchio - conosci l'uomo. Non essere irritato con me, o Principe, sono solo un povero vecchio il cui unico pregio è quello di avere vissuto fin troppo a lungo. Tu ancora non puoi sapere ma assai greve è il peso del tempo.
Corrugando la fronte il Principe Larim distolse lo sguardo dalle nebbie sottili che stavano salendo dal lago e si accomodò con fare aggraziato sul trono regale incastonato di gemme preziose.
Le sue lunghe dita, tamburellando sui braccioli del seggio, indugiavano spesso a seguire i profili arrotondati delle fantasiose figure istoriate nel legno.
Seguì con gli occhi i misurati movimenti del vecchio e si chiese da quanto tempo lo ricordava tale e quale lo stava osservando.
Non seppe rispondersi ma tracciò velocemente con la mente in rassegna mnemonica i loro ultimi incontri.
Gli piaceva quell'uomo.
Lo sentiva vicino.
Quando lo interpellava raccontandogli i suoi sogni diurni non lo sorprendeva mai a scomporsi ma dentro di sè ben sapeva che l'uomo lo stava ad ascoltare con incredibile attenzione.
Quanto era vecchio?
Non se lo era mai chiesto.
Quel buffo pensiero gli pervase prepotentemente la logica del ragionare; scrollò il capo.
Non se lo era mai chiesto...
Di colpo ricordò in modo chiaro e schematico la notte di luna piena in cui quell'uomo comparve a lui come d'incanto, coperto da un violaceo mantello logoro.
- Vengo a portarti il colore. - gli disse e fu allora che Larim di Amitar aprì la sua porta di bronzo e, senza timore, lo fece entrare a palazzo.
Da quella lontanissima sera il vecchio lo aveva sempre assistito nelle sue veglie notturne, nei suoi tristi cammi­ni.
- Sei ancora qui mio Principe?
Brusco ritorno al reale, ma consueto.
Il Principe annuì distrattamente col capo, si rialzò e mosse i suoi passi verso la vicina finestra.
La fredda aria notturna cozzò contro il pallido volto provocandogli brividi spiacevoli in tutto il corpo.
- Sono ancora con te.
Fuori le cento torri di Amitar svettavano nel buio.
Ad ovest, la torre più alta, nascondeva alla vista del Principe una debole falce di luna.
- Vedrò mai, Vecchio Ulmer, il sorgere del sole?
- Quante sono le stelle dell'universo, Principe Larim? Quante le strade che conducono a Dio?
Ancora deve venire il tempo delle tante risposte.
Osserva quella falce di luna dietro la tua torre più alta; è lei la signora del cielo?
Detto ciò il vecchio abbozzò un paterno sorriso che Larim non colse.
Il giovane Principe era di nuovo lontano.
L'ululato del lupo percorse le valli del regno e piano si spense. Ai sensi del Principe arrivò come un'eco lontana.
Ormai il latteo riflesso della luna aveva riempito l'ampio diametro del prezioso vassoio di argento massiccio, regalo di chissà quali altri Re, posto al centro della parete est del salone.
All'esterno tutto taceva.
- Quale triste visone nei tuoi occhi, o mio grande Principe?
- Vecchio, non voglio domande e non odo risposte.
- C'è un tempo per tutte le cose giovane Larim, - disse il vecchio con voce addolcita e suadente - una tempesta mai non dura in eterno perchè tempesta è vento e vento altro non è che portare tempesta lontano.
Ogni cosa si crea e tutto deve essere distrutto per ricre­arsi di nuovo.
E' questo l'ultimo, immutabile fine.
La fiera che attacca ed uccide il bestiame è a sua volta scovata ed uccisa dai cacciatori.
La pesante minaccia della morte incombe in ogni luogo e puoi riconoscerne l'alito negli occhi di chi ha a lungo vissuto.
Ma morire è un pò come nascere.
Nascere è vita.
Non si può morire se non si è mai nati.
- Quali dure sentenze mi dispensi buon Ulmer. - commentò Larim - Ti chiedo risposte e tu mi parli di morte.
E' forse che io debba morire per poter vedere sorgere il sole?
A quella domanda il vecchio, come sempre, non dette rispo­sta, reclinò il capo in avanti come quando, spossati, ci si vorrebbe addormentare seduti e sembrò vinto dal torpore.
Il Principe tornò ai suoi pensieri.
Gli odori del bosco soavi aleggiavano sui viali in rovina dell'austero palazzo tracciandovi misteriosi sentieri che mai corpo d'uomo avrebbe saputo seguire.
Dove un dì era splendore e grandezza ora il fiato pietoso del tempo stava tessendo la sua impalpabile tela.
- Che notte è mai questa, o mio Ulmer, di colpo sento il cuore schiantarsi nel petto e ad ogni battito l'ansia in me cresce come una marea inesorabile.
Nessuna ferita fu mai così lacerante e straziante; ho nel corpo mille ferri roventi a dilaniarmi la carne.
Può, Ulmer, un Re perire per ciò che io provo?
Dov'è la mia guardia?
Dov'è il mio cavallo? che io lo possa montare e nuovamente roteare la spada per affrontare questo strano nemico.
Ho arrossato la terra con la linfa vitale di chi ha osato osteggiarmi, ho disarcionato, in tutti i tornei, cavalieri di paesi lontani ritenuti imbattibili.
Cavalcai molte lune per raggiungere la mitica rocca di Eisther, da solo ne scalai la scogliera incantata ed apposi sulla torre più alta i colori del mio vessillo.
Ed ora io, Larim di Amitar, Signore dei regni del Nord, sento crescere in me questa furia impotente che dilaga riempiendomi il petto.
Parla, Ulmer, dimmi se è questa la notte così che io possa sapere e cullarmi l'idea.
- Non posso, mio Principe, dai segni non ho avuto chiarezze, solo immagini vaghe.
Pazienta.
Il giorno è ancora lontano.
Dopo quelle ultime parole una folata di gelido vento riportò nella sala il silenzio.
Il piccolo carro, nella volta celeste, aveva percorso altra strada...


Amitar, pallido astro del mondo dalle cento alte torri
con gli spalti rivolti alle deboli luci dell'aurora boreale.

Amitar, città di grandi ricchezze e affascinanti misteri;
passaggio obbligato del Nord,
fontane che sprizzano inestimabili gemme,
laghi dorati dai riverberi di sole.
Amitar, sconfinate distese di maestose conifere,
stracolme di selvaggina e briganti, regno di penombre e
chiaroscuri soffusi.
Amitar, centro del nulla, cammino tortuoso e insicuro
per la ricerca instancabile dell'eterno viandante, volo
perpetuo degli uccelli di passo.
Amitar, patria di gioie intensissime e di grigi dolori,
porto di navi fantasma con carichi di aromatiche droghe
d'Oriente.
Amitar, terra di tutti e terra per nessuno.
Amitar.
Amitar e Larim, Principe regnante di Amitar.



