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L'ombra è l'opposto del sole, ma si nutre di esso.
Un cielo grigio non genera ombre: nessun contrasto, nessun pensiero.


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lunedì 31 ottobre 2016

Lontani


La lontananza

Questo aroma di te/ sale?/scende?/
 viene da te?/da me?/in che altro
 mi dovrei trasformare?/che altro
 di me/dovrei essere/
 per sapere/vedere/i frammenti
 di mondo che in silenzio unisci?/
 così bruci distanze?/
 mi restituisci al mio animale?/così
 mi dai grandezza/o corpo
 che invadi con la tua assenza?/
 con il tuo sguardo che
 non tornerà al tuo occhio/già febbre
 senz’altro padrone che il cammino?/
 sei qui/è come dire/tutto è qui/
 il vuoto e l’unione/e tu/e la
 disordinata solitudine/

Juan Gelman
traduzione  Laura Branchini
 
 
lontananza
 sostantivo femminile [der. di lontano]
- TRECCANI -
 
 - 1. a. L’essere, il trovarsi lontano, cioè a lunga o relativamente lunga distanza, di un luogo da altro luogo o da un punto di riferimento: la costa era poco visibile per la l.; comparve una figura, che, per la l. (o per la l. dal luogo dove mi trovavo), non riuscivo a distinguere nettamente; segnali di l., in marina, v. segnale; anche, posizione lontana: come facevo a riconoscerlo, da (o a o in) quella lontananza?; e come locuz. avv., in lontananza, in un punto lontano: guardare, vedere, mostrare in l.; una nave finalmente apparve in l.; era tutto buio ed in l., nel cielo, riflessi rossi dei villaggi che bruciavano (Mario Rigoni Stern). In queste accezioni, l’uso del termine concorre con il sinon. distanza.
b. Al plur., nell’uso letter., luoghi lontani, sfondo di paesaggio, e sim.: vedete di sfuggita, passando, l. verdi (De Amicis); anche come oggetto di rappresentazione pittorica: un paesaggio ampio, con l. sfumate. c. L’esser lontano nel tempo: la l. del pericolo acqueta i timori; vedere le cose in l., prevedere il loro svolgersi a distanza di tempo; poet., al plur.: m’affondo nelle lontananze Del tempo (A. Negri).
- 2. Con riferimento a persona, il fatto e la condizione d’esser lontano (e s’intende in genere da casa, dal paese, dalla famiglia o da una persona amata): tornò dopo una lunga l.; tanti anni di l. non l’avevano per nulla invecchiato; egli è il vero che, par la l. di mio marito non potendo io agli stimoli della carne né alla forza d’amor contrastare, ... a divenire innamorata mi sono lasciata trascorrere (Boccaccio); la l. di Renzo, senza nessuna probabilità di ritorno, ... le parve ora una disposizione della Provvidenza (Manzoni); anche, il tempo, il periodo in cui si è lontani (come sinon. del più com. assenza): molte cose erano cambiate durante la mia l. dalla città; volle essere informato su ciò che era avvenuto durante la sua l.; componimento di l., poesia che ha per argomento la sofferenza del poeta, lontano dalla persona amata. Più spesso, e con uso più proprio, con allusione ai sentimenti provocati dalla separazione: soffriva per la l. dei suoi, o per la l. dalla famiglia, da casa, dal proprio paese.  
 
si è lontani quando non ci si vede,
anche quando non ci si tocca,
quando non ci si può abbracciare;
è lontananza, tristezza, solitudine...

domenica 30 ottobre 2016

Amarezza


Qualche amarezza
 
Tu ieri con le tue pallide mani
per altre donne ancor sfogliavi rose,
per altre già ne sfoglierai domani.
 
Oggi la tua sottile arte compose
per me una lieve ghirlandetta molle
da scomporre con dita desïose. 

 Insieme noi sfacemmo le corolle
soavi per estrarne ogni dolcezza,
per gustarla con bocca un poco folle.
 
Pure, non so da chi, qualche amarezza
mi viene: forse dalla donna ignota
che sentirà domani la carezza
 
del tuo respiro sopra la sua gota.
 
