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L'ombra è l'opposto del sole, ma si nutre di esso.
Un cielo grigio non genera ombre: nessun contrasto, nessun pensiero.


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venerdì 27 febbraio 2009

A Cinque Lune da Nobegmor (I)

CAPITOLO I°


- Mio Principe, non dovresti stare così lontano dal fuoco, questa terra è piena di insidie, la notte più del giorno.
- Lo so Mizaurio, ma continuo a pensare a ciò che mi narrasti prima della nostra partenza da Ozman.
Vorrei che tu mi raccontassi di nuovo quella storia.
- Mio Principe, non è bene parlare di queste cose proprio qui. - disse Mizaurio roteando con circospezione lo sguardo ad abbracciare la radura senza badare a mascherare il timore che in lui si era destato - Si, - riprese - non è proprio bene.
- Non essere sciocco, - disse il Principe Gujil, prorompendo in un'affettuosa e sonora risata - Chi vuoi che ci senta. Forse quella civetta che poco fa è volata sul nostro campo? Oppure hai paura che, sentendo il tuo racconto, gli alberi di questa foresta ti assassinino nel sonno strangolandoti con i loro lunghi rami?
Ciò detto il Principe si alzò e prese la direzione del fuoco con la speranza di sgelare, al calore delle fiamme, il freddo di quella notte di mezza stagione.
Mizaurio lo seguì e si sedette accanto a lui.
Il silenzio passò sui loro volti accarezzandoli con una folata di vento che quasi fece spegnere le fiamme.
Ad un gesto del Principe una guardia della sua scorta posò altra legna sul fuoco e la fiamma riprese vigore.
- Le mie orecchie stanno aspettando il suono delle tue parole, amico mio. - ruppe il silenzio la tranquilla voce di Gujil.
La sorpresa del servo fu grande, farfugliando rispose:
- Ma ... mio Signore, to ho spiegato che ...
- Non voglio sentir ragioni stupido codardo, - lo interruppe il Principe - voglio quella storia e la voglio sentire ora. Subito!
Accompagnò le sue parole con un esplicativo movimento del braccio.
- Come tu vuoi o mio Signore, ma non essere avventato, to prego di rifletteva ancora prima di commettere qualche imprudenza.
Accorgendosi, dal cipiglio del Principe, che le Sue parole non avrebbero sortito risultato alcuno, Mizaurio tirò un profondo sospiro e, dopo aver nascosto allo sguardo di Gujil un gesto di scongiuro, cominciò:
- Bene ...
Molti e molti anni fa bussò alla porta del castello di Sinocon uno straniero dal fulgido e maestoso aspetto e dai modi che non lasciano alcun dubbio riguardo alla sua discendenza da nobili origini.
La porta gli fu subito aperta.
Fu una lunga notte di festeggiamenti e di suoni.
Le tavole delle grandi sale traboccavano di ogni ben di Dio, c'erano selvaggina e frutti di lontani paesi.
Le luci del castello illuminavano a giorno le fantastiche storie raccontate dai preziosi arazzi che adornavano le pareti dei saloni, nell'aria aromi e musiche si mescolavano e creavano atmosfere da sogno, da ogni fontana sprizzavano le stille della felicità che animava il reame di opoflop.
Verso la mezzanotte lo straniero si alzò dal suo posto e, tra lo stupore generale, prese la parola.
O grande Re, - disse nel silenzio che si era formato - sono venuto a voi da molto lontano attirato dai coloriti racconti che giunsero ai miei sensi.
E vedo che nessuna esagerazione era stata fatta a riguardo, anzi.
Voglio mostrarti la mia gratitudine per questa splendida accoglienza degna di un magnanimo Re quale tu, effettivamente, ti stai dimostrando.
Il Re sorrise grato allo straniero e lo invitò a proseguire.
- Voglio farti un regalo. - disse e battè più volte le mani.
Poco dopo alcuni schiavi portarono al suo cospetto uno scrigno d'oro massiccio tempestato di gemme.
Lo straniero lo prese e, dopo aver congedato i servi, abbandonò il suo posto e con passo elegante si diresse alla volta del trono.