Ulmer, assorto, non stava dormendo ma con attenti sguardi studiava il vagare irrequieto e nervoso del giovane Principe.
Lo seguì nell'irregolare percorso attendendo il momento opportuno per proferirgli parola; lo colse nell'attimo in cui la furia di Larim sembrò per un istante essersi placata.
- O giovane Re, - cominciò - faresti erigere nuove torri da aggiungere a tutte quelle che già ora possiedi?
Il Principe, per nulla meravigliato da quella domanda, si limitò ad assentire.
- Adesso, oltre la tua grande finestra, è notte profonda - continuò il vecchio Ulmer - e Amitar sembra che dorma del sonno dei giusti.
Non senti il silenzio percuoterti i sensi?
Larim porse attenzione al richiamo del buio ma nemmeno il più piccolo suono giunse a contraddire le parole di Ulmer.
- Lo sento, - rispose - è un lieve e continuo ronzio, è come il suono che da bambino udivo accostando al mio orecchio le grandi conchiglie marine.
Eppure è diverso.
Ora è presente ma so che non lo posso fermare.
Cosa mi accade buon Vecchio, è forse che il mio presente di uomo stia subendo influenze malefiche?
Perchè questa ansia mostruosa nell'attendere?
Detto ciò si fermò per trarre un profondo respiro, poi continuò:
- Ricordi quando alla caccia del cervo mi staccai dal gruppo spronando, incitandolo, Imbrel?
Galoppammo a perdifiato fino al margine dalla verde vallata per tagliare la strada alla preda e all'improvviso noi fummo preda e l'intreccio dell'adorata foresta si fece intricata tela di ragno ed ogni albero protese i suoi lunghi rami ad impedimento della nostra ricerca.
Allora provai la paura e cercai di aprirmi la strada con la lama affilata e tagliente della mia spada ma più mi accanivo sbracciandomi più il cammino si faceva arduo ed i varchi appena aperti si richiudevano alle mie spalle.
Scesi dal mio cavallo e notai dense spire di vapori grigiastri sgorgare dal terreno a nascondere le mie stesse orme, faticai a trattenere l'impaurito Imbrel a maledii con parole infuocate la mia terra.
Quanto tempo vagai solitario con il volto graffiato dalle appuntite spine dei rami?
Si susseguiva il tetro paesaggio con monotonia stressante ma il mio orgoglio mi impediva di cedere al terrore nascente.
Continuai con caparbia follia ed il braccio era stanco e spossato.
Persi il senso del tempo e dello spazio ma giunsi all'ampia radura sul ripiego del crinale.
Il colore dell'erba tendeva all'azzurro, là vidi il cervo che stavo inseguendo.
Era un animale superbo dal mantello rubino; brucava tranquillo la tenera erba inzuppata di rugiada.
Nel silenzio più teso potevo ascoltare il mio ansimare rabbioso.
Con cura incoccai la freccia mortale e puntai il mio arco mirando al suo cuore.
Quando il cervo sollevò la testa e mi vide lasciai partire lo strale assassino.
Seguii con occhi attenti la traiettoria del mio messaggio di morte e la vidi sparire nel nulla.
Riprovai più e più volte, l'animale non cercò di fuggire, si limitò ad osservarmi.
Quando non ebbi più dardi impugnai il coltello da caccia e mi gettai su di lui.
Alla fine del balzo strinsi stupito ciò che di lui era rimasto: solo il vuoto.
Quelle che a me non erano parse che poche ore, al mio ritorno ad Amitar, si rivelarono giorni.
Ci furono altre battute ma più non rividi quello strano animale nè quella radura se non nei miei più terribili incubi.
- Ricordo quell'avventura, - Ulmer rispose - non avesti più pace da allora ed Amitar non fu più la stessa.
Ti vidi sprecare stagioni in ricerca affannosa di un qualunque senso; ti seguii quando scovasti Alicantor il predone e lo uccidesti sulla vetta della catena delle Rehor.
Per la prima volta il saggio Signore del Nord non concedette pietà a chi, nel nome di chissà quale lontano Dio, gliela chiese implorando.
Ti vidi dare la morte, Larim, vidi il tuo volto mutare espressione e la tua spada abbassarsi e colpire.
- Taci Vecchio, mi stai ricordando cose per cui io ancora provo profonda vergogna.
Ciò detto Larim si rimise a sedere, le parole di Ulmer sapevano colpire nel segno con precisione incredibile.
Di nuovo vinse il silenzio.
Di tanto in tanto le palpebre del Principe si abbassavano lente per poi, a scatti fulminei, riaprirsi.
Il sonno, troppo a lungo trattenuto lontano, si stava avvicinando al corpo e alla mente del Sovrano di Amitar.
Larim lottava contro la stanchezza ed il desiderio di abbandonarsi tra le braccia del sonno che dispensa ristoro.
- Dormi mio Principe? - arrischiò il vecchio con un filo di voce.
- No, - Larim rispose - ma grande fatica è conservare lucidità nello scorrere dei pensieri.
Immagini di momenti diversi si mescolano tra loro, confondendomi, a darmi strani quadri di insieme.
Così forte è il sonno Ulmer?
- Più di quanto tu possa immaginare. - sospirò il vecchio Ulmer - L'ho visto raggiungere e sconfiggere uomini molto più forti di te con le sue braccia di niente.
Viene il sonno quando il corpo fatica a produrre scintilla vitale, viene per ridare speranza e vigore.
In questo caso il sonno è riposo e lievi carezze sono i suoi sogni più belli.
Ma sonno può essere anche immenso terrore di incubi cupi.
Come vedi, Principe Larim, ciò che ora tu temi ti prenda può piacevolmente soggiogare e cullare così come è anche capace di minare fisico e mente con messaggeri spettrali.
C'è gente che dice sia come la morte.
- Parlami ancora Ulmer così che, ascoltando i tuoi racconti, io possa rimanere sveglio, vigile e attento.
Così disse Larim, Signore di Amitar, con le palpebre ormai completamente abbassate sulle stanche pupille ed il lungo respiro sempre più regolare.
- Come tu vuoi, o Principe, - rispose il vecchio Ulmer - continuerò a parlare affinchè tu possa rimanere sveglio.
Volavano le parole di Ulmer tra i pensieri confusi di Larim e sulle torri di Amitar, racconti a seguire racconti.
Il tempo, fedele al suo corso, inesorabilmente scorreva.
- E' questa la notte mio Principe! - urlò il vecchio ad un tratto stralunando lo sguardo nel vuoto.
A quel grido improvviso l'intero essere di Larim venne scosso da un incontrollabile fremito.
Il Principe, come una belva ferita, proruppe in un tremendo ruggito che echeggiò lungamente tra i corridoi deserti dell'immenso palazzo.
Staccò con un gesto di rabbia la sua spada, corrosa dagli anni, relegata in un angolo del grande salone.
Con corsa furiosa Larim uscì dalla stanza e, di lui, per un brevissimo istante non rimase altro che la debole luce della torcia che teneva alta nella mano ad illuminargli il percorso.
Ulmer stava piangendo.
Come schiacciato dal peso dei suoi tanti anni il vecchio faticò ma riuscì a trascinarsi presso la grande finestra e, con lo sguardo rivolto agli spalti della torre più alta, si adagiò stanco in posizione di attesa.
Lui sapeva cosa sarebbe successo.
Da tempo sapeva.
Poco dopo dal basso cominciarono a levarsi i colori rossastri del fuoco, dapprima come brevi bagliori, poi, via via, sempre più intensi e luminosi.
Amitar, nel buio, man mano che l'incendio divampava, sembrò risplendere nuovamente di vita.
Le lunghe lingue di fuoco parevano flessuosi ed eleganti guerrieri al cui tocco ogni cosa andava distrutta.
La città, avvolta completamente dalle fiamme, si accese come un piccolo sole.
Nella notte le cento alte torri si mutarono in fiaccole enormi, dita di fuoco protese nel cielo.
Sulla sommità della torre più alta apparve la figura del Principe Larim.
Troneggiò, l'austero aspetto del Principe, sulla sua amata città.
- Ulmer! - Larim gridò e le sue parole sovrastarono il fragore dell'incendio - Questa è la notte? Guarda! - urlò additando l'orizzonte.
Ad Est, lungo il profilo tranquillo del mare, le prime luci dell'alba.