Amalia Guglielminetti
da "Le seduzioni delle vergini"
 

amarézza
sostantivo femminile
[lat. tardo amarĭtia]
- TECCANI -
 
– Qualità, sapore di ciò che è amaro: l’amarezza di sostanze come il  fiele, l'amarezza dell’assenzio; è risaputa e davvero tremenda l'amarezza di questa medicina.
 
Più comunemente ed in un senso figurato si può intendere come, dolore, tristezza mista a un sentimento di contrarietà e talora a lieve rancore: provare, sentire grande amarezza; quel colloquio lasciò nel suo animo una profonda amarezza; mi parlava con molta amarezza.; anche plurale, con valore concreto: ha avuto molte amarezze. nella sua vita; i figli non gli hanno dato che continue amarezze (dalla rete).
 
 
solo qualche? o tante?
amarezza è qualcosa che ti delude,
qualche stralcio di vecchio, di antico;
nel fuori di sé le risposte...
e le domande...
 

 

sabato 29 ottobre 2016

Anima stanca

 

Celeste, artista Bologna
"Anima Stanca"
Taci, anima stanca di godere
e di soffrire – all’uno, all’altro vai
rassegnata –
Ascolto e mi giunge una tua voce.
Non di rimpianto per la miserabile
giovinezza, non d’ira o di rivolta
e neppure di tedio.
Ammutolita
giaci col corpo in una disperata
indifferenza.
Non ci stupiremmo,
non è vero, mia anima, se adesso
il cuore s’arrestasse, se sospeso
ci fosse il fiato…
Invece camminiamo.
E gli alberi son alberi, le case
sono case, le donne
che passano son donne e tutto è quello
che è – quello che è.
La vicenda di gioia e di dolore
non ci tocca. Perduto ha la voce
la sirena del mondo e il mondo è un grande
deserto.
Nel deserto
io guardo con asciutti occhi me stesso.

Camillo Sbarbaro
 
 

il silenzio dopo il dolore,
la tristezza accompagna il pianto,
arriva il mese dei morti,
i giardini si riempiono di colori,
i cimiteri si affollano di gente... 

 
Questi primi versi della raccolta poetica intitolata Pianissimo, pubblicati nel 1913 sulla Riviera Ligure e poi più volte ristampati, sono il manifesto, tanto sommesso quanto lucido e forte, della poetica di Camillo Sbarbaro, ligure come Eugenio Montale, di cui sembra anticipare la visione scabra e disillusa della realtà. Sommessa e antioratoria, apparentemente quasi prosastica (tanto che non ha bisogno di note; ma la metrica è a posto: agli endecasillabi sciolti si alternano settenari, quaternari e novenari), la scrittura è sorprendentemente moderna: va al di là non solo del lirismo carducciano, pascoliano e dannunziano, ma anche della malinconia crepuscolare (così cara a molti dei poeti liguri).
Eppure il poeta conserva echi dell’ispirazione introspettiva di un Giacomo Leopardi e di un Charles Baudelaire; e pare, come loro, sporgersi sull’abisso per contemplare con occhi asciutti se stesso e il grande deserto del mondo (dalla rete).  
 

venerdì 28 ottobre 2016

La musica che ascoltiamo


 Una musica lieve
come d’incanto guidava i miei passi,
 scricchiolìo di foglie
 e danza di polvere nel vento…
sapevo che ci saremmo incontrati
 in una giornata d’autunno.
 Il cielo doveva essere esattamente così:
 velato e rispettoso della tua figura fine.
 La strada. Ho sempre immaginato fosse questa:
 costeggiata d’alberi e foglie dai mille colori.
 Colore e Musica, Profumo e Suono…
e tu…Poesia.
 Questa è la perfezione in cui opera il Destino!
 
