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L'ombra è l'opposto del sole, ma si nutre di esso.
Un cielo grigio non genera ombre: nessun contrasto, nessun pensiero.


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giovedì 31 maggio 2007

Black Sabbath: "Under The Sun / Every Day Comes & Goes"

Well I don't want no demon to tell me what it's all about
No black magician telling me to get my soul out
Don't believe in violence, I don't even believe in peace
I've opened the door and my mind has been released

Well I don't want no preacher telling me about the god in the sky
No I don't want no one to tell me where I'm gonna go when I die
I wanna live my life with no people telling me what to do
I just believe in myself, 'cause no one else is true

Every day just comes and goes
Life is one big overdose
People try to ruin me
and I can't seem to eliminate them

People riding their real pace
keep on running their rat race
The ante is risen once a week
in their world of make-believe

So believe what I tell you, it's the only way to fight in the end
Just believe in yourself, you know you really shouldn't have to pretend
don't let those empty people try and interfere with your mind
Just live your life and leave them all behind

Le donne belle


I
Le donne belle incrociano il mare degli uomini e
come caravelle hanno vele gonfie di umori e
la loro testa anima e vive nel muoversi leggero
dei loro fili d’ ebano, di rame o venati dell’ oro.
Il colore del vento è nel loro fiato d’ Inverno
quando gela a contatto con l’ aria in nuvolette
grigiastre di tiepido respiro denso di vita.

II
Le donne belle incedono la strada degli uomini e
come comete hanno luce abbagliante dagli occhi e
la loro testa è fucina continua di giochi notturni,
lunari riscontri a più nitidi scorci irreali.
Il colore del vento è nel loro respiro di Primavera
quando socchiudono gli occhi a carpire
il profumo dei fiori e dell’ erba appena tagliata.

III
Le donne belle piangono il percorso degli uomini
come stelle cadenti si usurano in scie luminose e
la loro testa sublima dolore e gioia contenendo
concrezioni terrene di primordiali ricordi.
Il colore del vento è loro nel gusto salato di mare
che le labbra riarse da un sole alto e cocente
assaporano, avide e tumide, nella canicola estiva.

IV
Le donne belle costringono il pensare degli uomini e
come animali selvaggi espongono ad ignari confini e
la loro testa invoglia a scabrosi disegni mentali,
metamorfosi cosmica di ancestrali ritorni.
Il colore del vento è loro negli umori autunnali
Cosparsi di nebbiosi mattini e bui meriggi
pieni di nebbie, di humus e di boschi nascosti.

V
Le donne belle sono il colore del vento
gonfio di sensazioni provate ogni giorno di vita
e la loro testa si colora di noi e dei nostri amori,
di frenetici ardori slanciati in estatici afflati
nelle nuvole bigie di quando la vita è temporale
o quando un chiaro riflesso di nitido sole
riscalda nell’ animo un improbabile sogno.

Buon vento!

(Anonimo XXI° Secolo)

mercoledì 30 maggio 2007

nothing else matters


Di che reggimento siete
fratelli?

Parola tremante
nella notte

Foglia appena nata

Nell'aria spasimante
involontaria rivolta
dell'uomo presente alla sua
fragilità

Fratelli

Giuseppe Ungaretti

martedì 29 maggio 2007

doesn't matter








Gli sciocchi corrono

dove gli angeli non osano
andare

in punta di piedi.


Yogi Ramacharaka






lunedì 28 maggio 2007

if only...







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Everytime I tried to tell you
the words just came out wrong...

(Jim Croce)

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casuali dispiaceri


Han fucilato ieri
il professore e tutti i suoi pensieri

(Roberto Vecchioni)






(grazie a Psychoharp per il titolo)

amen



Dio non gioca a dadi con l'universo.

Albert Einstein



Einstein, non dire a Dio cosa deve fare.

Niels Bohr
rispondendo ad Einstein





Poesia

Sappiate custodire l'amore,
con gli anni custodirlo doppiamente.
L'amore non sono i sospiri sulla panchina,
non le passeggiate sotto la luna.
Ci sarà di tutto: piovaschi e spruzzi di neve.
Tutta una vita si deve trascorerre insieme.
L'amore somiglia a una bella canzone,
e una canzone non è facile comporla.

STEPAN SCIPACEV


Spalle

Ti fregano dicendoti che sei stupido, ma ti fregano anche dicendoti che sei bravo, intelligente, giudizioso, responsabile. Un vero ometto.
In entrambi i casi, ti caricano un fardello troppo grave per le tue esili spalle.
La colpa se la prendono sempre quei poveracci dei nostri genitori, che a loro volta si portavano addosso un'analoga zavorra, e così via. Ti caricano del tuo fardello, convinti di offrirtene uno più leggero ("sei bravo"), oppure di renderti le spalle più robuste ("sei stupido").

In realtà, ciascuno di noi si porta addosso solo il carico che ritiene indispensabile per il viaggio, così come ciascuno si è dotato delle spalle che reputa sufficienti a sostenerlo.
I ruoli sono intercambiabili: chi ti ha alleggerito il peso, in realtà ti ha fornito spalle robuste ma insopportabilmente ingombranti e rigide, tanto da renderti impossibili i movimenti.
Al contrario, chi ti ha chiamato stupido ti ha riempito lo zaino di inutili sacchi di sabbia. Ma, lungo la via, la sabbia è scivolata dalle fessure.
Incuriosito dall'inattesa leggerezza, hai scoperto che, in realtà, le tue spalle non si erano smisuratamente irrobustite: aprendo lo zaino hai constatato con grande meraviglia che la sabbia era interamente defluita, lasciando nei sacchi solo un lieve carico occulto di gemme d'inestimabile valore.
In realtà, è vero che "siamo solo ciò che abbiamo imparato".
Il sentiero ascende, e dal buio del dolore notturno sorge un'alba che reca con sé il sorriso stanco del pellegrino, sfinito e confuso dai patimenti del corpo e dell'anima, ma grato per l'interminabile cammino illumimato dalle ultime stelle della notte declinante.

Stupidario giornalistico

Classifica aggiornata al 28 Maggio:

  1. Il traffico è in tilt.
  2. Prima di sdraiarci al sole per la tintarella, dobbiamo affrontare la prova-costume.
  3. Gli imprenditori italiani devono affrontare la concorrenza dei colleghi con gli occhi a mandorla.
  4. In occasione della Pasquetta, molte famiglie si sposteranno per la tradizionale gita fuori porta.
  5. Dopo le feste natalizie, si pone il problema della dieta giusta per smaltire i chili di troppo.
  6. Ancora una volta, siamo di fronte a una tragedia annunciata.
  7. Hanno prestato giuramento i primi soldati in gonnella.
  8. L'Italia è spaccata in due.
  9. Stasera, tutti in famiglia per il tradizionale cenone.