domenica 27 dicembre 2009


Neve

Sui campi e sulle strade
silenziosa e lieve
volteggiando, la neve cade.

Danza la falda bianca
nell'ampio ciel scherzosa,
poi sul terren si posa, stanca.

In mille immote forme
sui tetti e sui camini,
sui cippi e sui giardini dorme.

Tutto d'intorno è pace;
chiuso in oblìo profondo,
indifferente il mondo tace.

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Ada Negri

sabato 26 dicembre 2009

Lontano a Oriente
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Lontano a Oriente si fa chiaro,
tempi grigi si fanno giovani;
quale profondo e lungo abbeverarsi
alla luminosa fonte dei colori!
Santo esaudirsi di antica nostalgia,
dolce amore in divina apoteosi!
Finalmente il beato fanciullo
di tutti i cieli scende sulla terra,
e col suo canto soffia di nuovo
sul mondo un creatore vento di vita,
per nuove fiamme lucenti in eterno
aduna scintille da tempo disperse.
Scaturisce dovunque dai sepolcri
nuova vita e nuovo sangue;
per edificarci una pace eterna
s'immerge nell'onda della vita;
sta nel mezzo con le mani colme,
pieno d'amore attende ogni preghiera.
Lascia che il suo mite sguardo
ti penetri in fondo all'anima,
e vedrai come ti illumina
la sua eterna beatitudine.
Tutti i cuori, gli spiriti e i sensi
daranno inizio a una nuova danza.
Senza timore afferra le sue mani
e il suo volto imprimi in te,
devi sempre rivolgerti a lui
come un fiore al raggio del sole;
ed egli sarà tuo, come una sposa
fedele, se gli mostri tutto il cuore.
Ora infine la divinità che spesso
ci ha spaventati, è divenuta nostra,
nel Sud e nel Nord ha risvegliato
come in un lampo germogli di cielo.
Nel ricco giardino di Dio, noi fedeli
curiamo che sbocci ogni gemma, ogni fiore
---
Novalis

venerdì 25 dicembre 2009

giovedì 24 dicembre 2009


Silent Night
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Silent night, holy night!
All is calm, All is bright
Round yon Virgin, Mother and Child
Holy Infant so Tender and mild,
Sleep in heavenly peace,
Sleep in heavenly peace.
Silent night, holy night!
Shepherds quake at the sight!
Glories stream from heaven afar;
Heavenly hosts sing Al-le-lu-ia!
Christ the Saviour is born!
Christ the Saviour is born!
Silent night, holy night!
Wondrous star, lend thy light!
With the angels let us sing
Alleluia to our King!
Christ the Saviour is here,
Jesus the Saviour is here!
Silent night, Holy night!
Son of God, love's pure light
Radiant beams from Thy holy face,
With the dawn of redeeming grace,
Jesus Lord at thy birth;
Jesus Lord at thy birth.
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Joseph Mohr (1792-1848), 1818
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E' una delle pochissime (rarissime meglio) natività nella quali il piccolo Gesù è in braccio al suo papà. L'artista (Casalvecchio Siculo -ME – Chiesa di Sant’Onofrio, “Sacra Famiglia” di Gaspare Camarda, inizi XVII sec., scuola di Antonello da Messina) ha voluto glorificare la famiglia nel suo concetto non solo religioso ponendo Giuseppe in primo piano e con uno sguardo orgoglioso e commosso per quel suo figlio inaspettato ma che saprà colmare d'amore come ogni padre dovrebbe fare con i propri figli. Un angolo di meditazione per queste festività.
Buon Natale a tutti...di cuore!
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NOTTE SILENZIOSA
Notte silenziosa, santa notte Tutto è calmo, tutto è lUminoso Tutto intorno alla Vergine madre e il Bambino Bambino santo così tenero e mite. Dormi nella pace celeste Dormi nella pace celeste Notte silenziosa, santa notte I pastori tremano alla luce La gloria scende dal Paradiso Gli ospiti del paradiso cantano alleluia. E' nato Cristo il Salvatore, E' nato Cristo il Salvatore

mercoledì 23 dicembre 2009


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Inverno
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Il ghiaccio inazzurra i sentieri
la nebbia addormenta i fossati
un lento tepore devasta
i colori del cielo.
Scende la notte
nessun fiore è nato....
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Antonia Pozzi, Parole

martedì 22 dicembre 2009



Neve
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Neve che turbini in alto e avvolgi
le cose di un tacito manto.
neve che cadi dall'alto e noi copri
coprici ancora, all'infinito: Imbianca
la città con le case, con le chiese,
il porto con le navi,
le distese dei prati...
---
Umberto Saba

lunedì 21 dicembre 2009



Uccelletto
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In cima a un'antica pianta
nel rosso ciel del mattino,
un uccelletto piccino
oh, come piccino! canta.

Povera piccola gola,
ha in tutto una nota sola,
e quella ancora imperfetta.

Perché cinguetta? Che cosa
la fa parer sì giulivo?
S'allegra d'esser vivo
in quella luce di rosa!