Anton Vanligt
 
 
La musica che ascoltiamo riflette il nostro stile di pensiero Ciascuno di noi, in certi momenti, ha avuto bisogno della musica, un elemento importante della nostra vita quotidiana. Durante il nostro sviluppo abbiamo scelto la nostra musica, facendola crescere dentro di noi e con noi nelle nostre preferenze, nelle nostre scelte, scegliendo la colonna sonora dei nostri momenti belli e di quelli più difficili. Quando le note raggiungono la nostra attenzione – dall’autoradio, da una voce nella tromba delle scale, da un video su YouTube – ci rendiamo conto di quanto la musica sia necessaria, una piacevole compagna di tanti diversi attimi. Tuttavia le ricerche sui fattori che determinano il gusto musicale personale sono piuttosto recenti e in generale hanno concluso che le preferenza in fatto di musica riflettano caratteristiche generali come l’età e la personalità. David Greenberg – specializzando nel laboratorio di Baron-Cohen, esperto mondiale nel campo degli stili cognitivi, dell’empatia e dell’autismo – e appassionato di sassofono (che suona a livello professionale), si è chiesto se ci fosse anche dell’altro. Con un gruppo di ricercatori del laboratorio dell’Università di Cambridge diretto proprio da Simon Baron-Cohen, ha così condotto uno studio su circa 4000 volontari, evidenziando che le preferenze musicali non sono solo l’espressione di inclinazioni e scelte estetiche, ma riflettono, almeno in parte, gli stili cognitivi delle persone. La ricerca, pubblicata su “PLoS One”, mostra come le persone, nel confronto con il mondo circostante e in particolare con le altre persone, investano maggiormente sull’empatia – la capacità di riconoscere e reagire ai pensieri e ai sentimenti degli altri – o sulla “sistematizzazione”, cioè se fossero più interessati a comprendere le regole che sono alla base di un fenomeno o di un comportamento.
Dai risultati dei test è emerso che maggiore era la capacità empatica della persona, più aumentava la preferenza per una musica più “morbida” (rhythm and blues, rock morbido), non particolarmente complessa (country, popolare, di cantautori) e contemporanea (elettronica, latina, acid jazz, e pop).
Approfondendo l’analisi, si è anche scoperto che gli “empatici” preferivano la musica con un minore consumo energetico (dolce, riflessiva, sensuale, con elementi “caldi”), oppure che esprime emozioni negative (toni malinconici o tristi) o profondità emotiva (poetica, rilassante, riflessiva). Chi aveva uno stile cognitivo più orientato verso la sistematizzazione, invece, preferiva musica ad alta energia (forte, ricca di tensione), con emozioni positive (vivace o divertente), e caratterizzata da un elevato grado di complessità e cerebralità (dalla rete).
 
 
la musica sta uscendo da me,
suono molto meno di prima,
le voci sono rumori,
i sassi si spargono sul cammino...

giovedì 27 ottobre 2016

Felicità e piccole cose

 


La mia felicità

Da quando fui stanco di cercare,
ho imparato a trovare.

Da quando un vento mi ha fatto resistenza,
navigo con tutti i venti. 

Friedrich Nietzsche
Rovine di stelle,
traduzione di Pino Menzio 

 
La felicità sta nelle piccole cose Forse vi sorprenderà, ma se cercate sul dizionario il significato della parola “felicità” troverete anche questa definizione: “stato d’animo di chi si compiace per il possesso di un bene”. Ovviamente, il dizionario non tiene conto della psicologia. Di fronte ad una descrizione del genere, sembra che dobbiamo sostenere, ancora una volta, la falsa idea che, per raggiungere la felicità, uno debba accumulare cose: case, macchine, gioielli, etc. Non possiamo negare che abbiamo bisogno di queste cose materiali per vivere, così come avere un lavoro e una retribuzione economica con cui costruire le basi fondamentali per la nostra felicità. In realtà, i beni materiali non sempre soddisfano tutte le nostre complesse necessità di esseri umani (dalla rete).
 felice, contento, lieto,
sarà un giorno, un'ora, un attimo
potrà essere un suono, una voce;
"infine uscimmo a riveder le stelle..."

mercoledì 26 ottobre 2016

Giorni di minime #27


(ad Andrea)
 
è un gran partire
in questi giorni d'autunno;
certezze assolute si dissolvono
in lacrime, in dolori,
le ore battono e passano lente?, veloci?,
siamo scanditi dal tempo...
 