Se siete arrivati in fondo senza vomitare, lasciate perdere.

In caso contrario, postate le stupidaggini (vere) che vi hanno maggiormente disgustato. Ricchi premi.

venerdì 25 maggio 2007

Diritto d'autore o autore di diritto?

Il diritto d'autore servirà anche a rendere milionari pochi fortunati artisti, ma sta rischiando di uccidere la creatività.
L'autore affermato, ormai prigioniero del suo abbraccio con il business-system, spesso rinuncia a seguire la propria ispirazione (ammesso che ne abbia ancora) per andare incontro al gusto del pubblico. Emergono così i mediocri, e non è raro incontrare per caso validi artisti misconosciuti proprio a causa di questo meccanismo.
Pensiamo al fenomeno della musica su Internet. Grazie a questo mezzo, non c'è mai stata epoca che abbia conosciuto una più ampia diffusione della musica.
Eppure le case discografiche insorgono in nome del profitto, così la circolazione della musica è trattata al pari del furto, dello stupro, della pedofilia... Si arriva perfino a far pagare chi canta l'inno nazionale allo stadio...

martedì 22 maggio 2007

Blog segnalato



Visitate il blog "Heiresis"
l'heresia costruttivista.



Idea per un Racconto: "Dissolvenza"

(bozza da sviluppare, in progress)

Mi sto dissolvendo.
Non so in quale altro modo definire ciò che mi sta succedendo.
E' cominciato qualche mese fa. O forse di più, non so.
Inizialmente non ci facevo nemmeno caso: ho cominciato a rifletterci dopo.
La consuetudine quotidiana porta l'indifferenza: si parla e ci si ascolta in modo distratto e superficiale. Rientri a casa e quasi non se ne accorgono; continuano tutti ad occuparsi delle proprie faccende, senza nemmeno alzare la testa. La normalità.
Non so perché, ho cominciato a rendermi conto in modo più acuto di questo disinteresse apparentemente usuale.
Facendoci caso, notavo in modo sempre più frequente che per strada, in casa, a scuola, sempre più spesso nessuno faceva caso a me.
Per strada, direte voi, è normale. A scuola è normale: colleghi frastornati e studenti annoiati non ti danno retta, è ovvio.
A casa, entro certi limiti, è normale. Ma sempre più spesso mi accorgevo che Valeria e i ragazzi mi incrociavano senza notarmi. Li vedevo assorti, chiamavo e nessuno rispondeva. A tavola, dopo cena, l'attenzione era rivolta alla televisione, alle letture, alle telefonate, al computer... Alla conversazione avevo rinunciato da tempo, ma ora cominciavo a sentirmi trasparente, quasi inesistente.
Mi era capitato molte volte di partecipare a convegni e restare fuori casa per qualche giorno. Nell'ultimo periodo avevo assunto un incarico che comportava trasferte più frequenti, così diventò per tutti un'abitudine che fossi assente. Così nessuno più faceva caso alle mie partenze, né ai miei ritorni. Nessuno più mi chiedeva niente. Nessun congedo, nessun bentornato. A scuola ero spesso sostituito da un supplente, così anche là diventai un fantasma, favorito in ciò anche dalla mia scarsa propensione alla conversazione e alle relazioni sociali.
Un martedì pomeriggio, a fine Ottobre. In metropolitana c'erano tre miei studenti, Non soltanto non mi hanno salutato ma, oltre a non essersi avveduti di me, parlavano del supplente come del loro professore. Mai illudersi di costruire un rapporto con i ragazzi. Mai dipendere dalla loro simpatia.
Mi capitava sempre più sovente di cercare di rivolgere la parola e di non ottenere né risposta né cenni d'ascolto. In famiglia ciò era ogni giorno più penoso: ormai parlavo immancabilmente da solo. Chiamavo, ma non rispondevano. Facevo una domanda, e la mia voce veniva coperta da quella di un altro. Finii per tacere sempre più spesso, per immalinconirmi e rinchiudermi ulteriormente in un sopore dolente.
In Novembre mi ammalai. Niente di serio, ma ebbi la febbre e una brutta infreddatura. Ovviamente, tutto passò inosservato. Tossivo, chiamavo, urlavo. Niente. Arrivai all'esasperazione, rasentai la violenza fisica. Guardavano nel vuoto e distoglievano l'attenzione, come da un programma televisivo a volume troppo alto. A volte sentivo mormorii nell'altra stanza.
Così iniziò l'abbruttimento, che si alimentava reciprocamente con la rassegnazione, la rabbia silenziosa e impotente. Smisi del tutto di parlare. Mangiavo pochissimo, prevalentemente di notte. Da Gennaio smisi di lavorare, ma lo stipendio mi arrivava lo stesso in modo regolare. Restavo a casa, in pigiama, con la barba incolta, senza più nemmeno lavarmi. Dormivo sul divano, ma mia moglie nemmeno se ne accorgeva. Forse si era abituata da anni alle mie frequenti veglie notturne da insonne davanti al televisore, alla mia distrazione, al mio perenne mutismo, alla mia indeterminatezza.
Cominciavo a perdere consistenza fisica, lo percepivo con chiarezza. Dimagrivo, guardavo nel vuoto, esistevo ogni giorno di meno. Andavo alla deriva. Ero quasi del tutto invisibile.
Me ne andai di casa.

Vagavo per le strade, dormivo dove capitava, dove nemmeno gli altri clochard mi notavano.
Mi ritrovai seduto su un'auto della Polizia. Forse mi scaricarono a casa. Ora mi trovavo di nuovo sul divano. Sentivo voci sommesse. Forse il Dottor Riboldi. Qualcuno della famiglia. Sembrava un singhiozzo trattenuto. Poi, degli uomini in camice bianco che parlavano tra di loro. Io avrei voluto dire qualcosa, ma nessuno se ne accorse. Ancora il divano. Voci lontane che pronunciavano il mio nome. No, il nome di un altro uguale al mio.
Sono a letto. Sudo, forse ho la febbre alta, tutto scotta. Scatole e flaconi sul comodino. Un'infermiera assorta in una lettura scandalistica. Gossip, lo chiamano. Vorrei sapere da dove deriva questa parola, ma non so a chi chiedere. Lei, nemmeno mi guarda.
Ora mi sento leggero. Una fiala su un trespolo, una cannuccia che mi arriva al braccio.
Mi dissolvo. Non so se è la mia stanza. Nella penombra non distinguo bene.
Arturo.
Il mio nome.
Come stai?
Non rispondo. La voce si è smarrita, come tutto il resto.
Forse una volta ero vivo, non ricordo.
Forse non sono mai nato, oppure sono nato già vecchio.
Non me ne importava niente, perché cercare l'approvazione degli altri? Perché essere schiavi della volubile simpatia degli esseri umani, così frivoli e dediti a misere passioni?
Il non-essere, l'agonia in un letto d'ospedale, ecco la mia verità, la mia libertà.

