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L'ombra è l'opposto del sole, ma si nutre di esso.
Un cielo grigio non genera ombre: nessun contrasto, nessun pensiero.


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sabato 30 novembre 2013

Nevicata

Nevicata

Lenta fiocca la neve pe ‘l cielo cinereo: gridi,
suoni di vita più non salgono da la città,

non d’erbaiola il grido o corrente rumore di carro,
non d’amor la canzon ilare e di gioventù.

Da la torre di piazza roche per l’aere le ore
gemon, come sospir d’un mondo lungi dal dì.

Picchiano uccelli raminghi a’ vetri appannati: gli amici
spiriti reduci son, guardano e chiamano a me.

In breve, o cari, in breve – tu càlmati, indomito cuore –
giù al silenzio verrò, ne l’ombra riposerò.

Giosuè Carducci 


La neve cade con lentezza attraverso il cielo grigio: la città di Bologna non è più animata dalle  grida dei pedoni o dei negozianti ed appare silenziosa in conseguenza .
Non si avvertono più per le vie le urla dell’erbaiola né è possibile udire il rumore del carro che corre nella via. L’animo dei cittadini non è più rallegrato da parole o gesta di amore  e la pace per così dire invade il cortile dove non si alzano le grida dei bambini che giocano felici.
Dalla parte alta del palazzo comunale di piazza San Petronio, si diffonde nell’atmosfera la sensazione che i rintocchi delle ore determinino un allontanamento dalla dimensione del tempo e dalla luce del giorno: il mondo dei morti è ormai vicino.
Gli uccelli  che vagano senza mai fermarsi  picchiano ai vetri appannati. Si tratta degli spiriti di amici defunti che mi osservano e mi chiamano a loro.
Appellandomi a te, cuore mio, ti prego di abbandonare le illusione e le speranze della vita, affinché io possa predispormi all’attesa serena della morte. Tra poco, o cari amici spiriti, anche la mia ora sarà giunta: potrò così giungere nel mondo sotterraneo dove tutto è silenzio ed ombra.
La poesia riflette l’angoscia di un momento  triste per il poeta, preoccupato dall'aggravarsi della malattia di Lidia e poi dalla morte di lei. L’occasione nasce da una nevicata che smorza i rumori della città e rende brutta l’atmosfera . Lo squallore del paesaggio si accorda con lo stato d’animo dell’io lirico e con le sue riflessioni sulla fine della vita. I rintocchi delle ore evocano voci e sospiri fuori dal tempo. Gli uccelli che picchiano ai vetri rappresentano le anime di amici che aiutano il poeta ad attendere la morte con serenità.

Il tema centrale della poesia è quello  della morte; in molte sue liriche si trova la contrapposizione fra la vita e la morte, fra la luce e le tenebre. In quest’opera sembra predominare solo il pensiero della morte, che acquista la forma simbolica, per altro dichiarata dal poeta, degli uccelli che picchiano con il becco sul vetro. Si può rintracciare però ancora un eco della vita e della gioia che essa suscita in quel grido della fruttivendola, nel carro che corre e nell'accenno all'indomito cuore. Ma questi richiami sono come smorzati e attutiti dalla neve, dalla situazione di pesante tristezza che grava sulla città e sul poeta.
La poesia si apra con l'immagine della neve che scende sullo sfondo di un cielo grigio e con l'idea del silenzio che si chiuda ancora con le parole silenzio e ombra, a definire il regno dei morti.
Carducci per comunicare meglio le immagini e le sensazioni che esse suscitano utilizza diverse figure retoriche. Ad esempio per sottolineare la mancanza di suoni pone un enjambement tra i vv.1-2 e un chiasmo nel v.3; cerca di far emergere la parola cinereo attraverso un allitterazione e rende ancor più angosciosa l’attesa della morte attraverso la ripetizione al v.9 (dalla rete).