Sostò per un attimo al cospetto del Re e della Principessa Arhiac e, inchinandosi, porse al Signore di Sinocon lo scrigno prezioso.
Il Re lo accettò.
- Puoi aprirlo mio Re. - disse lo straniero.
Lo stupore di tutti era grande, sui volti degli invitati si poteva leggere e indovinare la curiosità di conoscere il contenuto di un così prezioso dono.
Nell'attimo stesso in cui il Re sollevò il coperchio dallo scrigno cominciò a fuoriuscire un pulviscolo colore del sole al tramonto che presto si sparse per tutto il castello invadendone anche ogni più riposto angolo.
Dal castello il pulviscolo si espanse su tutto quanto il reame di opoflop.
Dicono che il tempo, in quel posto, fermò per un interminabile attimo il suo corso e che accaddero cose incredibili.
- Che genere di cose? - chiese Gujil.
- Nessuno potrà mai dirlo o Principe, fatto sta che quando il tempo riprese a macinare le sue dimensioni qualcosa era, inspiegabilmente, mutato.
Dicono che il Re richiuse lo scrigno e la festa riprese.
Del pulviscolo però non fu mai rinvenuta traccia alcuna, eppure era stato visto da tutti.
Fu allora che lo straniero sorridendo porse la mano alla Principessa Arhiac e le danze ricominciarono.
Alcuni giorni dopo, per le quattro direzioni del reame, i corrieri del Re portarono in tutti i villaggi la notizia delle prossime nozze tra la Principessa e lo straniero.
Il palazzo ferveva nei preparativi per il gran giorno, vennero invitati decine e decine di ambasciatori nei regni vicini e lontani, i cacciatori del Re batterono in lungo ed in largo l'immensa foresta che sai in cerca di prelibate selvaggine ed i lavori nelle miniere preziose vennero decuplicati alla ricerca di meravigliose gemme perché servissero come dote alla sposa.
Chi in quei giorni ebbe occasione di frequentare la Principessa Arhiac la descrive felice come non mai con i già delicati lineamenti ancor più addolciti dall'intenso sentimento che, in così breve tempo, le aveva pervaso il cuore ed i pensieri.
Il vecchio Re sembrava ritornato bambino, si prodigava con entusiasmo affinché il fatidico giorno potesse rivelarsi tra i più splendenti che il reame di Opoflop avesse mai visto.
Il popolo rispecchiava la gioia che si viveva a corte e ben presto l'intera Sinocon traboccò di gente venuta da tutte le parti del mondo per assistere al matrimonio.
C'erano prodi e famosi cavalieri con i loro seguiti ad affollare le locande, giocolieri bravissimi con i loro numeri di abilità, maghi potenti con i loro apprendisti, circhi stracolmi di animali mai visti provenienti dalle lontane regioni d'oriente.
Tutto sembrava avvolto da un magico incanto che non lasciava spazio a nessuna cosa cattiva.
Venne il giorno delle nozze.
Fin dal mattino fu un suono di trombe a chiamare a raccolta il reame e la gente si accalcava nella piazza principale di Sinocon per vedere la cerimonia mascherando l'impazienza con canti e balli.
Dalla porta principale del palazzo due file di armigeri proteggevano, tenendolo sgombro, il camminamento che avrebbe dovuto percorrere il corte nuziale.
L'altare per celebrare il matrimonio, un enorme blocco rosato di marmo massiccio venato di colori di sogno, si stagliava illuminato dal solo che lo carezzava di mille riflessi, sulla terrazza più ampia.
La strada che conduceva all'entrata più grande del castello era gremita, ai suoi bordi, da due ali di folla eccitata; le prime file erano occupate da ragazzi e ragazze che imbracciavano panieri di giunco da cui estraevano, spargendoli sul selciato tirato a lustro, petali multicolori di fiori profumati e freschissimi.
La gente assiepata nella piazza aspettava impaziente l'arrivo della carrozza dello sposo.
La loro attesa venne presto esaudita.
il clamore della folla cominciò a sollevarsi e convergere verso la piazza fin dai limiti della città.