---
Arturo Graf

domenica 20 dicembre 2009




Quando di sera nevica
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Quando la sera nevica
ogni suono è ovattato
e il silenzio del mondo
ti giunge inalterato.
E sa, senza guardare,
che deve nevicare
nel buio della sera:
Quando la sera nevica
e tu cammini a caso,
senti l'aria che punge
e ti pizzica il naso,
e ti arrossa i ginocchi:
la neve scende a fiocchi
nel buio della sera.
---
K. Jackson

sabato 19 dicembre 2009


Va serenamente in mezzo al rumore e alla fretta e ricorda quanta pace ci può essere nel silenzio.

Finché è possibile, senza doverti arrendere, conserva i buoni rapporti con tutti.

Dì la tua verità con calma e chiarezza, e ascolta gli altri, anche il noioso e l'ignorante, anch'essi hanno una loro storia da raccontare.

Evita le persone prepotenti e aggressive, esse sono un tormento per lo spirito.

Se ti paragoni agli altri, puoi diventare vanitoso e aspro, perché ci saranno sempre persone superiori e inferiori a te.

Rallegrati dei tuoi risultati come dei tuoi progetti.

Mantieniti interessato alla tua professione, benché umile; è un vero tesoro nelle vicende mutevoli nel tempo.

Sii prudente nei tuoi affari, poiché il mondo è pieno di inganno. Ma questo non ti impedisca di vedere quanto c'è di buono; molte persone lottano per alti ideali, e dappertutto la vita è piena di eroismo.

Sii te stesso. Specialmente non fingere di amare. E non essere cinico riguardo all'amore, perché a dispetto di ogni aridità esso è perenne come l'erba.

Accetta di buon grado l'insegnamento degli anni, abbandonando riconoscente le cose della giovinezza.

Coltiva la forza d'animo per difenderti dall'improvvisa sfortuna. Ma non angosciarti con fantasie. Molte paure nascono dalla stanchezza e dalla solitudine.

Al di là di ogni salutare disciplina, sii delicato con te stesso.

Tu sei un figlio dell'Universo, non meno degli alberi e delle stelle; tu hai un preciso diritto ad essere qui. E che ti sia chiaro o no, senza dubbio l'Universo va schiudendosi come dovrebbe.

Perciò sta in pace con Dio, comunque tu lo concepisca, e qualunque siano i tuoi travagli e le tue aspirazioni, nella rumorosa confusione della vita conserva la pace con la tua anima.

Nonostante tutta la sua falsità, il duro lavoro e i sogni infranti, questo è ancora un mondo meraviglioso.

Sii prudente.

Fa di tutto per essere felice.

(Manoscritto del 1692 trovato a Baltimora nell'antica chiesa di S. Paolo)

venerdì 18 dicembre 2009

Ramo spezzato



Cosa sarà del ramo spezzato
che battezza la mia auto
senza gemito?
Piano, così
che fa male
il silenzio
nel traffico.

Cosa sarà della linfa
che gocciola e indugia
nella città
rassegnata al gelo?

Cosa di me
sotto la prima neve?
Vestita di tutti i miei panni
e di vecchie fiabe
più lontane
bambine
e inutili.

La magia non ritorna.

Ogni dolore
ogni amore
come sale per strada
scioglie in guazza
i sogni.
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Nella nebbia
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Strano, vagare nella nebbia!
E' solo ogni cespuglio ed ogni pietra,
né gli alberi si scorgono tra loro,
ognuno è solo.
Pieno di amici mi appariva il mondo
quando era la mia vita ancora chiara;
adesso che la nebbia cala
non ne vedo più alcuno.
Saggio non è nessuno
che non conosca il buio
che lieve ed implacabile
lo separa da tutti.
Strano, vagare nella nebbia!
Vivere è solitudine.
Nessun essere conosce l'altro
ognuno è solo.
---
Herman Hesse

giovedì 17 dicembre 2009

Una Viola al Polo Nord

Una mattina, al Polo Nord, l'orso bianco fiutò nell'aria un odore insolito e lo fece notare all'orsa maggiore (la minore era sua figlia): - Che sia arrivata qualche spedizione? Furono invece gli orsacchiotti a trovare la viola. Era una piccola violetta mammola e tremava di freddo, ma continuava coraggiosamente a profumare l'aria, perché quello era il suo dovere. - Mamma, papà, - gridarono gli orsacchiotti. - Io l'avevo detto subito che c'era qualcosa di strano, - fece osservare per prima cosa l'orso bianco alla famiglia. - E secondo me non è un pesce. - No di sicuro, - disse l'orsa maggiore, - ma non è nemmeno un uccello. - Hai ragione anche tu, - disse l'orso, dopo averci pensato su un bel pezzo. Prima di sera si sparse per tutto il Polo la notizia: un piccolo, strano essere profumato, di colore violetto, era apparso nel deserto di ghiaccio, si reggeva su una sola zampa e non si muoveva. A vedere la viola vennero foche e trichechi, vennero dalla Siberia le renne, dall'America i buoi muschiati, e più di lontano ancora volpi bianche, lupi e gazze marine. Tutti ammiravano il fiore sconosciuto, il suo stelo tremante, tutti aspiravano il suo profumo, ma ne restava sempre abbastanza per quelli che arrivavano ultimi ad annusare, ne restava sempre come prima. - Per mandare tanto profumo, - disse una foca, - deve avere una riserva sotto il ghiaccio. - Io l'avevo detto subito, - esclamò l'orso bianco, - che c'era sotto qualcosa. Non aveva detto proprio così, ma nessuno se ne ricordava. Un gabbiano, spedito al Sud per raccogliere informazioni, tornò con la notizia che il piccolo essere profumato si chiamava viola e che in certi paesi, laggiù, ce n'erano milioni. - Ne sappiamo quanto prima, - osservò la foca. - Com'è che proprio questa viola è arrivata proprio qui? Vi dirò tutto il mio pensiero: mi sento alquanto perplessa. - Come ha detto che si sente? - domandò l'orso bianco a sua moglie. - Perplessa. Cioè, non sa che pesci pigliare. - Ecco, - esclamò l'orso bianco, - proprio quello che penso anch'io. Quella notte corse per tutto il Polo un pauroso scricchiolio. I ghiacci eterni tremavano come vetri e in più punti si spaccarono. La violetta mandò un profumo più intenso, come se avesse deciso di sciogliere in una sola volta l'immenso deserto gelato, per trasformarlo in un mare azzurro e caldo, o in un prato di velluto verde. Lo sforzo la esaurì. All'alba fu vista appassire, piegarsi sullo stelo, perdere il colore e la vita. Tradotto nelle nostre parole e nella nostra lingua il suo ultimo pensiero dev'essere stato pressapoco questo: - Ecco, io muoio... Ma bisognava pure che qualcuno cominciasse... Un giorno le viole giungeranno qui a milioni. I ghiacci si scioglieranno, e qui ci saranno isole, case e bambini.
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Gianni Rodari