venerdì 29 novembre 2013

Ricordo

In località Vallate, nel comune di Cosio Valtellino, restano i ruderi dell’antica chiesa e del monastero fondato dai monaci cluniacensi nel 1078, l’Abbazia di S. Pietro in Vallate.
Oggi si possono ammirare il campanile, parte dei muri perimetrali e l’abside.
La chiesa aveva, originariamente, due navate coronate da absidi.
La minore aveva incorporato il campanile, breve e robusto.
Molto interessanti risultano essere le decorazioni esterne dell’abside, vi si osservano quattro esili semicolonne che frazionano lo spazio in cinque parti abbellite da archetti semicircolari posti sotto il cornicione del tetto e da una triplice greca formata da cotti disposti a dente di sega, in alto, e a zig-zag, nella parte bassa.
Nell’abside sono inserite anche eleganti finestre strombate.
L’ambiente circostante si presenta bucolico immerso nel silenzio; l’ampio panorama che da qui si gode spazia da tutta la bassa valle ai numerosi paesi della Costiera dei Cèch (dalla rete).


Ricordo

Ricordo una chiesa antica,
romita,
nell'ora in cui l'aria s'arancia
e si scheggia ogni voce
sotto l'arcata del cielo.

Eri stanca,
e ci sedemmo sopra un gradino
come due mendicanti.

Invece il sangue ferveva
di meraviglia, a vedere
ogni uccello mutarsi in stella
nel cielo.

Giorgio Caproni


 

 
le rovine amate,
quelle lontane
eppure vivide e vere;
un tempo. domani...
forse...

giovedì 28 novembre 2013

Lume

lume s. m. [lat. lūmen (-mĭnis), affine a lūx «luce»]. –

1.
a. In genere, sorgente luminosa, apparecchio o mezzo, anche molto semplice, per produrre luce artificiale e illuminare: Facesti come quei che va di notte, Che porta il l. dietro e sé non giova (Dante); spento ogni l. prestamente ... le si coricò allato (Boccaccio); nel linguaggio comune, indica oggi per lo più, come indicava in passato, mezzi d’illuminazione diversi da quelli elettrici, quelli cioè costituiti da candele, lucerne, fiaccole, lampade a gas, a petrolio, ecc. (e lume a petrolio, o assol. lume, era solitamente chiamata la lampada a petrolio di uso domestico): levami un po’ quel l. dinanzi, che m’accieca (Manzoni); accendere, spegnere i l., con riferimento al passato, o anche al presente dove tali mezzi sono ancora adoperati; mettere i l. alle finestre, per luminarie in giorni di festa o in occasione di processioni; festa dei l., altro nome della festa delle lampade presso gli Ebrei (v. lampada). Può anche designare un apparecchio d’illuminazione elettrica, ma solo in frasi generiche (per es., addormentarsi col l. acceso), che si conservano quasi per tradizione, oppure con riferimento a lampade spostabili, in frasi come portare, avvicinare, allontanare il l., che sopravvivono dal tempo in cui i mezzi d’illuminazione erano diversi. Anticam. il sing. si usò anche con senso collettivo: lungo ’l Verde, Dov’e’ le trasmutò [le mie ossa] a lume spento (Dante); alla più vicina [chiesa] le più volte il portavano, dietro a quatro o a sei cherici con poco lume (Boccaccio). Modi proverbiali fig.: tenere, reggere il l., lo stesso che reggere il moccolo o la candela (v. candela, n. 1), e meno spesso nel senso di reggere il candeliere (v.); arrivare quando sono spenti i l., arrivare a uno spettacolo o a una riunione quando questi sono già al termine.
b. Per estens., poet. (dal sign. generico di «sorgente di luce» o di «oggetto luminoso»), stella, astro: La spera ottava vi dimostra molti Lumi (Dante), le stelle fisse dell’ottavo cielo; Fra tanti amici lumi [stelle benigne] Una nube lontana mi dispiacque (Petrarca). Con traslati analoghi a quelli di luce (nei sign. ivi descritti al n. 4): l’alto lume (Dante), Dio; E ’l canto di que’ lumi (Dante), di quegli spiriti beati; più com., nell’uso letter., persona di gran merito e di gran sapere da cui proviene luce di gloria, o che costituisce una guida, un esempio insigne: O de li altri poeti onore e lume (Dante); que’ tre che tu, Fiorenza, onori, Eterni lumi della lingua nostra (Berni); Cadde Rifeo, ch’era ne’ Teucri un lume Di bontà, di giustizia e d’equitate (Caro). Per enfasi, l. degli occhi, persona grandemente amata: Poscia che ’l dolce ... L. degli occhi miei non è più meco (Petrarca).