Ben presto, accompagnata da suoni di trombe e tamburi, irruppe nella piazza una magnifica carrozza colore del cielo trainata da dodici splendidi cavalli neri come la pece bardati da finimenti richissimi.
Quando la carrozza fermò la sua corsa di fronte alla grande porta la folla d'istinto zittì la sua gioia e, trattenendo il fiato, aspettò che ne discendesse lo straniero.
Quando egli scese si levò un unanime gemito di meraviglia. Lui era là.
La sua statura possente troneggiava nella piazza di Sinocon.
Nel suo viso gli occhi dardeggiavano riflessi incredibili, i capelli corvini, lunghi fino a ricoprirgli le spalle, si andavano via via accorciando mano a mano che si confondevano e tramutavano nella folta barba che gli incorniciava il volto.
Nel mantello, nerissimo pure esso, risaltava la figura stilizzata di un ippogrifo dalle cui nari fuoriuscivano getti di vapore misti a fiamme.
Una scorta nutrita gli fece strada accompagnandolo dal Re e dalla sua promessa sposa.
Una volta giunto in loro presenza lo straniero prese la mano di Arhiac tra le sue con gesto studiato.
Anche qui, mio Gujil, il racconto perde spessore di verità, poiché nessuno ha mai saputo dire con esattezza che cosà successe.
Comunque Arhiac, nel suo splendido abito di seta gialla che faceva risaltare ancor di più la sua regale bellezza, era felice e perdeva il proprio sguardo negli occhi di lui che le sorrideva amabilmente.
Il lungo strascico della sposa, sorretto da innumerevoli ancelle, si muoveva agitato dal vento leggero come fa l'acqua di un ridente ruscello; la sua corona, d'oro e diamanti, luccicava come una stella.
La minuta figura della Principessa quel giorno fece piangere di gioia e d'invidia tutte quante le donne di Opoflop.
Per il resto il matrimonio non fu diverso da tutti gli altri che si svolgono in ogni parte del mondo ma, una volta che questo fu suggellato da tutti i sacri crismi e fu pronunciato il fatidico "lo voglio!" da entrambi gli sposi, si dice che accadde una cosa imprevedibile.
Infatti lo straniero cominciò a ridere fragorosamente tra lo stupore di tutti e cingendo al suo petto la bella Arhiac urlò con voce tonante:
- Da oggi io sono il Signore e padrone di Opoflop!
Pochi giorni dopo la cerimonia il padre della Principessa Arhiac, il saggio Re di Opoflop, moriva di uno sconosciuto morbo che nessun cerusico o mago era riuscito a contrastare.
Il grave lutto colpì in maniera violenta, con il maglio possente del dolore interiore, la sua giovane figlia.
Suo marito, poco dopo, l'abbandonò fuggendo in una notte di plenilunio non senza aver completamente depredato le ricchezze di Sinocon e di lui nessuno seppe più nulla.
Qualcuno asserisce che lo straniero in questione altri non fosse che il perfido stregone Drosan di Ilamon e che questi, con un altro dei suoi malefici trucchi, non abbia fatto che aggiungere un ulteriore malefatto alla lunga catena dei suoi riprovevoli delitti ed altre preziose ricchezze a quelle già rubate da altri.
Si mormorava che, per mettersi al riparo dalla vendetta di Arhiac, prima della sua fuga abbia assassinato il Re e scagliato un potente incantesimo sulla Principessa sua sposa e su tutto il reame di Opoflop.
I risultati sarebbero quelli che tu sai e che da giorni stiamo attraversando per arrivare a Sinocon.
Ti prego Gujil, non fare pazzie, dai ordine ai tuoi uomini di levare le tende e terniamocene a Ozman.
Sii saggio mio Principe, ti supplico.
- Non se ne parla nemmeno Mizaurio, già ti dissi la mia intenzione di conoscere Arhiac.
Voglio quella donna, qualcosa nel sonno mi agita il respiro quando le immagini del sogno mi portano a lei.
La voglio Mizaurio, ho bisogno di lei come dell'acqua che bevo ed il cibo di cui mi nutro.
Ciò detto il discorso venne arginato dal muro delle riflessioni silenti ed entrambi tacquero immersi nei loro pensieri.
D'un tratto la tranquillità della notte fu scossa da un rumore concitato di passi e di voci.