mercoledì 16 dicembre 2009

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Albero secco
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Un albero secco
fuori dalla mia finestra
solitario
leva nel cielo freddo
i suoi rami bruni:
Il vento sabbioso la neve e il gelo
non possono ferirlo.
Ogni giorno quell'albero
mi dà pensieri di gioia,
da quei rami secchi
indovino il verde a venire.
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W. Ya-p'ing

martedì 15 dicembre 2009

Barbablù

C'era una volta un uomo, il quale aveva palazzi e ville principesche, e piatterie d'oro e d'argento, e mobilia di lusso ricamata, e carrozze tutte dorate di dentro e di fuori. Ma quest'uomo, per sua disgrazia, aveva la barba blu: e questa cosa lo faceva così brutto e spaventoso, che non c'era donna, ragazza o maritata, che soltanto a vederlo, non fuggisse a gambe levate dalla paura. Fra le sue vicinanti, c'era una gran dama, la quale aveva due figlie, due occhi di sole. Egli ne chiese una in moglie, lasciando alla madre la scelta di quella delle due che avesse voluto dargli: ma le ragazze non volevano saperne nulla: e se lo palleggiavano dall'una all'altra, non trovando il verso di risolversi a sposare un uomo, che aveva la barba blu. La cosa poi che più di tutto faceva loro ribrezzo era quella, che quest'uomo aveva sposato diverse donne e di queste non s'era mai potuto sapere che cosa fosse accaduto. Fatto sta che Barba-blu, tanto per entrare in relazione, le menò, insieme alla madre e a tre o quattro delle loro amiche e in compagnia di alcuni giovinotti del vicinato, in una sua villa, dove si trattennero otto giorni interi. E lì, fu tutto un metter su passeggiate, partite di caccia e di pesca, balli, festini, merende: nessuno trovò il tempo per chiudere un occhio, perché passavano le nottate a farsi fra loro delle celie: insomma, le cose presero una così buona piega, che la figlia minore finì col persuadersi che il padrone della villa non aveva la barba tanto blu, e che era una persona ammodo e molto perbene. Tornati di campagna, si fecero le nozze. In capo a un mese, Barba-blu disse a sua moglie che per un affare di molta importanza era costretto a mettersi in viaggio e a restar fuori almeno sei settimane: che la pregava di stare allegra, durante la sua assenza; che invitasse le sue amiche del cuore, che le menasse in campagna, caso le avesse fatto piacere: in una parola, che trattasse da regina e tenesse dappertutto corte bandita. "Ecco", le disse, "le chiavi delle due grandi guardarobe: ecco quella dei piatti d'oro e d'argento, che non vanno in opera tutti i giorni: ecco quella dei miei scrigni, dove tengo i sacchi delle monete: ecco quella degli astucci, dove sono le gioie e i finimenti di pietre preziose: ecco la chiave comune, che serve per aprire tutti i quartieri. Quanto poi a quest'altra chiavicina qui, è quella della stanzina, che rimane in fondo al gran corridoio del pian terreno. Padrona di aprir tutto, di andar dappertutto: ma in quanto alla piccola stanzina, vi proibisco d'entrarvi e ve lo proibisco in modo così assoluto, che se vi accadesse per disgrazia di aprirla, potete aspettarvi tutto dalla mia collera." Ella promette che sarebbe stata attaccata agli ordini: ed egli, dopo averla abbracciata, monta in carrozza, e via per il suo viaggio. Le vicine e le amiche non aspettarono di essere cercate, per andare dalla sposa novella, tanto si struggevano dalla voglia di vedere tutte le magnificenze del suo palazzo, non essendosi arrisicate di andarci prima, quando c'era sempre il marito, a motivo di quella barba blu, che faceva loro tanta paura. Ed eccole subito a sgonnellare per le sale, per le camere e per le gallerie, sempre di meraviglia in meraviglia. Salite di sopra, nelle stanze di guardaroba, andarono in visibilio nel vedere la bellezza e la gran quantità dei parati, dei tappeti, dei letti, delle tavole, dei tavolini da lavoro, e dei grandi specchi, dove uno si poteva mirare dalla punta dei piedi fino ai capelli, e le cui cornici, parte di cristallo e parte d'argento e d'argento dorato, erano la cosa più bella e più sorprendente che si fosse mai veduta. Esse non rifinivano dal magnificare e dall'invidiare la felicità della loro amica, la quale, invece, non si divertiva punto alla vista di tante ricchezze, tormentata, com'era, dalla gran curiosità di andare a vedere la stanzina del pian terreno. E non potendo più stare alle mosse, senza badare alla sconvenienza di lasciar lì su due piedi tutta la compagnia, prese per una scaletta segreta, e scese giù con tanta furia, che due o tre volte ci corse poco non si rompesse l'osso del collo. Arrivata all'uscio della stanzina, si fermò un momento, ripensando alla proibizione del marito, e per la paura dei guai, ai quali poteva andare incontro per la sua disubbidienza: ma la tentazione fu così potente, che non ci fu modo di vincerla. Prese dunque la chiave, e tremando come una foglia aprì l'uscio della stanzina. Dapprincipio non poté distinguere nulla perché le finestre erano chiuse: ma a poco a poco cominciò a vedere che il pavimento era tutto coperto di sangue accagliato, dove si riflettevano i corpi di parecchie donne morte e attaccate in giro alle pareti. Erano tutte le donne che Barba-blu aveva sposate, eppoi sgozzate, una dietro l'altra. Se non morì dalla paura, fu un miracolo: e la chiave della stanzina, che essa aveva ritirato fuori dal buco della porta, le cascò di mano. Quando si fu riavuta un poco, raccattò la chiave, richiuse la porticina e salì nella sua camera, per rimettersi dallo spavento: ma era tanto commossa e