Gujil
 
 

Andrea aveva gli occhi pieni di treni!
Da vecchio ferroviere si ricordava cose passate e viaggiava col treno, sul treno, nel treno.
Lo sguardo buono pieno di amore per tutti, come mio padre.
Loro due si erano solo sfiorati nella vita ma si erano piaciuti, cercherò di ricordali così.
 

martedì 25 ottobre 2016

Mancanza

mancanza
[man-càn-za]
sostantivo femminile
- Sabatini Coletti -
 
1.- Assenza di qualcuno o di qualcosa o anche presenza insufficiente
SINONIMO carenza: mancanza di buona volontà;
sentire la mancanza di una persona
 
• loc. prep. in mancanza di, in assenza di
 
2.- Mancato adempimento di un impegno; errore, imperfezione: commettere una mancanza imperdonabile  
 
Il bambino perduto
   

Babbo, babbo, dove vai?
Oh, non camminare così veloce.
Parla, babbo, parla al tuo bambino,
O io mi perderò.
La notte era scura, nessun padre c’era;
Il bimbo era bagnato di rugiada;
 

   il fango era profondo,
e il bimbo pianse,
e la nebbia svanì fugace.

 
William Blake 
 
 
padre, padre, dove sei?
la mancanza impera, forte, struggente;
un sentimento arido porta il vento,
un autunno da dimenticare...

lunedì 24 ottobre 2016

A proposito di Dio

              
Nessun dio

Nessun dio l'avrà voluto, e neanche saputo,
Nessuno l'ha accompagnato nella sua fatica,
Un sogno, questo bambino sul viale
Che cammina accanto a lui, cinto di luce.


Nessuno è morto nell'ora in cui è morto,
Ha preso la sua mano nel letto sfatto,
Nessuno avrà mai lavorato accanto a lui
Nell'officina che sostituì la vita.

Risale, nelle parole che dicono il mondo,
Il suo silenzio, che le nega, che mi chiede
D'immaginarne altre, ma non posso.

Nessuno ha posato lo sguardo su di lui.
Quel che avrebbe potuto essere non sarà.
La parola non salva, talvolta sogna.


Yves Bonnefoy
Traduzione di Fabio Scotto
 
 
nessun dio, nessuno,
è difficile lo sappiamo,
quando siamo in pericolo preghiamo,
imploriamo qualcosa, qualcuno...
 

Ognuno è libero di credere o meno all'esistenza di Dio, è vero però che ci rivolgiamo a lui nei momenti buio, tristi, dolorosi.
Chissà come mai non lo imploriamo mai nei momenti sereni, nelle gioie, quando ci sentiamo felici.
 
E' una meditazione da fare, da pensare, non occorre darci risposte, basta avere presente la questione. 

domenica 23 ottobre 2016

I 5 più grandi rimpianti...

Il rimpianto è una reazione negativa, conscia ed emotiva a comportamenti avuti nel passato. Generalmente viene accompagnato da tristezza o imbarazzo, che si manifestano dopo che una persona si rende conto che avrebbe dovuto fare una determinata cosa che non ha fatto. Il rimpianto è distinto dalla colpevolezza, in quanto questa è una sensazione molto più emotiva ed è difficile da spiegare e da comprendere in modo obiettivo. In questo caso, in termini di intensità emotiva, il rimpianto è un'emozione subordinata alla colpevolezza. Inoltre, nel caso della colpevolezza, la vergogna agisce in ambito sociale, mentre nel rimpianto solo nel piano strettamente personale. È inoltre distinto dal rimorso che è considerato dalla società come violento o vergognoso. Il rimpianto si manifesta per azioni che si volevano fare e che non si sono fatte. In letteratura e in retorica il rimpianto è anche una forma di evocazione o espressione di sentimenti di mancanza, assenza (da Wikipedia).
 
 
 Rimpianto
 
Come degli anni più m’accascia il pondo
E mi soverchia il tedio e lo sconforto,
Più mi rincresce di non esser morto
Quando in sen mi brillava il cor giocondo.

Nave dannata a non toccar mai porto
Sia grata al mar se la tranghiotte al fondo;
Grato al caso i’ sarei se fuor del mondo
Tratto m’avesse pel cammin più corto.