2.
a. Lume è spesso adoperato anche come sinon. di luce nel suo sign. fondamentale di radiazione luminosa, o di chiarore, di splendore in genere: videro un l. in lontananza; Li raggi de le quattro luci sante Fregiavan sì la sua faccia di lume, Ch’i ’l vedea come ’l sol fosse davante (Dante); Il cinguettio, così tra l. e scuro, Cessò d’un tratto (Pascoli). Con questo sign. la parola, se riferita alla luce naturale, è solo dell’uso letter. o ha sapore arcaico: stanza che ha poco l., che prende, che riceve l. da un’apertura; raro, il l. del sole, delle stelle; l. di luna si alterna col più frequente chiaro di luna, soprattutto in alcune frasi: c’era un bellissimo l. di luna; passeggiare, fare una gita in barca a l. di luna; fig., a questi l. di luna (v. luna, n. 1 a). È d’uso corrente invece quando indica la luce artificiale prodotta da un apparecchio d’illuminazione non elettrico e poco luminoso: al l. della candela, d’una lampada a olio, a petrolio; al fioco l. d’una lucerna, ecc.; prov., né donna né tela al l. di candela (v. candela, n. 1); fare lume, dar lume, riferito al corpo da cui viene la luce: questa lucerna fa poco l., non dà l. sufficiente. Fare l. si dice però anche della persona che, reggendo una lampada, una lucerna, una candela, ecc., accompagni un altro al buio per rischiarargli la strada, oppure gli si accosti perché veda meglio: vado avanti io per farle l.; fammi l., perché non riesco a leggere quello che c’è scritto qui. Fig., far l., di persona magrissima, che quasi lascia trasparir la luce. La frase non veder lume, rara in senso proprio, è usata in senso fig., non veder chiaro in qualche faccenda, non vedere possibilità d’un rimedio, d’una via d’uscita, d’un miglioramento della situazione; iperb.: ho una fame che non vedo l. (oggi più com. che non ci vedo), grandissima; non veder più l., essere accecato dall’ira, dalla disperazione, e sim.
b. Nel linguaggio della critica figurativa, s’intende per lume, nella pittura, la resa dell’effetto della luce sui corpi che ne sono colpiti (v. anche lustro1); rialzare i l., dare rilievo alle parti più in luce mediante il lumeggiamento.
c. In comune con luce è anche l’uso fig. per indicare la vista, la facoltà visiva: perdere, rendere, riavere il l. degli occhi; Dar l. a ciechi, e tornar morti a vita (Ariosto); per metafora, perdere il l. degli occhi, essere sopraffatto dall’ira, dal furore così che la vista quasi si offusca e la mente s’intorbida (cfr. l’espressione fig. non vederci più, con senso analogo). Al plur., poet., gli occhi (in quanto, come la luce, essi sono il mezzo che consente di vedere gli oggetti): E vidi lagrimar que’ duo bei lumi (Petrarca); cadde tramortita e si diffuse Di gelato sudore, e i l. chiuse (T. Tasso); se il fato ... non consente Ch’io per la Grecia i moribondi lumi Chiuda (Leopardi).