agitata, che non trovava la via a pigliar fiato e a rifare un po' di colore. Essendosi avvista che la chiave della stanzina si era macchiata di sangue, la ripulì due o tre volte: ma il sangue non voleva andar via. Ebbe un bel lavarla e un bello strofinarla colla rena e col gesso: il sangue era sempre lì: perché la chiave era fatata e non c'era verso di pulirla perbene: quando il sangue spariva da una parte, rifioriva subito da quell'altra. Barba-blu tornò dal suo viaggio quella sera stessa, raccontando che per la strada aveva ricevuto lettere, dove gli dicevano che l'affare, per il quale si era dovuto muovere da casa, era stato bell'e accomodato e in modo vantaggioso per lui. La moglie fece tutto quello che poté per dargli ad intendere che era oltremodo contenta del suo sollecito ritorno. Il giorno dipoi il marito le richiese le chiavi: ed ella gliele consegnò: ma la sua mano tremava tanto, che esso poté indovinare senza fatica tutto l'accaduto. "Come va", diss'egli, "che fra tutte queste chiavi non ci trovo quella della stanzina?" "Si vede", ella rispose, "che l'avrò lasciata disopra, sul mio tavolino." "Badate bene", disse Barba-blu, "che la voglio subito." Riuscito inutile ogni pretesto per traccheggiare, convenne portar la chiave. Barba-blu, dopo averci messo sopra gli occhi, domandò alla moglie: "Come mai su questa chiave c'è del sangue?". "Non lo so davvero", rispose la povera donna, più bianca della morte. "Ah! non lo sapete, eh!", replicò Barba-blu, "ma lo so ben io! Voi siete voluta entrare nella stanzina. Ebbene, o signora: voi ci entrerete per sempre e andrete a pigliar posto accanto a quelle altre donne, che avete veduto là dentro." Ella si gettò ai piedi di suo marito piangendo e chiedendo perdono, con tutti i segni di un vero pentimento, dell'aver disubbidito. Bella e addolorata com'era, avrebbe intenerito un macigno: ma Barba-blu aveva il cuore più duro del macigno. "Bisogna morire, signora", diss'egli, "e subito." "Poiché mi tocca a morire", ella rispose guardandolo con due occhi tutti pieni di pianto, "datemi almeno il tempo di raccomandarmi a Dio." "Vi accordo un mezzo quarto d'ora: non un minuto di più", replicò il marito. Appena rimasta sola, chiamò la sua sorella e le disse: "Anna", era questo il suo nome, "Anna, sorella mia, ti prego, sali su in cima alla torre per vedere se per caso arrivassero i miei fratelli; mi hanno promesso che oggi sarebbero venuti a trovarmi; se li vedi, fa' loro segno, perché si affrettino a più non posso". La sorella Anna salì in cima alla torre e la povera sconsolata le gridava di tanto in tanto: "Anna, Anna, sorella mia, non vedi tu apparir nessuno?". "Non vedo altro che il sole che fiammeggia e l'erba che verdeggia." Intanto Barba-blu, con un gran coltellaccio in mano, gridava con quanta ne aveva ne' polmoni: "Scendi subito! o se no, salgo io". "Un altro minuto, per carità" rispondeva la moglie. E di nuovo si metteva a gridare con voce soffocata: "Anna, Anna, sorella mia, non vedi tu apparir nessuno?". "Non vedo altro che il sole che fiammeggia e l'erba che verdeggia." "Spicciati a scendere", urlava Barba-blu, "o se no salgo io." "Eccomi" rispondeva sua moglie; e daccapo a gridare: "Anna, Anna, sorella mia, non vedi tu apparir nessuno?". "Vedo" rispose la sorella Anna "vedo un gran polverone che viene verso questa parte..." "Sono forse i miei fratelli? " "Ohimè no, sorella mia: è un branco di montoni." "Insomma vuoi scendere, sì o no?", urlava Barba-blu. "Un'altro momentino" rispondeva la moglie: e tornava a gridare: "Anna, Anna, sorella mia, non vedi tu apparir nessuno?". "Vedo" ella rispose "due cavalieri che vengono in qua: ma sono ancora molto lontani." "Sia ringraziato Iddio", aggiunse un minuto dopo, "sono proprio i nostri fratelli: io faccio loro tutti i segni che posso, perché si spiccino e arrivino presto." Intanto Barba-blu si messe a gridare così forte, che fece tremare tutta la casa. La povera donna ebbe a scendere, e tutta scapigliata e piangente andò a gettarsi ai suoi piedi: "Sono inutili i piagnistei", disse Barba-blu, "bisogna morire". Quindi pigliandola con una mano per i capelli, e coll'altra alzando il coltellaccio per aria, era lì lì per tagliarle la testa. La povera donna, voltandosi verso di lui e guardandolo cogli occhi morenti, gli chiese un ultimo istante per potersi raccogliere. "No, no!", gridò l'altro, "raccomandati subito a Dio!", e alzando il braccio... In quel punto fu bussato così forte alla porta di casa, che Barba-blu si arrestò tutt'a un tratto; e appena aperto, si videro entrare due cavalieri i quali, sfoderata la spada, si gettarono su Barba-blu. Esso li riconobbe subito per i fratelli di sua moglie, uno dragone e l'altro moschettiere, e per mettersi in salvo, si dette a fuggire. Ma i due fratelli lo inseguirono tanto a ridosso, che lo raggiunsero prima che potesse arrivare sul portico di casa. E costì colla spada lo passarono da parte a parte e lo lasciarono morto. La povera donna era quasi più morta di suo marito, e non aveva fiato di rizzarsi per andare ad abbracciare i suoi fratelli. E perché Barba-blu non aveva eredi, la moglie sua rimase padrona di tutti i suoi beni: dei quali, ne dette una parte in dote alla sua sorella Anna, per maritarla con un gentiluomo, col quale da tanto tempo faceva all'amore: di un'altra se ne servì per comprare il grado di capitano ai suoi fratelli: e il resto lo tenne per sé, per maritarsi con un fior di galantuomo, che le fece dimenticare tutti i crepacuori che aveva sofferto con Barba-blu.
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Charles Perrault