- Cosa sta succedendo? - tuonò Gujil destandosi rapidamente dal sopore che aveva pervaso le sue membra.
- Non si riesce a capire o Principe, - gli rispose uno dei soldati - tutto era calmo quando, all'improvviso, i nostri cavalli si sono inspiegabilmente messi in agitazione ed hanno cercato di liberarsi dalle pastoie nitrendo furiosamente.
Abbiamo pensato ad una qualche belva ma le perlustrazioni intorno al campo non hanno rilevato niente di sospetto.
Tutto sembrerebbe normale ma gli uccelli notturni hanno alzato il loro volo all'unisono e le creature della notte hanno zittito o loro rumori.
Anche Mizaurio, destatosi dal sonno, si era subito precipitato vicino a Gujil.
Urlando ordinò alle guardie di aggiungere altra legna al fuoco che stava spegnendosi.
Appena la legna fu posta, la fiamma si alzò alta nel buio notturno e cominciò a parlare, dapprima con voce incomprensibile, poi via via più chiara.
Il terrore invase il corpo degli armigeri che, stupiti ed intimoriti, si disposero a cerchio intorno alla fiamma.
La bocca spalancata di Mizaurio non riusciva a proferire parola, Gujil dal canto suo, a spada sguainata, si diresse coraggiosamente verso il centro del fuoco.
- Fermati Gujil! - risuonò nell'aria un comando imperioso.
A quelle parole il giovane Principe fermò il suo stupore e la sua lama.
Come per incanto, quella che prima era solamente una massa informe, si tramutò in una figura di vecchio il cui corpo scintillava, rivestito com'era di fiamme.
- Come sei irruente giovane Gujil, - continuò quella strana apparizione - ho forse fatto del male a te o ai tuoi uomini? Figliolo, non essere mai precipitoso nelle tue azioni, non tutto ciò che risulta alla mente incomprensibile è necessariamente qualcosa di negativo.
Non ti sembra?
Lo stupore di Gujil e del suo seguito era enorme.
La calma era nuovamente tornata nella foresta.
- Dove diavolo ho messo ... - riprese il vecchio senza badare agli inebetiti spettatori - ah ... eccoli!
Scusami figliolo, ma senza le mie lenti sono cieco come una vecchia talpa. - disse l'apparizione inforcando sul naso uno strano marchingegno che reggeva due limpidissimi pezzi di vetro perfettamente arrotondati.
- Cosa stavo dicendo? ... ah! ecco, si ..., si ... dunque.
Scusami questo strano modo di presentarmi ma le mie arti si sono un po' arruginite in questi ultimi tempi di inattività.
E' veramente tanto che da queste parti non passa più nessuno ed io avevo quasi perso la speranza di rivedere gente, anche se la mia sfera ha sempre affermato il contrario.
Benedetto figliolo, vi vedo preoccupati!
- Chi ... chi sei? - chiese Gujil senza peraltro abbandonare né la sua spada né l'atteggiamento difensivo.
- Come chi sono.
Sono Noretex!
Già, già ... Noretex ...
Piuttosto, lascia stare la tua curiosità ed ascoltami perché non ho molto tempo.
Ciò che vuoi fare è buono e lodevole ed io sono ormai molte lune che aspetto che qualche uomo di valore riesca a trovare il coraggio necessario per raggiungere Sinocon.
Perché tu vuoi raggiungere Arhiac a Sinocon, nevvero?
Il giovane Principe, più stupito che spaventato, limitò la sua risposta ad un breve cenno di assenso con il capo.
- bene, bene.
Ho visto giusto allora.
Sentimi ora.
Domattina riprendi il tuo cammino e noi ci rivedremo assai presto.
Quando questo sarà potrò spiegare tutto ciò che ora al tuo cervello frulla sotto forma di troppe domande.
Quando raggiungerai la collina dei cipressi là ferma il tuo campo e sali con Miz..., insomma, con chi come cavolo si chiama?
- Mizaurio forse? - arrischiò il fedele scudiero di Gujil con un filo di voce tremolante.
- Si, si, proprio quel tale ... - riprese il vecchio - proprio lui!
Dicevo, sali in cima a quell'altura e là troverai Phuxarius, lui sa tutto.
Hai capito bene?
Ricorda!
Ricord...!
Ricor...!
Rico...!
Ric...!
Ri...!
R...!