Ch’or non sarei, qual son, venuto a tale
Che la vita e la morte odio egualmente,
E non so come uscir del tristo passo.

E non avrei, conforto estremo al male,
Sempre il pensier confitto entro la mente
Ch’io non posso oramai scender più basso.
 
Arturo Graf

 
Vi siete mai chiesti quale sarebbe il vostro più grande rimpianto se oggi fosse il vostro ultimo giorno di vita? Cosa vorreste aver fatto, cosa vi pentireste di non aver mai provato? Bronnie Ware, un’infermiera australiana nella rete delle Cure Palliative per i malati terminali ha riportato per anni le loro ultime parole e desideri in un blog intitolato “Inspiration and Chai” che ha avuto un seguito talmente grande da convincerla a scrivere un libro intitolato
“I 5 più grandi rimpianti dei morenti”.
I cinque rimpianti più grandi di chi è alla fine della vita.
Molti temi comuni. Nessun accenno al non aver fatto più sesso o a non avere provato a fare sport estremi, ma il rimorso di non aver speso più tempo con la propria famiglia, coltivato le amicizie o cercato con più accortezza la via della felicità.
Questi i cinque più comuni rimpianti:
5.- Vorrei essere stato capace di rendermi più felice.
“Molti non si rendono conto, finché non è tardi, che la felicità è una scelta. Sono rimasti bloccati nelle loro abitudini e nella routine. La paura del cambiamento li fa fingere con gli altri e mentire a se stessi, convincendosi di essere contenti quando nel profondo, non desideravano che ridere a crepapelle e un po’ di infantilità nella loro vita”
4.- Vorrei esser rimasto in contatto con i miei amici.
“Molti erano così concentrati sulle proprie vite che hanno perso per strada delle amicizie d’oro nel corso degli anni. Ognuno sente la mancanza dei propri amici quando sta morendo.”
3.- Vorrei aver avuto il coraggio di esprimere i miei sentimenti.
“Molte persone sopprimono i loro sentimenti in modo da mantenere il quieto vivere con gli altri. Di conseguenza, si accontentano di un’esistenza mediocre e non diventano mai chi erano realmente in grado di divenire .”
2.- Vorrei non aver lavorato così duramente.
“Questo è venuto fuori da ogni paziente di sesso maschile che ho assistito. Si sono persi l’infanzia dei loro figli e la compagnia dei propri partner. Tutti gli uomini che ho curato hanno rimpianto profondamente l’aver trascorso così tanto della loro esistenza a dedicarsi sfrenatamente al lavoro. ”
1.- Vorrei aver avuto il coraggio di vivere una vita come volevo io, non quella che gli altri si aspettavano da me.
“Questo il rammarico più comune per tutti. Quando le persone si rendono conto che la loro vita è quasi finita e ripensano ad essa tirando le somme, è facile rendersi conto di quanti sogni sono rimasti insoddisfatti. La salute offre una libertà di cui in pochi si rendono conto, fino a quando non la perdono.”
Viviamo. Prima che sia troppo tardi
(dalla rete)
 
 
come non rimpiangere mai,
chi no ha rimpianti è uno stolto;
rimpianto è qualcosa che serve
a fomentare un ricordo...