lunedì 14 dicembre 2009

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Pastello del tedio
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Dal grigio della nebbia fitta fitta
traspaiono cipressi
ombre nere
spugne di nebbia.
E di lontano dondolando lento
ne viene un suono di campana quasi spento.
Più lontano lontano
passa un treno mugghiando.
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A. Palazzeschi
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domenica 13 dicembre 2009

Miramar

O Miramare, a le tue bianche torri
attediate per lo ciel piovorno
fosche con volo di sinistri augelli
vengon le nubi.
Miramare, contro i tuoi graniti
grige dal torvo pelago salendo
con un rimbrotto d'anime crucciose
battono l'onde.
Meste ne l'ombra de le nubi a' golfi
stanno guardando le città turrite,
Muggia e Pirano ed Egida e Parenzo,
gemme del mare;
e tutte il mare spinge le mugghianti
collere a questo bastion di scogliù
onde t'affacci a le due viste d'Adria,
rocca d'Absburgo;ùe tona il cielo a Nabresina lungo
la ferrugigna costa, e di baleni
Trieste in fondo coronata il capo
leva tra' nembi.
Deh come tutto sorridea quel dolce
mattin d'aprile, quando usciva il
biondo
imperatore, con la bella donna,
a navigare!
A lui dal volto placida raggiava
la maschia possa de l'impero: l'occhio
de la sua donna cerulo e superbo
iva su 'l mare.
Addio, castello pe' felici giorni
nido d'amore costruito in vano!
Altra su gli ermi oceani rapisce
aura gli sposi.
Lascian le sale con accesa speme
istoriate di trionfi e incise
di sapienza. Dante e Goethe al sire
parlano in vano
da le animose tavole: una sfinge
l'attrae con vista mobile su l'onde:
ei cede, e lascia aperto a mezzo il
libro
del romanziero.
Oh non d'amore e d'avventura il canto
fia che l'accolga e suono di chitarre
là ne la Spagna de gli Aztechi! Quale
lunga su l'aure
vien da la trista punta di Salvore
nenia tra 'l roco piangere de' flutti ?
Cantano i morti veneti o le vecchie
fate istriane ?
— Ahi! mal tu sali sopra il mare
nostro
figlio d'Absburgo, la fatal Novara.
Teco l'Erinni sale oscura e al vento
apre la vela.
Vedi la sfinge tramutar sembiante
a te d'avanti perfida arretrando!
il viso bianco di Giovanna pazza
contro tua moglie.
È il teschio mozzo contro te
ghignante
d'Antonietta. Con i putridi occhi
in te fermati è l'irta faccia gialla
di Montezuma.
Tra boschi immani d'agavi non mai
mobili ad aura di benigno vento,
sta ne la sua piramide, vampante
livide fiamme
per la tenebra tropicale, il dio
Huitzilopotli, che il tuo sangue fiuta,
e navigando il pelago co 'l guardo
ulula — Vieni.
Quant'è che aspetto! La ferocia
bianca
strussemi il regno ed i miei templi
infranse:
vieni, devota vittima, o nepote
di Carlo quinto.
Non io gl'infami avoli tuoi di tabe
marcenti o arsi di regal furore;
te io voleva, io colgo te, rinato
fiore d'Absburgo;
e a la grand'alma di Guatimozino
regnante sotto il padiglion del sole
ti mando inferia, o puro, o forte, o
bello
Massimiliano. —
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Giosuè Carducci

sabato 12 dicembre 2009



Ch' io sia la fascia che la fronte ti cinge,
cosi' vicina ai tuoi pensieri .....
Ch' io sia il grano di mais
frantumato dai tuoi denti selvaggi .....
Ch' io sia, al tuo collo, turchese caldo
della tempesta del tuo sangue!
Ch' io sia la lana variopinta del telaio,
la lana che scivola tra le tue dolci dita .....
Ch' io sia la tunica di velluto
sul flusso e riflusso del tuo cuore .....
Ch' io sia la sabbia nei mocassini
che osa carezzare le stupende dita dei tuoi piedi .....
Ch' io sia il tuo tenero sogno notturno,
quando, nelle nere braccia morbide del tuo sonno,
tu gemi girandoti gioiosa..
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canto/poema degli indiani Navajo del Nuovo Messico


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"Ch'io sia la fascia che la fronte ti cinge, così vicina ai tuoi pensieri". Inizia così questa canzone tratta da una poesia/canto dei Pellerosse Navajo del Nuovo Messico, si canta dell'amore cerebrale, vero, ma anche di sangue, di passione pura fatta d'istinto.
Che i Pellerossa fossero un popolo guerriero, questo lo si sapeva, ma che fossero anche dei passionali in amore, questo può risultare sorprendente ai più, oltretutto qui si canta dell’amore fisico ma che non sfocia mai nella semplice constatazione di un rapporto meccanico, anzi, vengono coinvolti tutti i settori emotivi e sensoriali innescando in questo modo una carica di erotismo per niente volgare o scontata. Eros e Thanatos si rincorrono, “Ch’io sia il grano di mais frantumato daituoi denti selvaggi“: Si evidenzia il completo stato di dedizione quasi sacrificale dell’amante nei confronti della sua donna e di nuovo, ecco riversarsi in una potente immagine erotica e passionale: “Ch’io sia al tuo collo turchese, caldo della tempesta del tuo sangue.” per poi scivolare tra le dita di lei, come la lana del telaio, quasi come inconsapevole ricerca di una via di fuga. Ma a questo punto è la donna a sentirsi coinvolta da questo innesco, o meglio, è il desiderio e speranza dell’uomo: “Ch’io sia il tuo sogno notturno, quando nel sonno parli e gemi“.
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Ringrazio chi ha fatto questa bella descrizione del testo di questo poema/canto indiano pellerossa lirico e meraviglioso, l'ho ripresa tal quale perchè non avrei saputo fare di meglio, mi spiace solo non poter citare l'autore perchè non ha firmato il pezzo, questo però nulla toglie al fatto che abbia centrato in pieno la descrizione e l'argomento.



Merito va anche ad Angelo Branduardi che ha saputo scovarla tra molte, liricizzarla e musicarla nel modo più adatto facendola così conoscere a tanti; compare nel suo primo disco (Angelo Branduardi - Re di Speranza) verso la metà degli anni '70 e ha fatto parte della mia formazione cantautorale di quel periodo di grandi cambiamenti psicofisici ed interminabili suonate di chitarra. Per molti sarà qualcosa di nuovo da ascoltare, per altri, mi auguro, quantomeno un piacevole "remembering".

Il testo che ho scelto di riportare non è quello della canzone ma una pressochè fedele traduzione letterale del testo indiano originale.

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venerdì 11 dicembre 2009

Il Profeta

SULLA MORTE
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Allora Almitra parlò dicendo:
Ora vorremmo chiederti della Morte.
E lui disse:
Voi vorreste conoscere il segreto della morte.
Ma come potrete scoprirlo se non cercandolo nel cuore della vita?
Il gufo, i cui occhi notturni sono ciechi al giorno, non può svelare il mistero della luce.
Se davvero volete conoscere lo spirito della morte, spalancate il vostro cuore al corpo della vita.
Poiché la vita e la morte sono una cosa sola, come una sola cosa sono il fiume e il mare. Nella profondità dei vostri desideri e speranze, sta la vostra muta conoscenza di ciò che è oltre la vita;
E come i semi sognano sotto la neve, il vostro cuore sogna la primavera. confidate nei sogni, poiché in essi si cela la porta dell'eternità.
La vostra paura della morte non è che il tremito del pastore davanti al re che posa la mano su di lui in segno di onore.
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In questo suo fremere, il pastore non è forse pieno di gioia poiché porterà l'impronta regale?
E tuttavia non è forse maggiormente assillato dal suo tremito?
Che cos'è morire, se non stare nudi nel vento e disciogliersi al sole?
E che cos'è emettere l'estremo respiro se non liberarlo dal suo incessante fluire, così che possa risorgere e spaziare libero alla ricerca di Dio?
Solo se berrete al fiume del silenzio, potrete davvero cantare.
E quando avrete raggiunto la vetta del monte, allora incomincerete a salire.
E quando la terra esigerà il vostro corpo, allora danzerete realmente.