sabato 21 febbraio 2009

A Cinque Lune da Nobegmor

PROLOGO

Da anni la foresta che diradava i suoi alberi, alti e possenti, nei pressi della città di Sinocon, era percorsa, in lungo ed in largo, solamente dagli ululati dei lupi.
Tutti i forestieri sapevano che era pericoloso attraversarla e, benché Sinocon fosse stata centro di un florido e ricco mercato, anche i mercanti più avidi ed audaci la evitavano.
Strane voci correvano riguardo alla città ed alla Principessa Arhiac, padrona di Sinocon e legittima regnante del reame di Opoflop.
Si mormorava, nei lunghi racconti dei viandanti nelle notti di luna, che un tempo il reame avesse vissuto giorni di enorme splendore, fatti di feste e banchetti a cui tutti i dignitari dei paesi vicini facevano a gara per essere invitati.
Ma, da quando la Principessa Arhiac aveva perso il sorriso, le cose erano improvvisamente ed inspiegabilmente mutate.
Ciò che era stato splendore fulgente divenne colore velato di tristi visioni, la popolazione, un tempo assai ricca, si trovò a mietere scarni raccolti che appena bastavano al suo sostentamento e le porte del castello si chiusero mute intorno al segreto che circondava, con un alone di fitto ed impenetrabile mistero, quello stranissimo cambiamento.
Opoflop non fu più meta agognata da tutti, venne così presto dimenticata dalle rotte degli uomini.

sabato 14 febbraio 2009

WATERFALLS

Don't Go Jumping Waterfalls
Please Keep To The Lake
People Who Jump Waterfalls
Sometimes Cam Make Mistakes
And I Need Love,
Yeah I Need Love
Like A Second Needs An Hour
Like A Raindrop Needs A Shower
Yeah I Need Love
Every Minute Of The Day
And It Wouldn't Be The Same
If You Ever Should Decide To Go Away
And I Need Love,
Yeah I Need Love
Like A Castle Needs A Tower
Like A Garden Needs A Flower
Yeah I Need Love
Every Minute Of The Day
And It Wouldn't Be The Same
If You Ever Should Decide To Go Away
Don't Go Chasing Polar Bears
In The Great Unknown
Some Big Friendly Polar Bear
Might Want To Take You Home
And I Need Love,
Yeah I Need Love
Like A Second Needs An Hour
Like A Raindrop Needs A Shower
Yeah I Need Love
Every Minute Of The Day
And It Wouldn't Be The Same
If You Ever Should Decide To Go Away
Don't Run After Motor Cars
Please Stay On The Side
Someone's Glossy Motor Car
Might Take You For A Ride
And I Need Love,
Yeah I Need Love
Like A Castle Needs A Tower
Like A Garden Needs A Flower
Yeah I Need Love, Said I Need Love L
ike A Raindrop Needs A Shower
Like A Second Needs An Hour
Every Minute Of The Day
And It Wouldn't Be The Same
If You Ever Should Decide To Go Away
Don't Go Jumping Waterfalls
Please Keep To The Lake

"Once upon a time"...Era tempo fa e di cascate ne vedevo tante anche io.

Vuoi per i miei inspiegabili silenzi, vuoi per i miei occhi molto spesso assenti ma le vedevo bene, precipitavano in fragorosi rimbalzi e mi scioglievano il ghiaccio dal cuore. Le mie cascate sempre legate ai giovanili amori ed alle disilluse corse incontro ad ideali romantici semiautentici; un pò Don Chisciotte ma molto Sancho Panza. Eppure che belle le mie "waterfalls", come erano fresche e bevibili, mai troppo eteree oppure impalpabili anzi, impetuose quel tanto da schiaffeggiarmi i pensieri e raffreddare quel tanto che bastava le ossessive compulsioni della mia adolescenza.

Quello che mi piace di questa canzone di Paul McCartney è la sopesa atmosfera piena di riflessi malinconici e di calma palese.