Marco Laudiano, 21 Maggio 2007

(Tutti i diritti riservati)

venerdì 18 maggio 2007

La signora delle acque



SILVIA MESSA


La signora delle acque


Ed. Carte Scoperte, 2006




Pietra e Acqua. Su questi elementi gli uomini costruiscono i loro destini, i loro sogni, le loro dimore. Un castello perfetto domina il monte e il fiume, un luogo dove ordine e pace dovranno regnare. Il suo artefice scompare misteriosamente alla vigilia della nascita dell'erede della nobile casata. La moglie del signore del maniero custodisce un oscuro segreto. Sulle loro vite, l'ombra del fratello del conte, medico e alchimista, che indaga sulla scomparsa dell'amico architetto e fugge dai suoi dèmoni. Ma nelle profondità delle terra esiste un mondo dove l'unica legge è Saeva, una creatura potente, antica e imprevedibile. Le sue brame determinano i destini degli esseri umani. Nel bene e nel male. Non basteranno un viaggio in Terrasanta, la protervia di un califfo e la malvagità di un vescovo per fermarla. Ma sui capricci di una sorte tragica, qualcosa fiorisce, cresce e muta: l'amore. Anzi, gli amori. Strani, estenuanti, possibili e impossibili amori.


giovedì 17 maggio 2007

Rust never sleeps


Nowhere to run, nowhere to hide
You've got to kill to stay alive

Show them no fear, show them no pain

(Iron Maiden, "The mercenary")










E scappò via con la paura di arrugginire,
il giornale di ieri lo dà morto arrugginito.
I becchini ne raccolgono spesso
tra la gente che si lascia piovere addosso


(Fabrizio de Andrè, "La canzone del padre")




And I still can hear him say:

You’re all just pissin’ in the wind
You don’t know it but you are.

And there ain’t nothin’ like a friend
Who can tell you you’re just pissin’ in the wind.



(Neil Young, "Ambulance blues")





mercoledì 16 maggio 2007

Psychoharp

Come un topo mi lascio ipnotizzare dal Pifferaio di Hamelin e lo seguo verso il baratro. So che c'è, sta là davanti. Ma non ho paura. Sorrido e mi struggo per le note del sax. So che mi capisce. Mi sento a casa.
Casa.
Home is where my Harp is.

(postato da Psychoharp)



Jungleland

"Sono stato sedici ore davanti a quel maledetto microfono. Io e Bruce abbiamo costruito l'assolo nota per nota, sfumatura per sfumatura. Non era mai soddisfatto e lo registrammo un numero impressionante di volte. Ero stravolto. Ma ancora oggi c'è gente che mi ringrazia e mi dice che quell'assolo gli ha salvato la vita." A parlare è Clarence Clemons. Protagonista è, manco a dirlo, il solo di sax di "Jungleland".

(da una recensione scritta da Hamilton Santià)


Consapevolezza

Consapevolezza è la parola chiave.
Precede e genera tutto.
Il suo opposto è la schiavitù dell'opinione degli altri, la volubile 'doxa'.
Affidare la propria felicità alla capricciosa stima degli altri?
Al massimo, ce la concederanno per avere in cambio la stessa merce (ammesso che la nostra opinione abbia un sufficiente valore di mercato...).

Provate a leggere "Messaggio per un'aquila che si crede un pollo" di Anthony de Mello.

Sei salvo solo quando hai provato a perdere un pezzo di te stesso e ne esci più intero.

Ombre in cielo

Ombre per pensare.

Lontano dalle verità accecanti di quelli che sanno tutto.
Coltivare il dubbio, che oggi crea sospetto. L'attimo d'indecisione...




Salire sulla montagna,

respirare il suo silenzio.
Un posto per capire.
Un posto per pensare.

(Nella foto: il Pizzo Tresero da S.Caterina Valfurva)

Un posto sicuro...


Cannero Riviera (Verbania, Lago Maggiore)
Un posto per pensare.

martedì 15 maggio 2007

Racconto di Natale

Il Fiume Adda: un altro posto per pensare. L'acqua sempre uguale e sempre diversa, quella di Siddharta.
Lo scorerre ipnotico dei tuoi pensieri che seguono la corrente e sfumano verso l'Infinito, dov'è dolce naufragare.

Una folata di vento distolse ogni dubbio e ogni sicurezza.
Restava solo l'evidenza, e con quella non c'era proprio niente da fare.
Sputarono in terra all'unisono. Uno alzò le spalle, l'altro ridacchiò, e proseguirono lungo l'argine, ciascuno perso nelle proprie esitazioni. Ma non importava più: il sole aveva toccato le cime degli alberi, e ora solo questo sembrava avere rilevanza.
Il volo del cigno, un già visto di tempi remoti, portò via con sé le ultime certezze. Come lui si sentirono leggeri, e parvero volare nell'impercettibile istante in cui si riaprono le possibilità, e tutto sembra poter ricominciare daccapo.
Si accorsero così che, ora che era giunto, il futuro era già stato scritto ventiquattro anni prima. Solo che allora non lo conoscevano. Che banalità.
Eppure è vero. La verità esiste. Basta attendere che si manifesti.

Al Bar del Porto il gelo si dissolveva nell'aria viziata di fumo e rassegnazione che aleggiava nel locale stantio. Il bianchetto andò giù senza far male.
La sera li sorprese dolcemente, come un ricordo piacevole.
Il rombo dell'auto nella nebbia si perse nella campagna fradicia. La realtà ricominciava, ma ora si sapeva che gli omini verdi dell'autostrada li aspettavano ancora dopo il casello di Lodi.
Non ci sarebbero mai andati.

Marco Laudiano, 25 Dicembre 2006

(Tutti i diritti riservati)

Racconto: "Malattia avanzata"

MALATTIA AVANZATA


"Deponi il tuo mantello, pellegrino. - disse il vecchio - La notte è fonda, e ancora a lungo si dovrà vegliare".

L'oscurità della capanna contrastava stranamente con il chiarore dei lineamenti dell'ospi­te.

Buone parole e un tè caldo nella bufera per un vagabondo sperduto nella ricerca di una veri­tà.