sabato 22 ottobre 2016

Adam Zagajewski e il mondo mutilato

 
Adam Zagajewski (Leopoli, 21 giugno 1945) è un poeta, scrittore e saggista polacco. Residente a Parigi dal 1981 al 2002, poi trasferitosi a Cracovia, è insegnante di letteratura presso la University of Chicago. È noto soprattutto per il poema Try To Praise The Mutilated World, uscito a puntate sul periodico statunitense The New Yorker e divenuto celebre dopo gli attentati dell'11 settembre 2001, e per le sue pubblicazioni sul poeta connazionale Czesław Miłosz, Premio Nobel per la Letteratura nel 1980.
Ha vinto il Neustadt International Prize for Literature nel 2004: è il secondo polacco, dopo proprio l'amato Miłosz, a vincere il premio conferito dall'università statunitense.
Poeta del modernismo polacco, Adam Zagajevski ama fare una poesia della prassi senza disdegnare l'impiego iterativo e percussivo della metafora e del simbolo; ovviamente, di un simbolo vuoto e privo di sfondo. Le sue poesie nascono sempre da un atto di riflessione narrante sul mondo, vogliono descrivere con chiarezza ciò che accade nel mondo, e anche ciò che non accade o ciò che potrebbe accadere e non è accaduto: impiega così un metodo pienamente tridimensionale, indica le vie di accesso al reale e accerchia il reale: la pluralità delle vie di accesso e la pluralità delle possibilità che entrano in gioco quando noi facciamo un atto di esperire il reale. Descrive e indica con chiarezza l'essere e il non essere, indica, con l'ausilio della metafora e della ripetizione/variazione, il sempre eguale e il sempre diverso, la stasi e il moto, la dialettica e l'opposizione inconciliabile.
La lingua poetica si trova lì, al centro delle contraddizioni, è uno strumento che bisogna far suonare con il plettro di una lunga e faticosa assimilazione di «cose»; la lingua di Zagajevski è piena di «cose», trasborda di «cose»; il fiume delle «cose» trascina la lingua che parla attraverso gli attriti e gli scossoni che la corrente imprime alle «cose». E gli uomini, al pari delle «cose», vengono esposti alle dialettiche del reale, alla irrazionalità di ciò che è irrazionale e di ciò che è razionale. La poesia di Zagajevski è «piena» di reale, scoppia di reale. La storia è cronaca che diventa eternità, la poesia è cronaca che diventa eternità, ha la durezza dell'essere, la rugosità e l'asprezza dell'essere. Tutto è pieno, tutto è materia, anche la Lingua è materia che bisogna saper modellare e colpire con il martello: la poesia è scultura della materia e il poeta è lo storico di queste sculture.
Le «cose», gli «oggetti» hanno una loro vita e la poesia non è altro che il nastro registratore che registra la vita degli «oggetti»: massima oggettività nella massima soggettività. Il poeta è colui che tiene un diario nel quale registra «la vita degli oggetti».
«Non sono uno storico, ma mi piacerebbe che la letteratura assumesse, consapevolmente e in tutta serietà, il ruolo di una cronaca storica. Non voglio che segua l'esempio degli storici contemporanei, per lo più pesci freddi che hanno passato la loro vita in archivi polverosi e scrivono una lingua burocratica brutta e inumana, una lingua di legno prosciugata di tutta la poesia, piatta come un pidocchio e grigia come il giornale quotidiano. Vorrei che tornasse a esempi più antichi, chissà, addirittura greci, all'ideale del poeta storico, una persona che ha visto e sperimentato direttamente quel che descrive, oppure ha attinto alla vivente tradizione orale della sua famiglia o della sua tribù, che non teme né il conflitto né i sentimenti, ma ha tuttavia a cuore la ricostruzione scrupolosa della vicenda che narra». (citato in John Lukacs, Democrazia e populismo, traduzione di Giovanni Ferrara degli Uberti, Longanesi, 2006, p. 179)
«Uno scrittore che tiene un diario lo usa per registrare ciò che sa; nelle poesia e nei racconti mette quello che non sa». (citato in Tommaso Giartosio, Perché non possiamo non dirci, Feltrinelli, 2004, p. 138) * Nota di Giorgio Linguaglossa
 
Try to Praise the Mutilated World
 
Try to praise the mutilated world.
Remember June’s long days,
and wild strawberries, drops of wine, the dew.
The nettles that methodically overgrow
the abandoned homesteads of exiles.
You must praise the mutilated world.
You watched the stylish yachts and ships;
one of them had a long trip ahead of it,
while salty oblivion awaited others.
You’ve seen the refugees heading nowhere,
you’ve heard the executioners sing joyfully.
You should praise the mutilated world.
Remember the moments when we were together
in a white room and the curtain fluttered.
Return in thought to the concert where music flared.
You gathered acorns in the park in autumn
and leaves eddied over the earth’s scars.
Praise the mutilated world
and the gray feather a thrush lost,
and the gentle light that strays and vanishes and returns.
 