Allora le mie cascate un pò mi angosciavano...ora mi mancano.

domenica 8 febbraio 2009

Et voilà les Animaux

Eugène DELACROIX

Quasi un presagio tra un secolo passante ed il nuovo così pieno di impressioni.
Un innovatore coi pennelli a volte violenti sulle tele ma sicuramente intrisi non solo di tonalità.
Il petto oltre l'ostacolo e sempre dalla parte dei più deboli e derelitti come la sua "Libertà che guida il popolo" Lui che è stato uno dei modelli a posare per Gericault nella "zattera della Medusa", Lui che ed i suoi mondi fatti di animali e favole orientali quasi influenze, quasi concrezioni.
Mondi distinti da istinti animali che esplodono irruenti nelle immagini rappresentate di scene violente e indomabili. Da quegli animali traspaiono situazioni quasi umane con liti furibonde per guerra o per amore, in un protagonismo traste ed elegante che sfocia in narrazioni pittoriche dense di significati proiettabili nel contesto di una Francia modello europeo di novità e istinti bohemienne.
Che dire, il trasporto è palpabile.
Le atmosfere sono molteplici e le raffigurazioni prorompono a volte dai quadri e a volte rimangono ferme come in uno scatto fotografico.
E' un gioco, come in un dato di fatti e misfatti.
E' un perseguire orizzonti densi ma mai incompleti e fugaci, sempre concreti e presenti.
Cavalli selvaggi, tigri e leoni altro non sono che la sua voglia di oriente e di esotici viaggi alla ricerca di ispirazioni continue per creare magie di mondi lon tani e proiettarli nel suo presente Parigino tra bicchieri di assenzio e sigarette pesanti.
A fianco dei protagonisti animali a volte trovano posto anche gli uomini, come un corollario necessario ma invadente, come un'indiscutibile assunzione di irresponsabile dominio sulla natura e sulle cose del mondo.

"Non è così che si crea" sembra obiettare nei suoi dipinti ma è difficile astenersi dal giudizio della gente e quindi dipingere fino alla stanchezza totale per crollare appagati e felici ma con gli occhi ancora pieni di colori mescolati al sudore.

Eugène Delacroix
nasce nel 1798 a Charenton-Saint-Maurice, da Charles – ministro degli esteri sotto il Direttorio e poi prefetto imperiale a Marsiglia e Bordeaux -, e da Victoire Oeben, figlia del famoso ebanista di Luigi XVI.
Morto il padre nel 1806 a Bordeaux, la famiglia si trasferisce a Parigi, dove Eugène si iscrive al liceo imperiale. Nell'ottobre 1815 è nello studio di Pierre-Narcisse Guérin, e due anni più tardi si iscrive all'Ecole des Beaux-Arts, dove stringe amicizia con Géricault.
La prima commissione pubblica è del 1819, quando dipinge per la chiesa di Orcemont la Vergine delle messi, ispirata a Raffaello; del 1820 è l'incarico di eseguire la Vergine del Sacro Cuore per il vescovado di Nantes. Nel 1822 espone al Salon Dante e Virgilio all'Inferno, dipinto in soli tre mesi.
Frequentatore dei salotti mondani, Delacroix stringe amicizia con il pittore inglese Fielding, con il quale divide uno studio in rue Jacob. Nel Salon del 1824 presenta Il massacro di Scio e Torquato Tasso in manicomio, nel 1826 realizza La Grecia sulle rovine di Missolungi, e nel 1827 partecipa al Salon con alcune opere fra le quali Morte di Sardanapalo, che suscita gran clamore.
Nel 1830 dipinge La Libertà che guida il popolo, che sarà esposta al Salon del 1831; nel mese di settembre riceve la Legion d'onore. L'anno seguente accompagna il conte de Mornay, ambasciatore di Luigi Filippo, in Marocco; visita inoltre la Tunisia e la Spagna, facendo ritorno a Parigi a luglio.
Nel 1833 riceve la commissione per la decorazione della Sala del re di palazzo Borbone, impegno che lo terrà occupato fino al 1836. Nel 1839 compie un viaggio in Olanda e Belgio in compagnia di Elise Boulanger.
L'anno seguente riceve due importanti commissioni: la Pietà per la chiesa di Saint-Denis-du-Saint-Sacrament, e la decorazione della biblioteca del Lussemburgo. Nel 1842 una grave forme di laringite lo costringe a lunghe cure, che alterna con soggiorni presso gli amici Riesener e George Sand. Non rallenta tuttavia l'attività artistica che lo vede impegnato nella realizzazione delle serie di litografie per l'Amleto di Shakespeare e nella decorazione della Camera dei deputati.
Nel 1850 riceve l'incarico di eseguire il soffitto della Galleria di Apollo al Louvre, al quale fanno seguito le pitture del Salone della pace all'Hotel de la Ville.
Nel 1852 pubblica un saggio su Nicolas Poussin, e due anni dopo una riflessione dal titolo Questioni sul bello.
Nel maggio 1855 partecipa all'Exposition Universelle con quarantadue quadri. Nel 1857 è accolto fra i membri dell'Institut, e decide di scrivere un Dictionnaire des Beaux-Arts; è anche l'anni in cui trasloca al 6 di place de Furstenberg, dove oggi è il Musèe Delacroix. Nel 1859 partecipa al suo ultimo Salon con trentaquattro opere.
Nel 1861 riesce a portare a termine le pitture murali di Saint-Sulpice.
Muore a Parigi il 13 agosto 1863.