Avevo bisogno di fermarmi, per riordinare le idee: la pioggia e il vento fa­stidioso non erano in realtà un problema, e il vecchio doveva averlo capito.

Avevo più che altro bisogno di un punto di riferimento, di un'autorità morale che non mi chie­desse né desse conto della so­lita realtà, ma che sapesse pronunciare una parola nuova, quella più difficile, non consumata dall'abuso del buon senso né dallo sgarbato berciare del torto che diventa ragione attraverso la ri­petitività o la so­praffazione.

"Le parole sono già scritte. Bisogna saperle scegliere, ana­gramman­dole forse, ma nulla più".

Dalla minuscola finestra potevo vedere il piccolo ponte di legno che sembrava confondersi con l'acqua nell'incerta luce am­brata che riluceva stranamente sul piccolo lago.

Mettere in fila le parole, anagrammare frammenti di senso. Le frasi si rincorrevano come in un vaneggia­mento mentre il sonno mi aggrovigliava i pensieri, alle soglie del sogno.

Ma il sonno era agitato, nonostante la stanchezza si doveva vegliare. Il vecchio sedeva da­vanti alla finestra, come attendesse qualche ombra che doveva pur venire, e ben lo si sa­peva.

Forse anche lui come me - senza volermelo confessare, per orgo­glio o, chissà, per riguardosa sollecitudine - aspettava il nume che gli desse il responso ultimativo risparmiandoci la pena di ri­mescolare i nostri destini fino alla totale confusione, alla pazzia, o all'estrema normalità. Ma un vecchio sa bene che per lui questo estremo responso altro non potrà essere che la morte. Questo aspettiamo tutti. Il chiarimento ultimo, la spiegazione definitiva che, dunque, tutti già conosciamo fin da principio.

E allora perché vegli, vecchio? Perché il mio sonno è tanto agitato e si confonde con i sogni che mi tengono desto?

Il mio ospite si era assopito, e ciò mi parve un rassicurante gesto di noncuranza, a risposta delle mie ansie si­lenziose. Fu in quegli che entrò dall'uscio il ragazzo. Poco più che bambino, dall'aria furbetta e condiscendente, come consumata dalle certezze dettate da un'acerba esperienza. Ma i gesti lo tradivano: con delicatezza coprì il nonno con una coltre di lana e gli impartì un'im­pacciata carezza sui capelli dormienti mentre se ne fuggiva lasciandogli a terra un canestro di pane e non so che altro.

Scivolò fuori, riguardandomi con quell'espressione beffarda che lo proteggeva dall'improv­vida fragilità di quel visino simpatico, senza ancora una parte da recitare.

"Il mio Cipollino" proruppe il vecchio in un improvviso mormorio intenerito che mal si con­ciliava con la sinistra solennità della notte incombente, con le sue promesse e le sue minacce di verità implacabili e vincolanti.

"Sai - soggiunse con voce forzatamente asciutta - per lui il responso definitivo verrà presto, forse prima che per noi".

Di colpo la prospettiva era mutata, le apparenze si erano ribaltate, gli stessi occhi non vede­vano più ciò che avevano visto prima.

Davanti a me avevo un vecchietto incerto e tremolante, e la Morte era entrata di contrab­bando, sotto mentite spoglie. Ecco l'anagramma, il senso in frantumi, l'estremo rimescolamento che produce verità attraverso la casualità e la dissimulazione.

Ma la notte era ancora lunga, il mattino lontano, occorreva vegliare ancora. Nessuno poteva più dormire, nessuno può mai dormire rischiando di rimanere all'oscuro dei prodigi sconvolgenti che giungono del tutto inaspettatamente.

Il vecchio, ad esempio. Ora sembrava nuovamente sprofondato in un sopore dolente, scosso da un respiro fattosi ruvido, incostante, frammentato da frequenti sussulti. Ma ormai sapevo che anche questa era un'apparenza mutevole e ingannatrice. Il mio ospite si riscosse assumendo nuova­mente un'espressione nobile e austera. Stavolta mi fissava non senza malinconia, ma mi trasmetteva tutta la rassegnazione di un vecchio che ha ormai assunto familiarità con la fine della vita, così co­me essa si manifesta agli sguardi atterriti di noi pellegrini frettolosi e superficiali.

"Mio giovane amico, lo scopo non può e non deve consistere nell'evitare la sofferenza. Ma presto mi dovrò risolvere a sopprimere il mio piccolo Cipollino, anche se un po' mi dispiacerà, do­po".

Un ghigno rugoso apparve nei suoi lineamenti nodosi, e l'orrore per l'improvvisa rivelazione mi risvegliò le palpebre che stavano per appesantirsi. Gli abiti logori del vecchio folle nasconde­vano dunque un'arma aguzza, un orribile e macabro segreto. Avevo fatto bene a vegliare, e quale rischio avevo corso.

Vidi le mani adunche afferrare il pane portato dall'ignaro fanciullo, poi spezzarlo con gesti malfermi. Si chinò lentamente, e dall'oscurità della stanza emerse un piccolo cane malconcio.

L'uomo intinse un pezzo di pane nel latte e lo offrì al cane che debolmente si nutrì e leccò la mano del padrone, il quale lo accarezzò delicatamente e ripeté il gesto più volte. Alla fine il cane si accucciò ai suoi piedi e il vecchio mi disse sommessamente, quasi non volesse farsi sentire dalla bestiola: "Povero piccolo, soffre molto, e quasi mi sento egoista, ma non ho il coraggio di mettere fine al suo dolore. Anche il mio piccolo Maurizio non vuole farlo. Gli porta il pane tutte le sere, prima di andare a dormire".

Di nuovo la mia mente venne risucchiata, stavolta da un dolce sprofondare simile all'ubria­chezza, illuminata da una saggezza folle da esaltato. Ora le certezze mi innalzavano e mi facevano precipitare, la mia pazza presunzione mi dava la sicurezza di non dovermi più confrontare con la molteplicità.

Il mio vecchio era sempre lì, nuovamente immutabile, non certo ignaro della mia confusione, della mia incapacità di vedere e capire.

"Non è cecità, - mi prevenne - tutto ciò che vedi è, ed è anche ciò che tu sei in quel momento. Vedere o no è relativo. I miei occhi si sono spenti da anni, probabilmente perché non ne avevo più bisogno. Forse, se ne avessi di nuovo la necessità, potrebbero riaversi, ma non penso che vedrei in tal modo più nitidamente di adesso".

Ecco un nuovo prodigio, pensai. Un nuovo anagramma in quella notte dai mille colori.

Lui mi guardava - ne sentivo la certezza - ed io di colpo capivo, ma non sapevo che cosa e, soprattutto, che farne.