  
Tenta di lodare il mondo mutilato
 
 Tenta di lodare il mondo mutilato.
 Ricorda i lunghi giorni di giugno
 e le fragole selvatiche, le gocce del vino, la rugiada.
 Le ortiche che ricoprono metodicamente
 le case abbandonate dagli esuli.
 Non puoi non lodare il mondo mutilato.
 Hai guardato le barche alla moda e le navi;
 una si preparava per un lungo viaggio,
 un salso oblio attendeva altre.
 Hai visto i profughi partire senza meta,
 hai sentito i carnefici cantare per la gioia.
 Devi lodare il mondo mutilato.
 Ricorda i momenti in cui eravamo insieme
 in una stanza bianca e la tenda tremolava.
 Ripensa al concerto in cui la musica esplose.
 Hai raccolto ghiande nel parco d'autunno
 e le foglie mulinavano sulle cicatrici del terreno.
 Loda il mondo mutilato
 e la piuma grigia che il tordo ha perduto,
 e la luce tenue che vaga e svanisce
 e ritorna.
 
Adam Zagajewski
Traduzione di Clare Cavanagh e Nicola Gardini
 
 
questa allucinante stasi,
questa indecenza dentro,
non posso pensare alla gioia
posso solo vedere i mali del mondo...

venerdì 21 ottobre 2016

Giorni di minime #26



le prime brume, nei prati,
foglie dorate planano,
il bosco è quasi silenzio;
rialzo il bavero ed il viso
accolgo le nebbie nel cuore,
un attimo solo, un brivido,
mi rimetto in cammino
ma il passo è pesante...
 
Gujil


 ...a me piace ricordarlo così, con la sua bicicletta, con qualunque tempo, qualunque distanza, malgrado gli acciacchi, incurante dei tanti anni. Era tempo che non la poteva più usare, era stata sostituita da una carrozzina che riuscivamo a incastrare in ascensore quando lo portavamo a casa, la sua casa. Ma mi piace ricordarlo in bicicletta mentre arranca le strade della vita e porta con sé nascosto, quasi si vergognasse, quel piccolo spiraglio di luce ai suoi cari, a tutti.
A me piace ricordarlo così...

giovedì 20 ottobre 2016

Aquilone (a T. con amore)

L'aquilone è un oggetto più pesante dell'aria vincolato a terra da un filo, che può volare sfruttando la forza di portanza generata dal vento. Il vento può anche essere virtuale, cioè prodotto dalla camminata all'indietro del pilota.
Gli aquiloni sono stati spesso citati in poesia, il loro volo leggero, i loro colori sgargianti hanno sempre dato una sensazione di leggerezza e positività.
Vorrei pensare che le anime grandi possano assomigliare agli aquiloni nel cielo.



L'aquilone
 
 C'è qualcosa di nuovo oggi nel sole,
 anzi d'antico: io vivo altrove, e sento
 che sono intorno nate le viole.
 
 Son nate nella selva del convento
 dei cappuccini, tra le morte foglie
 che al ceppo delle quercie agita il vento.
 
 Si respira una dolce aria che scioglie
 le dure zolle, e visita le chiese
 di campagna, ch'erbose hanno le soglie:
 
 un'aria d'altro luogo e d'altro mese
 e d'altra vita: un'aria celestina
 che regga molte bianche ali sospese...
 
 sì, gli aquiloni! È questa una mattina
 che non c'è scuola. Siamo usciti a schiera
 tra le siepi di rovo e d'albaspina.
 
 Le siepi erano brulle, irte; ma c'era
 d'autunno ancora qualche mazzo rosso
 di bacche, e qualche fior di primavera
 
 bianco; e sui rami nudi il pettirosso
 saltava, e la lucertola il capino
 mostrava tra le foglie aspre del fosso.
 
 Or siamo fermi: abbiamo in faccia Urbino
 ventoso: ognuno manda da una balza
 la sua cometa per il ciel turchino.
 
 Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza,
 risale, prende il vento; ecco pian piano
 tra un lungo dei fanciulli urlo s'inalza.
 