Il Licantropo delle Nevi (II)

Alla vista dell'essere  avventurosamente ritratto da un nostro redattore, Gujil commenta giustamente: "E' veramente brutto! Poverino".
Questo mi riporta la mente ai misteri e agli enigmi che si celano dietro la scoperta documentata da questa rarissima, anzi unica fotografia.
Ve ne parlerò nei prossimi giorni, con la misura e la cautela che sono dovute in questioni come questa.
Chi, ad esempio, ha notato i due monoliti alle spalle del mostro?
E, visto che il licantropo è notoriamente un mutante, quale creatura si cela dietro questa inquietante apparenza?

Le risposte nei prossimi post.

venerdì 6 febbraio 2009

La nave del Fenicio


Studiare Omero è l'ultimo baluardo contro la mediocrità e la superficialità.

(Un vecchio professore di Latino e Greco
recentemente scomparso)

Il Licantropo delle Nevi


Un fortunoso scatto di un nostro intrepido redattore fra le remote cime al di là del mondo.


Batti un colpo


Chi dice che la cultura costa troppo non sa quanto costa l'ignoranza.

Franklin D.Roosevelt


PICCOLA STORIA DI DUBBIO


Un giorno, nella calma città del Sole, venne dal Nord un uomo assai strano.
Aveva una lunga barba foltissima ed indossava dei pesanti vestiti.
Nessuno degli abitanti lo aveva mai visto prima nè, ancora, lo aveva sentito proferire parola alcuna.
Forse era vecchio, forse era solo malandato e stanco.
Restava per ore ed ore seduto sui primi gradini dell'ampia scalinata che saliva, avvolgendosi a mò di nastro, verso l'ingresso della Casa del Sole.
La popolazione, dapprima, si mostrò volutamente indifferente alla presenza di quello strano individuo; la città intera si sforzava di continuare, nei limiti del possibile e come se niente fosse, la solita vita di sempre.
Poi, via che ti passava il tempo, la presenza continua di quell'enigmatica figura che, a giudizio dei personaggi più autorevoli della città, aveva uno strano e torvo modo di osservare tutta la gente, cominciò a sollevare qualche sporadica lamentela presso i salotti delle case della classe aristocratica.
In effetti la domanda che ciascun abitante, grande o piccino, povero o ricco che fosse,, si poneva era più che legittima: cosa mai aveva in mente di fare quell'uomo perennemente seduto in assoluto silenzio ed, almeno all'apparenza, tranquillo?
I buoni ed onesti padri di famiglia cominciarono seriamente a preoccuparsi per i loro figli e le loro donne e, non sapendo quali pesci pigliare, si limitarono a proibire ai loro congiunti di frequentare la Casa del Sole.
Poi, visto che la "penosa questione", così come era stata definita da una tempestiva convocazione del Consiglio Comunale, non tendeva nè a risolversi nè tantomeno a sbloccarsi da sola, in pochi giorni il malumore della popolazione divenne astio che si estese a tutti i ceti sociali.
Da allora nessuno perse mai occasione, adducendo ai più incoerenti pretesti, di indirizzare parole non certo lusinghiere verso quella strana figura di uomo che, a dire il vero, non stava infastidendo nessuno di loro.
Quando poi il tempo, che lì era sempre sole e caldo, subì un repentino quanto inspiegabile mutamento verso il brutto, l'astio lungamente covato si tramutò in ira furibonda finchè, in una mattinata di pioggia, gli uomini più forti e coraggiosi del paese, armati di nodosi e pesanti bastoni, compatti e convinti di essere nel giusto, decisero di ricorrere alle maniere forti per porre fine a quella situazione.
Per di più, circolava una voce per cui si pensava che quell'uomo, con il suo comportamento da fannullone, stava dando un esempio fortemente negativo ai loro bambini.