Domani sarò di nuovo nel mondo strillante, non ci sarà più mistero né verità, solo chiasso e abitudine.

L'ospite dormiva profondamente. Perché non mi rispondi più, vecchio? La domanda vera è questa.

Ero solo e non avevo più sonno. Già, adesso toccava a me vegliare. La luna illuminava in pieno la finestra e il vento faceva vibrare leggermente i vetri sudici. La magia mi ipnotizzava, mille e mille volti mi fissavano. Ridevano, minacciavano, restano contratti in una smorfia inespressiva.

La folla si diradava. La luna immobile.

"La fine della giornata viene sempre. Il frastuono è insito nella luce del giorno. Non sta nei rumori, ma nel nostro palpitare".

Mi lasciai abbracciare da un refolo fresco che mi solleticò scanzonatamente e mi aggiustai la coperta, ormai gratificato. La veglia era finita.

La luna si scusò e tramontò in fretta oltre i riflessi del vetro. Io ristetti a lungo, assaporando per la prima volta il mio respiro nel silenzio.

Marco Laudiano, 18 Aprile 1992

(Tutti i diritti riservati)


Racconto: "L'ultima notte del mostro"

Il mostro con le scarpe infangate si aggirava nel deposito dei camion in disuso.



Il vago bagliore lunare non sapeva disegnare la sua ombra, che si lasciava sciogliere come in un lugubre acquarello.


Smise di correre. Nessuno più lo inseguiva. Nessuno l'aveva mai inseguito. Si fermò, riprese fiato, si guardò indietro. Anco­ra nessuno. Era stanco di scappare. Si nascose ad aspettare die­tro una pila di bidoni ammucchiati. Nessuno venne.


Vagava da ore lungo i marciapiedi della piccola città che ben conosceva. Eppure, in qualche modo si sentiva lontano. Lonta­no da una stanza riscaldata, lontano da quel mondo logico e ras­sicurante che appena sfiorava camminando rasente ai muri, stri­sciando l'impermeabile contro le pareti esterne delle case. Den­tro, bambini ignari guardavano i programmi televisivi pieni di rumori e di colori. Con quelle storie fragorose, in cui anche la crudeltà ha una spiegazione, e nemmeno l'uomo cattivo ti può far paura.


Dalle sottili righe di luce delle tapparelle abbassate fug­givano attraverso immaginari pentagrammi i suoni di quel mondo, e lui riscriveva quel mondo con le gocce di pioggia su quei minu­scoli quaderni allineati, come un compito consegnato troppo tar­di. Come la paura di portare alla mamma un brutto voto. Rimani fuori un'infinità di minuti, a bere pioggia e lacrime, senza il coraggio di salire in casa, dove ti aspetta la liberazione da questa paura, il caldo, la tiepida luce della cucina, l'inevita­bile sgridata.


Dolce abbandonarsi alle solite parole di rimprovero, chinare la faccia sopra la minestra già pronta, sentire il vapore caldo che ti consola, il perdono che s'intravede già negli sguardi scu­ri che ti ordinano di mangiare.


Dolce abbandonarsi all'umido nelle ossa, nelle scarpe, nei piedi. Dolce non reagire più all'abbraccio dei vestiti fradici. Ora non bisognava più evitare le pozzanghere, correre a casa ad asciugarsi, ad arginare il raffreddore sicuramente in agguato. In quella casa c'era il sangue delle vittime, che scorreva senza più rimedio. Non aveva più senso riparare, mettere le scarpe sul ca­lorifero, le calze in bagno, preoccuparsi di non sporcare in giro col sangue.


Il sangue delle vittime. Ed ora il suo. Un bruciore feroce, una certezza da farti mordere i denti per resistere fino alla fi­ne.


Sedette sulla panca di cemento del cortile, e si guardava il respiro nebbioso disperdersi nel bagliore del lampione, una debo­le luce da sempre indecisa tra il giallo pallido e il bianco sporco. Si passò una mano sul viso e si sentì forte, sicuro del male.


I vecchi camions lo guardavano rassegnati, mostrando senza più difese i teloni intrisi d'olio e polvere che imbarcavano ac­qua, che cedevano, che sbrodolavano rigagnoli simili a quelli delle grondaie sfondate del deposito.


Rise sommessamente, poi tirò su col naso per respingere il dolore. Ora tremava un poco, e si strinse per raccogliere un ul­timo residuo di calore. Eppure non sentiva il bisogno di tornare al caldo. Si stava bene qui fuori, sembrava tutto più vero, più essenziale. Gli erano sempre piaciute le notti piovose, e le ge­lose solitudini di quelli che restano sotto l'acqua mentre tutti s'affrettano stizziti. Si sta bene da soli dopo aver ammazzato, mentre si sta per finire. Era tardi per rincasare, tardi per ri­parare.


Il gatto annaspava e lo guardava con diffidente noncuranza. Fece un miagolio rauco e si defilò muovendo appena un'ombra indi­stinta, che pareva lo seguisse di malavoglia.


Si alzò, riprese a camminare, più faticosamente.


Barcollava sul marciapiede rosicchiato di una via periferi­ca, calpestando le gramigne che prorompevano dalle crepe dell'a­sfalto.


Ai lati della carreggiata, poche auto con i finestrini ap­pannati dal piacere degli amanti emanavano un morbido tepore. Da una di esse, il suono attutito di una risata di ragazza, appagata dalla vittoria di quel piccolo amore furtivo. A casa, i genitori avranno il sollievo di vederla rientrare presto. Piena di caldo, col sorriso dissimulato da un finto malumore. Ansiosa di tornare a letto ad accarezzarsi un futuro magico come un sedile d'auto in cima ad un sogno impreciso.


Il mostro aveva la vista un po' annebbiata. Forse erano le gocce che penetravano negli occhi. Si sentiva un po' sudato, co­minciava a fare caldo. Già, si sta avvicinando la primavera: per questo piove così.


Stamattina al matrimonio si saranno bagnati tutti. Lei, an­cora più nervosa del solito. Lui, col suo sorriso disinvolto, rassicurante, indisponente. Le madri trepide, la parrucchiera, la sarta, il fotografo, gli amici pieni di allegria.


Poi, anche per loro due un quaderno a righe come tutti gli altri, per scriverci dentro l'intimità` della luce fioca sul co­modino, del neon in cucina, della minestra riscaldata.


Passò veloce una macchina che lo spruzzò. Lui si voltò ad imprecare, ma forse quella macchina aveva il tergicristallo rot­to: la si vedeva confusamente, come attraverso un parabrezza pie­no di gocce.