giovedì 10 dicembre 2009

Il Mulino di leo


Silenzio, solo silenzio
nel mulino di leo
ieri era un giorno d'autunno
un ultimo giorno d'autunno.
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Le fronde spogliate non frusciano
cori gioiosi, danno lamenti
e il sentiero in inutile attesa
geme le brume del freddo.
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Il mulino di leo,
una lettera ricordo
in solaio racchiusa
tra cose passate ma amate.
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Sono stato al mulino di leo
con le foglie per terra
e il profumo dei fiori
là si sta bene.
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Anonimo del XX° Secolo

mercoledì 9 dicembre 2009


Sole d'inverno
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E' mezzogiorno. Un parco.
Inverno. Bianchi viottoli;
monticelli simmetrici
e scheletrici rami.
Dentro la serra
aranci nei vasi,
e nella botte, dipinta
di verde, la palma.
Dice un vecchietto,
fra il suo vecchio se stesso:
-Il sole, questa bellezza
di sole!...- I bimbi giocano:
l'acqua della fontana
scivola, scorre, quasi muta,
la verdognola pietra.
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Antonio Machado

martedì 8 dicembre 2009

Volta la Carta



C'è una donnina che semina il grano:
volta la carta e si vede il villano.
Il villano che zappa la terra:
volta la carta e si vede la guerra.
Ecco la guerra con tanti soldati:
volta la carta e ci sono i malati.
I malati si curano con le ricette:
volta la carta e si vedon le erbette.
Con le erbette si fa la focaccia:
volta la carta e vedi una faccia.
La faccia allegra di un burattino:
volta la carta ed ecco Arlecchino.
Guarda Arlecchino che fa lo sgambetto:
volta la carta e si vede il galletto.
volta la carta e si vedon le porte.
Dentro le porte ci passa la gente:
volta la carta e non vedi più niente
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Filastrocca Popolare

lunedì 7 dicembre 2009

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Tutto ciò che il Potere del Mondo fa, lo fa in circolo.
Il cielo è rotondo, e ho sentito dire che la terra è rotonda come una palla, e che così sono le stelle.
Il vento, quando è più potente, gira in turbini.
Gli uccelli fanno i loro nidi circolari, perché la loro religione è la stessa nostra.
Il sole sorge e tramonta sempre in circolo.
La luna fa lo stesso, e tutt'e due sono rotondi.
Perfino le stagioni formano un grande circolo, nel loro mutamento, e sempre ritornano al punto di prima.
La vita dell'uomo è un circolo, dall'infanzia all'infanzia, e lo stesso accade con ogni cosa dove un potere si muove.
Le nostre tende erano rotonde, come i nidi degli uccelli, e inoltre erano sempre disposte in circolo, il cerchio della nazione, un nido di molti nidi, dove il Grande Spirito voleva che noi covassimo i nostri piccoli.
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Alce Nero (Heaka Sapa)
(1863 - 1950)
Sioux Oglala

domenica 6 dicembre 2009


Il senso della vita?
Chissà per quanto ancora
dibatterò offuscato di sovente
e la mente
annebbiata ricerca cadenze
insistente,
trepidante.
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La chiave che apre
è già posta
La fede si maschera
e l'assioma corrompe il pensiero
la ricerca è costante
infinita
non come la vita.
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Anonimo del XX° Secolo
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sabato 5 dicembre 2009


Nostalgia

Tra le nubi ecco il turchino
Cupo ed umido prevale:
Sale verso l'Apennino
Brontolando il temporale.
Oh se il turbine cortese
Sovra l'ala aquilonar
Mi volesse al bel paese
Di Toscana trasportar!
Non d'amici o di parenti
Là m'invita il cuore e il volto:
Chi m'arrise a i dí ridenti
Ora è savio od è sepolto.
Né di viti né d'ulivi
Bel desio mi chiama là:
Fuggirei da' lieti clivi
Benedetti d'ubertà.
De le mie cittadi i vanti
E le solite canzoni
Fuggirei: vecchie ciancianti
A marmorei balconi!
Dove raro ombreggia il bosco
Le maligne crete, e al pian
Di rei sugheri irto e fosco
I cavalli errando van.
Là in maremma ove fiorío
La mia triste primavera,
Là rivola il pensier mio
Con i tuoni e la bufera:
Là nel ciel nero librarmi
La mia patria a riguardar,
Poi co 'l tuon vo' sprofondarmi
Tra quei colli ed in quel mar.
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Giosuè Carducci

venerdì 4 dicembre 2009

Essere o Avere

Il professor Grammaticus, viaggiando in treno, ascoltava la conversazione dei suoi compagni di scompartimento. Erano operai meridionali, emigrati all'estero in cerca di lavoro: erano tornati in Italia per le elezioni, poi avevano ripreso la strada del loro esilio. - Io ho andato in Germania nel 1958, - diceva uno di loro. - Io ho andato prima in Belgio, nelle miniere di carbone. Ma era una vita troppo dura. Per un poco il professor Grammaticus li stette ad ascoltare in silenzio. A guardarlo bene, però, pareva una pentola in ebollizione. Finalmente il coperchio saltò, e il professor Grammaticus esclamò, guardando severamente i suoi compagni: - Ho andato! Ho andato! Ecco di nuovo il benedetto vizio di tanti italiani del sud di usare il verbo avere al posto del verbo essere. Non vi hanno insegnato a scuola che si dice: "Sono andato"? Gli emigranti tacquero, pieni di rispetto per quel signore tanto perbene, con i capelli bianchi che gli uscivano di sotto il cappello nero. - Il verbo andare, - continuò il professor Grammaticus, - è un verbo intransitivo, e come tale vuole l'ausiliare essere. Gli emigranti sospirarono. Poi uno di loro tossì per farsi coraggio e disse: - Sarà come lei dice, signore. Lei deve aver studiato molto. Io ho fatto la seconda elementare, ma già allora dovevo guardare più alle pecore che ai libri. Il verbo andare sarà anche quella cosa che dice lei. - Un verbo intransitivo. Ecco, sarà un verbo intransitivo, una cosa importantissima, non discuto. ma a me sembra un verbo triste, molto triste. Andare a cercar lavoro in casa d'altri... lasciare la famiglia, i bambini. Il professor Grammaticus cominciò a balbettare. - Certo... veramente... insomma, però... comunque si dice sono andato, non ho andato. Ci vuole il verbo "essere": io sono, tu sei, egli è... - Eh, - disse l'emigrante, sorridendo con gentilezza, - io sono, noi siamo!... Lo sa dove siamo noi, con tutto il verbo essere e con tutto il cuore? Siamo sempre al paese, anche se abbiamo andato in Germania e in Francia. Siamo sempre là, è là che vorremmo restare, e avere belle fabbriche per lavorare, e belle case per abitare. E guardava il professor Grammaticus con i suoi occhi buoni e puliti e il professor Grammaticus aveva una gran voglia di darsi dei pugni in testa. e intanto borbottava tra sé: - Stupido! Stupido che non sono altro. Vado a cercare gli errori nei verbi... ma gli errori più grossi sono nelle cose!
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Gianni Rodari