La squadra, Sindaco in testa a tutti, partì dal cortile della scuola elementare salutata da due ali di folla osannante.
Qualcuno, nella confusione del momento, era perfino riuscito a raffazzonare in fretta e furia uno striscione su cui risaltava la prosaica scritta "EVVIVA I NOSTRI VENDICATORI".
Tutta la città quel giorno si era fermata per poter osservare coi propri occhi l'esempio di come un popolo altamente civilizzato come il suo fosse in grado di potersi costruire un proprio, solido futuro.
Dunque la squadra si mosse in direzione della Casa del Sole seguita da una fiumana di gente che articolava slogans carichi di odio che promettevano chissà quali orribili punizioni.
Entro breve tempo giunsero al margine della piazza principale da dove la visione della Casa del Sole era più facile e completa.
Abbagliato di stupore il flusso si bloccò ammutolito nel centro della piazza quando si accorse che la causa di tutti i loro problemi, il personaggio in questione insomma, era sparita.
Dopo un primo inevitabile attimo di sbigottimento tutti cominciarono a guardarsi l'un l'altro dapprima in modo stupito poi, via via, sempre più sospetto.
Nella folla si alimentava il dubbio che, per forza di cose, qualcuno di loro aveva qualcosa a che fare con quella insospettata sparizione improvvisa.
Cittadini di integerrima personalità, in preda ad un isterismo furioso, iniziarono a lanciarsi in reciproche ed infondate accuse.
Qua e là per la piazza si scatenarono tafferugli violenti che costrinsero il Sindaco a fare intervenire le forze dell'ordine che dovettero disperdere, a suon di manganellate, la folla impazzita e furibonda.
Le ricerche durarono quasi quattro anni, vicolo per vicolo, casa per casa, ma dello strano personaggio fu persa ogni benchè minima traccia.
La Città del Sole non fu mai più la stessa.
Ora la gente si guardava in modo diverso, i rapporti interpersonali erano cambiati e l'amicizia e l'amore avevano lasciato posto al sospetto ed alla sfiducia reciproca.
Nessuno più si fidava di qualcuno.
La Casa del Sole, circondata da un nutrito cordone di guardie che ne impediva a chiunque il libero accesso "a scopo precauzionale", come sbandieravano i tanti manifesti appiccicati sui muri delle strade, venne lasciata cadere in rovina.
Ancora, adesso che di tempo ne è passato tanto, nelle scuole viene raccontata a tutti i bambini la storia di quell'uomo venuto dal Nord ed il dubbio che in quei lontani giorni trovò abbondante alimento, serpeggia e si radica negli animi.

martedì 3 febbraio 2009

Time Moves On

Il tempo passa et impera!

Non è mai una soluzione è un'incombenza e come tale ci perseguita e precipita nello sconforto di non essere mai abbastanza per nessuno. Questa bella canzone di Carmen & Thompson è solo una vaga dimensione, un breve stralcio che però può fare compagnia senza fare poi così male. La musica è sempre una costante, una certezza sicura (o una sicurezza certa?)..."Play it again, Sam" già suonala ancora.

Non ricordo quanti anni fa ma sono tanti.

Aspettando che passi


Nel nido
aspettando che l’amore passi
come una malattia
i minuti cadono senza rumore
fiocco dopo fiocco
in un crepuscolo d’opale
che intride il buio
dentro gli occhi
sotto le palpebre
e la coscienza.
Aspettando che la vertigine
si avviti, mite
verso la notte e il sonno
che i passi siano di nuovo sicuri
e il cuore non batta
come il letargo richiede
pensieri lucidi
fanno quasi compagnia.
Uccelli sui fili, immobili
primule nella neve
germogli nel gelo.
Personaggi di un romanzo
troppo accennati e fitti
perché se ne ricordi il nome
il tango li porti via
come un vento caldo d’estate.
Ma ora nevica piano
e si fa sera.