 S'inalza; e ruba il filo dalla mano,
 come un fiore che fugga su lo stelo
 esile, e vada a rifiorir lontano.
 
 S'inalza; e i piedi trepidi e l'anelo
 petto del bimbo e l'avida pupilla
 e il viso e il cuore, porta tutto in cielo.
 
 Più su, più su: già come un punto brilla
 lassù lassù... Ma ecco una ventata
 di sbieco, ecco uno strillo alto... - Chi strilla?
 
 Sono le voci della camerata
 mia: le conosco tutte all'improvviso,
 una dolce, una acuta, una velata...
 
 A uno a uno tutti vi ravviso,
 o miei compagni! e te, sì, che abbandoni
 su l'omero il pallor muto del viso.
 
 Sì: dissi sopra te l'orazïoni,
 e piansi: eppur, felice te che al vento
 non vedesti cader che gli aquiloni!
 
 Tu eri tutto bianco, io mi rammento.
 solo avevi del rosso nei ginocchi,
 per quel nostro pregar sul pavimento.
 
 Oh! te felice che chiudesti gli occhi
 persuaso, stringendoti sul cuore
 il più caro dei tuoi cari balocchi!
 
 Oh! dolcemente, so ben io, si muore
 la sua stringendo fanciullezza al petto,
 come i candidi suoi pètali un fiore
 
 ancora in boccia! O morto giovinetto,
 anch'io presto verrò sotto le zolle
 là dove dormi placido e soletto...
 
 Meglio venirci ansante, roseo, molle
 di sudor, come dopo una gioconda
 corsa di gara per salire un colle!
 
 Meglio venirci con la testa bionda,
 che poi che fredda giacque sul guanciale,
 ti pettinò co' bei capelli a onda
 
tua madre... adagio, per non farti male.
 
Giovanni Pascoli
  
 
L’aquilone di Giovanni Pascoli racconta un episodio controverso dell’infanzia del poeta, in cui la gioia e la felicità di un ricordo del passato si uniscono all’amarezza per la morte di un compagno del collegio. In ventuno terzine in versi endecasillabi, Pascoli ribadisce un concetto che è diventato il cardine degli studi sulla memoria: il ricordo è un elemento bifronte, che può riaccendere sentimenti di pura e incontaminata nostalgia, ma anche intensi momenti di dolore.
Come il X Agosto, in cui Pascoli rievoca la morte del padre da cui era rimasto profondamente scosso, anche L’aquilone è una “poesia della memoria”, in cui si parla di una morte prematura, tanto violenta quanto inaspettata. La giornata particolare ha ricordato al poeta il suo passato. Con la mente è andato altrove e intorno gli sembra che siano nate le viole nel bosco del convento dei cappuccini tra le foglie morte cadute dalle querce.
L'aria mite ha sciolto la terra ghiacciata e ha lambito anche le chiese di campagna; è l'aria, per il poeta, di un luogo lontano e di un tempo diverso - l'aria che usava per far volare gli aquiloni. Pascoli rievoca una mattina senza scuola. Con i compagni esce nel cortile, tra le siepi irte, con qualche bacca rossa autunnale e qualche fiore primaverile bianco. Sugli alberi zampettava un pettirosso e da un fossato si vedeva uscire una lucertola. Davanti al poeta e ai suoi amici, era Urbino: nel vento tutti facevano volare nel cielo azzurro il loro aquilone.
Gli aquiloni volavano nel vento, mentre i ragazzi gridavano, prendendo il filo dalla mano di chi li faceva volare.
Con l'aquilone anche i ragazzi si sentivano come volare. Ma ogni tanto il vento faceva andare di sbieco l'aquilone: ciò faceva gridare i ragazzi.
Quelle voci ricordate fanno rimembrare al poeta i suoi compagni, soprattutto quello morente per cui ha pianto e pregato. Quel compagno è stato più fortunato perché il suo più grande dolore è stato vedere cadere gli aquiloni. Pascoli, infatti, crede che morire giovani è più dolce che da adulti, perché almeno vicino alla madre (dalla rete).
 
si era ricordato,
le ultime strofe, quelle belle,
dense di tutto, troppo,
troppo dolore...