3. Altri usi fig., di cui alcuni sono comuni con luce, altri invece esclusivi:
a. Ciò che dà luce alla mente e allo spirito, rischiarandoli, guidandoli nella ricerca e nella conquista della verità, nella comprensione delle cose: il l. della fede, i l. della scienza, ecc.; [Beatrice] Che lume fia tra ’l vero e lo ’ntelletto (Dante). In partic., secolo dei l., espressione, oggi per lo più scherzosa o usata in tono lievemente ironico, con cui si è designato il sec. 18° (fr. siècle des lumières), cioè l’Illuminismo, in quanto si affermò allora l’idea di una illuminazione dello spirito dalle tenebre dell’oscurantismo medievale per opera della ragione; sempre con allusione all’Illuminismo, i lumi, la cultura fondata su basi razionalistiche: spirito tenebroso di cabala e d’intrigo che sparisce in faccia ai lumi ed alle scienze (Beccaria); la stampa, i fogli pubblici, ... i lumi finalmente che ogni giorno più vanno allontanando gli uomini dall’antica ferocia (P. Verri).
b. Più genericam., ammaestramento, consiglio, schiarimento che aiuti a intendere, a sciogliere dubbî, a levar d’impaccio, e sim.; dare lume, aiutare con la propria scienza ed esperienza nel retto intendimento intellettuale o morale; analogam., avere, ricevere, prendere lume da qualcuno, chiedere lume, nelle incertezze della mente e nei dubbî dell’animo: il segretario voleva un po’ di tempo per prender l. (Verga); rivolgersi a qualcuno per aver lume. Sono in genere espressioni di tono elevato e solenne, che facilmente si prestano perciò a un uso scherz. o iron., soprattutto in qualche partic. frase come fammi lume, o quand’è usato al plur.: mi diede i suoi l.; vieni qui, che ho bisogno dei tuoi l.; se avrò bisogno, ricorrerò ai tuoi l.; al plur. può anche significare le cognizioni, la cultura, la scienza, l’avvedimento, l’acutezza di mente (e anche in questo caso è per lo più iron.): uomo di molti l.; mi potrò giovare o valere dei tuoi l.; portò i suoi l. nella discussione.
c. La luce che irraggia dalla mente stessa o da cui la mente è irraggiata; quindi: l. della ragione, l. dell’intelletto, la facoltà e l’uso della ragione; perdere il l. della ragione, diventare pazzo, o infuriarsi fino a non aver più il controllo e la coscienza dei proprî atti. Anche, discernimento: Lume v’è dato a bene e a malizia, E libero voler (Dante). L. naturale, nella filosofia scolastica (lat. lumen naturale), la naturale capacità della ragione umana di attingere la verità, in antitesi al lumen gratiae, superiore capacità d’intendimento ad essa concessa dalla grazia divina.

4. In biologia, l’interno di un canale organico o di un organo cavo o di una cellula provvista di parete evidente: l. di un’arteria, di una vena; l. vasale; l. intestinale, ecc.

5. La dimensione delle maglie nelle reti da pesca.

Dim. lumétto, lumettino; pegg. lumettàccio (tutti riferiti ai lumi a olio, a petrolio e sim.). V. inoltre lumicino e lumino (dizionario Treccani).


Basta anche il lume in fondo alla vallata,
quel lume che ogni sera torna.E' come
quando si dice a un premuroso che
ci si vede, e altro lume non occorre...

Basta il mistero, sulla delusa terra ,
del lume che a intervalli appare e spare,
e avvezzo a sè fa il cuore, come a un palpito...

Basta che un lume, in una lontananza,
si riaccenda nel mondo , a quando a quando

Gaetano Arcangeli


una candela nel buio,
calda d'inverno,
luminosa l'estate;
una piccola luce
a indicare il sentiero,
la via...

mercoledì 27 novembre 2013

Poesia e riflesso

La vecchia del sonno

Centanni ha la vecchia.
Nessuno la vide aggirarsi nel giorno.
Sovente la gente la trova a dormire
vicino alle fonti:
nessuno la desta.
Al dolce romore dell'acqua
la vecchia s'addorme,
e resta dormendo nel dolce romore
dei giorni dei giorni dei giorni...