Si schiacciò il cappello informe, socchiuse gli occhi, fece qualche smorfia per farsi venire un po' da ridere. Cacciò fuori la lingua per sentirci sopra la pioggia. Si sedette per terra contro un muro qualsiasi, un posto come un altro per crepare sen­za aver ricevuto una spiegazione peraltro mai cercata.


Chissà quanto tempo passò. Il nuovo mattino avrebbe mostrato lucide le strade lavate. Ma era ancora lontano, e forse non aveva più tanta voglia di venire.


Passarono sogni negli occhi del mostro. Nei sogni si vede assai meglio, il tergicristallo funziona sempre, ed ho finito tutti i compiti prima di cena.


Si risvegliò in quella strana periferia. Aveva perso il tre­no, poi aveva camminato, e non aveva più ritrovato la strada. Se si affrettava, avrebbe fatto in tempo a prendere la prima corsa per ritornare a casa.


Ma non aveva voglia di svegliarsi. La testa gli pesava, e faceva maledettamente caldo.


Si assopì di nuovo, e quando si ridestò il cielo cominciava a farsi meno scuro. Che silenzio, però.


Ormai giaceva in un lago di sangue: cominciava a vederlo col primo chiarore. Quanto sangue aveva perso. Adesso avrebbe voluto rialzarsi, chiedere aiuto. Ma non ce la faceva, ed era troppo presto, non c'era in giro ancora nessuno. Non si poteva più rico­minciare daccapo. Proprio ora che gli pareva di risentirsi dentro la voglia di lottare. Magari di prendere a pugni quell'uomo sprezzante. Magari di ridere in faccia a lei, alle sue frenesie, alla sua sfrontata crudeltà. Magari con un’altra, che non l’a­vrebbe biasimato vedendo le cicatrici ai polsi. Che non avrebbe fatto domande imbarazzanti, paga di svegliarsi accanto a lui pri­ma dell'alba, in cima a quel sogno impreciso.


Ma lei era rincasata, non si era fermata, avrà pensato ad un balordo. E il treno se n’è andato.


Tirò fuori dalla tasca il biglietto. Era ridotto in polti­glia. Ma tanto sarebbe stato da rifare, perché era scaduto.


Infine sentì una sensazione di pace e di benessere, e capì di essere morto.


Marco Laudiano


(Tutti i diritti riservati)


lunedì 14 maggio 2007

Racconto: "La bottega del rigattiere"

A due portoni dal mio c'era il magazzino del rigattiere Ber­tacchi.

I rigattieri, si sa, fanno commercio di oggetti inutili. O meglio, in disuso: giacché di oggetti inutili se ne vendono un po' dappertutto.

La bottega del Bertacchi emanava il fascino segreto delle cose vecchie e non ancora antiche. Un mondo nel quale ciò che è anacronistico riemerge dal malinconico abbandono. Roba gettata via, dopo una vita di credula dedizione, da mani impazienti di assaporare il nuovo, le fresche forme liberate da involucri fru­scianti. Ed eccoti abbandonato sul marciapiede. Ti scansano infa­stiditi, lamentandosi perché non h ancora venuto il camion a por­tarti via.

Il Bertacchi raccoglieva questi reietti, sconfitti da una vita troppo rapida per chi si illude ingenuamente di non essere fugace, ed assecondava la possibilità del Riscatto, l'impossibile presunzione dell'Immortalità.

Girava con l'Apecar sferragliante e ‑ non senza sentirsi un po' ladro ‑ rubava televisori spenti, radio ancora buone ma ormai troppo ingombranti (perché le radio non si guastano mai), sedie a tre gambe, deplorevoli abat‑jour. Residuati delusi, falliti, ri­fugio provvisorio dei gatti diseredati.

Nel magazzino del Bertacchi potevano sicuramente aspirare ad una fine più dignitosa: fare orgogliosamente mostra della propria inutilità in un salotto snob, in qualche caso intraprendere una luminosa carriera nell'Antiquariato. I più fortunati potevano a­vere il privilegio di entrare a far parte di un'opera del Donini, l'amico scultore del Bertacchi. Il Donini era un assiduo frequen­tatore della bottega del rigattiere. Ripassava con occhio critico e competente gli oggetti allineati, ammucchiati, o anche solo messi lì. Il Bertacchi se ne inorgogliva: gli pareva d'essere il Conservatore di una galleria dell'Arte Possibile, di un museo di oggetti non‑ancora‑famosi.

Lo scultore non influenzava mai le sue ricerche. Probabil­mente il loro esito gli era indifferente, giacché la sua arte non investigava qualcosa in particolare, ma trae­va suggestione da una sua tenera malinconia di fronte all'appena‑passato‑di‑moda. Gio­cava a ricordare quando queste stesse forme erano attraenti e in­novative, e con le sue opere sfidava gli altri ad ammettere l'im­potenza del gusto.

Rappresentava con spietata ironia il trionfo del Provviso­rio. Ricuciva nella stessa composizione idee e stili che avevano trionfato in epoche diverse ma vicine. Scopriva goffe analogie tra decenni distanti. Provocava, col cattivo gusto la totale as­senza di gusto. Miseria soprattutto estetica di un'epoca ubriaca­ta di finti cambiamenti e finte ripetizioni. Fino a non poterne più, fino a desiderare di buttarsi via. Visto che non si pur dire più niente di nuovo, ma che d'altra parte niente fa più a tempo ad invecchiare, allora il Donini smascherava con rabbia e metico­losità l'imbroglio. Era la sua estrema difesa, per convincersi di avere capito che lo stavano ingannando.

Il Bertacchi non è che capisse tutto questo. Anzi, quando andava a vedere le sculture, ci vedeva più che altro gli oggetti che lui aveva recuperato, i marciapiedi all'alba dove li aveva salvati dall'immondizia. Però anche lui, che pure li aveva cono­sciuti quando non erano ancora nessuno, riconosceva che messi così non erano più la stessa cosa. Qualche volta nella sua botte­ga aveva provato ad accostarli come immaginava avrebbe potuto fa­re il Donini. Ma quando vedeva le opere finite, proprio ricordan­do i suoi tentativi maldestri doveva ammirare il genio dell'amico scultore, e poteva intuire il messaggio dell'artista.

Era un pomeriggio di quelli inutili, quando h estate e vor­resti che fosse già autunno, anche se capisci che è idiota. Il Bertacchi, con la bicicletta alla mano andava col Nerelli sull'argine del fiume. L'altro poi pescava, lui invece se ne sta­va a guardarlo. Insisteva a non capirci nulla di pesci, tanto che se ne faceva quasi un vanto. Però il fiume gli piaceva, perché lo calmava. Stava seduto sotto il ponte di ferro a tirare sassi per fare incazzare il Luigi. Ma tanto neanche il Nerelli aveva voglia di pescare quel giorno, così tirò fuori un panino e si misero lì a parlare. Il Bertacchi aveva un po' schifo del mezzo panino per via dei vermi che gli erano stati vicini, ma gli andava di gusto, così se lo masticava e guardava l'acqua con espressione intelli­gente.

‑Senti Nerelli, ma ti sei mai chiesto perché in certi giorni i pesci non abboccano. Non dirmi delle correnti e tutte queste balle, le so già tutte. Voglio dire la ragione vera, mi capisci.

‑Deve essere un po' come per i tuoi stracci. Ogni tanto non hanno l'ispirazione.

‑Cosa c'entrano i miei stracci?

‑Eh, be', non ti capita mai di trovare un sacco di roba e di lasciare indietro tutto, e tornare con l'Ape vuoto.

‑Già, ho capito. Cazzo come si diventa furbi a guardare l'acqua.

‑Già cazzo Bertacchi. Andiamo a farci un bianco.

Il pomeriggio se ne stava andando via per niente, ma nessuno se la prendeva. Non era una giornata buona per coltivare inquie­tudini.

Più tardi però, rientrando in bottega gli ritornò in mente la storia degli stracci e dei pesci. Gli balenava in testa un nesso, che però gli sfuggiva. Poteva restare la suggestione mo­mentanea del vino a stomaco vuoto, e la tranquilla allegria del tramonto ancora lontano lo fece optare per questa soluzione. Però era bello andare a pesca col Luigi, veniva sempre a galla qualche idea interessante.

Il mattino dopo, mentre tornava a casa con un carico di ve­stiti usati gli tornò in testa il nesso. Vedeva nello specchietto le giacche consumate e gli sembravano dei pesci morti. Ma il ron­zio e il traballio del motocarro gli fecero perdere la poesia, così non ci pensò più.


Marco Laudiano

(Tutti i diritti riservati)

domenica 13 maggio 2007

Racconto: "Il dolore e l'ombra sul fiume"

Tornava ancora, quando veniva Novembre, al posto dei cigni, dove il fiume si fa largo e silenzioso prima di mutarsi in rapi­da, dove i cigni sembrano ridere della morte.

Bertacchi provava sensazioni strane. Non riusciva nemmeno più a capire se il fiume gli dava le stesse impressioni di una volta. Così se ne stava zitto a guardare l'acqua e giocava a perdersi con lo sguardo nella corrente. Il fiume lo invitava a pen­sare, ma lui non si sentiva un grande pensatore, così se ne stava con aria assorta a perdere tempo, senza sapersi decidere.

Avrebbe voluto che questa solitudine sapesse gridare, e soffriva per questo, ma se ne stava zitto, perché non lo avrebbe saputo spiegare bene, e poi chi lo avrebbe ascoltato.

Non è nemmeno vero che il dolore tiene svegli. Anzi, in mol­ti casi nar­cotiz­za. Gli veniva sonno, e sentiva di aver buttato via un'altra giornata. Gli veniva un po' da ridere, ma non per qualcosa in particolare. Così, tanto per ridacchiare del più e del meno.

La luce se ne andava lenta come il fiume, accanto all'isola del salice piangente. Il crepuscolo dura poco, come l'autunno.

Guardava le foglie rosse, gialle, verdi e marroni che un tem­po erano state sue. Adesso tutto gli sembrava sconosciuto. Come quando torni da visitatore nella casa che era tua. Avrebbe preferito maledire se stesso piuttosto che riassag­giare quella sensazione ri­corren­te, che ora diversamente dal passato sa­peva ir­rimediabile.

Adesso si sentiva in prestito, senza poterlo più dire a nessuno. Tantomeno a se stes­so. Ogni tanto gli veniva in mente qualcosa, ma se lo teneva per sé, fino a dimenticar­lo, alla fine. E aveva il vago sospetto di farlo apposta, anche se, a pensarci bene, gli sembrava un'idea cretina. D'altra, parte, si disse, se avesse avuto un'idea intelligente avrebbe piantato un casino. Invece niente, perciò se ne stava lì come un fesso.

Già, il mondo deve girare in qualche modo, lo dicono tutti. Buttava i sassi nell'acqua cercando inutilmente di ripercorrere all'indietro il filo del ricordo. Ma era la sensazione ciò che non funzionava più, e le idee si screpolava­no come le labbra, al vento di quella spietata consapevolezza. Anche parlare è diventato fal­so, non ti cre­dono più, non ci credono più.

Si sentiva sbagliato, perché nonostante tutto sapeva di ave­re la testa vuota e di non poter cercare appello, se non a que­sta muta riva che lo guar­dava con affettuosa malinconia. Ormai era chiaro, gli mancava l'ispirazio­ne.

Rientrò che la pioggia sottile veniva giù stancamente, per ricor­dargli fram­menti di disperazione passata. Segni dimenticati, che non si sarebbero mai ri­marginati nei so­gni eroici che andavano di moda quando tutti facevano finta di crederci.

Si fermò in strada prima di rincasare. Ormai era venuto buio, e con la luce se n'era andata una parte del dolore, quella che si fa più acuta con l'evidenza dei fatti, ri­schiarata dal giudizio dei giusti. Quelli che fanno tutto alla luce del sole, che rien­trano per cena. Al buio, si sentiva più al sicuro.

Henry Miller fa bene a dire che scrive per mettere ordine, e forse sa met­tere or­dine anche il vecchio liutaio Bottari, con il quale si era fermato a par­lare fino all'ora di pranzo. Già, qui i boschi li tagliano tutti. I tedeschi invece li metto­no tutti in fila, gli alberi. Se no, che tedeschi sarebbero.

L'incuria degli italiani verso i boschi diventava l'incu­ria della realtà a chi al­tri dare la colpa, oramai? verso tutte le cose belle e delicate che i primi freddi autun­nali gli facevano desiderare con maggiore malinconia.

Solo la curiosità mentale lo appagava, lo faceva vivere. Lo attiravano i concetti, il sottile tessuto di illusione generato dalle parole. Non sapeva conservare una vera fe­deltà alle idee, una volta che esse avevano cessato di esercitare su di lui una sug­ge­stione. Ormai era tutt'uno con quelle sue anticaglie: roba che passa. Con le parole lui non ci sapeva giocare poi tanto, ma i suoi oggetti gli dicevano tutto, pensavano per lui, anche quando il fracasso dell'Apecar gli rintronava la testa fino a farlo sentire scemo.

Le vicende inventate possono dare più appagamento di quelle vere, per­ché ciò che conta non è la realtà o la plausibilità, ma il sottile gioco della mente che intreccia, combina, ordina e disordina, dando vita non ad una realtà fittizia, bensì ad una co­stru­zione fatta per l'intelligenza, per stimolare il nuovo. Come le sculture del Donini. Lui sì che se ne intendeva. Grande, il Donini.

Se la disperazione rimaneva sotto controllo, allora poteva andare. Il do­lore di­ventava una storia da raccontare, e la vita continuava. Ma se la soglia cedeva, allora irrompeva l'assurdo, l'esistenza quotidiana prendeva il soprav­vento, e niente più s'im­pigliava tra le dita a suggerire sottovoce un senso per cui continuare a soffrire e sen­tirsi grande.

Nei peggiori momenti di tradimento e di disgusto, tutto aveva sempre con­ti­nuato a restare chiaro, la prospettiva era netta come una lama che tagliava senza pietà, ma che dava anche la forza, l'indignazione, la tenera ingenuità che gli sconfitti attribui­scono ai giovani.

Ma ora, trattenendo con lo sguardo gli attimi congelati, sa­peva che la condanna è lì che ti aspetta, nel punto dove credi di essere arrivato da qual­che parte, quando la felicità ti porge la falsa promessa di non dover più continuare a procedere dolorosa­mente.

La felicità è una brutta bestia, Bertacchi.

Chissà chi gliel'aveva detto, forse il Nerelli mentre s'infilzava le dita con gli ami. Le frasi intelligenti fanno incazzare anche di più. Ma non era colpa del Luigi: era lui fesso, a prendersela.

Finché non hai paura del dolore lo conosci, e ti fa male, sì, ma poco. Nel mo­mento in cui lo tradisci con la scusa di met­terti a costruire il tuo futuro, allora smetti di imparare, e non c'è medico che ti possa imporre di restare in vita. Ma come fai a restare lì come un pirla, in attesa della pennellata risolutiva del tuo capolavoro, se in realtà stai imbiancando la cucina del Cipolli?

I più fortunati (la maggioranza) ci si trovano bene. I dannati no, restano col dolore dell'arto fantasma, si disperano perché non rie­scono più a pian­gere, non riescono più a sentirsi imbecilli quando gli altri non capi­scono: perché gli altri devono capire, e poi hanno ragione loro. E un rigattiere, come tutti, deve saper essere comprensibi­le.


La sera di Natale fu ammainata la bandiera delle chimere. Era la definiti­va sconfitta dei sognatori. Che non avevano più la forza né la voglia di sputare in faccia ai ciarlatani benpensan­ti, ai quali niente era mai fregato dei sogni, che non c'entrano niente con i dibattiti sulla fine del comunismo.

Il Bertacchi in quelle illusioni ci aveva creduto forse meno degli altri, ma quella sera sentì l'impulso di salutare con il pugno chiuso, in piedi davanti al televisore, con la voglia di piangere se solo avesse ancora avuto lacrime. Abbiamo avuto tor­to, e forse ci è sempre piaciuto stare dalla parte sbagliata. La cosa che fa più rabbia è vedere quei gufi ben pasciuti che adesso godono come ma­iali e possono esclamare trionfanti "noi l'ave­vamo detto".

Nel magazzino aveva trovato una bandiera rossa di quelle belle, con la falce e il martello dorati sulla punta. Semplicemente strepitosa, si sentiva quasi Peppone. L'aveva rassettata e appesa al muro. Ma alla fine non gli fece l'impres­sione che si aspettava: ormai da tempo si era abituato a non sentire più nessuna im­pres­sione, a parte quelle fastidiose. Però gli piacque questa piccola provo­ca­zione senza spettatori. In quella sera di Natale se n'era an­data qualche altra chi­mera, ma ormai fare i conti era diventato noioso. Nel pomeriggio al bar aveva tentato di di­rlo al Nerelli, il quale però aveva risposto solo con una bestemmia. Era diffici­le capire se fosse una bestemmia di solidarietà o no: il Nerelli non aveva ancora imparato ad ac­cettare che a Natale non potesse andare a pescare invece di stare con i parenti. Il Bertacchi aveva tratto comunque da questa risposta un profondo insegnamento, che si meditò a lungo in silenzio davanti al prosecco. Il Nerelli, per niente soddisfat­to, ri­muginava su qualche remoto pensiero, o forse soltanto sui cagnotti ormai da buttare per colpa dei soliti nipoti pi­scialletto.

Andiamo a bere qualcosa diceva sempre così il Nerelli, quando aveva voglia di cambiare bar. Per il Bertacchi faceva lo stesso, così se ne andarono ciondolando, l'uno tossicchiandosi una sigaretta, l'altro barcollando in oscure meditazioni, delle quali perdeva continuamente il filo.

Al bar del Porto trovarono il Varini, anche lui incazzato perché alla gente si guastavano le antenne anche a Natale. Ma lui sapeva prendere tutto con una risata sommessa. Gli altri due gli dicevano banalità del tipo "l'hai volu­ta la bicicletta". Così il risentimento contro il destino di stemperava insieme al rosso del Campari nel bian­co, una barbarie ordita dal Luigi, da sempre subita dal Bertacchi. Tanto più che un Campari in tre col bian­co era veramente terribi­le. Però stasera era bello così, starsene con quei due senza l'as­sillo di aver qualcosa da dire.

Uscirono rinfrancati, tirando calci alla nebbia, compiacendo­si delle innocue vol­ga­rità che li tenevano allegri, proprio per l'irrimediabile mancanza di senso.

Ma poi, quando si tornava a casa era tutto finito, e da solo si chiedeva come mai non riusciva più a fare quella faccia feroce e bella, con quell'espres­sione da allegro ga­glioffo che tanto gli piaceva. Molto male affezionarsi a se stesso, recitare la parte. Ma quale parte. O mamma, lo stomaco.



Marco Laudiano

(Tutti i diritti riservati)

Proiezioni

Vogliono tutti un posto al sole.
Io ho scelto un posto all'ombra.
Per concedermi ancora il lusso di pensare, per non cadere nell'oblio dell'inconsapevolezza.
Chi ricorda la storia dell'uomo che vendette la propria ombra?

(Adelbert Chamisso, "Storia straordinaria di Peter Schlemihl")

Abbiamo ombre e le proiettiamo...
Si spengono le luci in sala...
La proiezione ha inizio...

Leggete "Il piccolo libro dell'ombra" di Robert Bly

sabato 12 maggio 2007

Citazione d'altri tempi (1972 e dintorni)

Sarai completamente fregato
quando rinchiuderai il tuo qualsiasi stato presente
in una bella definizione.
Non importa se rassegnata o compiaciuta.