Aldo Palazzeschi




dormire, sognare,
riprendersi il tempo
lasciarsi cullare
fuori dal vero, dal reale...

martedì 26 novembre 2013

3 Gymnopedies




LES GYMNOPÉDIES

Le Gymnopédies sono tre opere per pianoforte composte da Erik Satie che furono pubblicate a Parigi nel 1888.
Questi brevi pezzi atmosferici sono scritti in tempo di 3/4.
Sono considerati i precursori alla moderna musica d'ambiente, per l'eccentricità e la spiccata dolcezza che sembrano sfidare la tradizione classica.
Le melodie delle Gymnopédies usano deliberatamente, seppure leggermente, dissonanze contro l'armonia, producendo un caratteristico effetto malinconico
Sin dal primo ascolto della Gymnopedie n°1 si rimane estasiati dalle armonie che ne escono fuori. GYMNOPEDIE 1 Di certo questa splendida composizione è il brano più conosciuto di Erik Satie. Resta il fatto che molti non ne conoscono l’autore e spesso quando sentono l’inizio si ritrovano catapultati in un ricordo di un breve frammento a cui non riescono a dare un nome. Tonalità: Re maggiore Tempo: 3/4 Lent et douloureux.
GYMNOPEDIE 3 Gymnopedie n°3 dedicata a Charles Levadè Tonalità: La minore Tempo: 3/4 Lent et grave.
Orchestrazione di Claude Debussy Verso la fine del 1896 la popolarità di Satie e la situazione finanziaria era calante. Claude Debussy , la cui popolarità era in aumento in quel periodo, ha contribuito ad attirare l'attenzione del pubblico verso l'opera del suo amico.
Debussy ha espresso la sua convinzione che la "seconda Gymnopedie" non si presta a orchestrazione (orchestrazioni di questa Gymnopédie sono state realizzate solo molti decenni dopo, da altri compositori, e senza essere eseguite frequentemente).
Così, nel febbraio 1897, Debussy ha orchestrato solo la prima e la terza Gymnopédie, invertendo la numerazione:
"Prima Gymnopédie" (originale impostazione al pianoforte di Satie) → "Terza Gymnopédie" (orchestrazione di Debussy)
"Terza Gymnopédie" (originale impostazione al pianoforte di Satie) → "Prima Gymnopédie" (orchestrazione di Debussy)
Lo spartito è stato poi pubblicato nel 1898.
(dalla rete)


lunedì 25 novembre 2013

Ignoranza

Io non conosco
verità assolute,
ma sono umile
di fronte alla mia ignoranza:
in ciò è il mio onore
e la mia ricompensa.


Kahlil Gibran


la mente assoda
conclusioni e sentenze
le vie percorrono
gioie e dolori...





ignoranza s. f. [dal lat. ignorantia]. –

1. Con sign. ristretto, l’ignorare determinate cose, per non essersene mai occupato o per non averne avuto notizia: i. dei proprî doveri; i. di una scienza, di un’arte; l’i. della legge non scusa la sua violazione; cullarsi nell’i.; confesso la mia i., per scusarsi di non intendersi di una data materia o di ignorare cose che si dovrebbero sapere.
2. Più comunem., la condizione di chi è ignorante, cioè privo d’istruzione:
vivere nell’i.; sollevarsi dall’i.; i. grossolana, i. crassa; la superbia è figlia dell’ignoranza. In espressioni esclamative: santa i.!, in tono tra impaziente e ironico, di fronte a persona che mostri di essere più ignorante di quanto dovrebbe; beata i.!, o beata l’i.!, felice colui che può vivere una vita semplice e tranquilla senza essere tormentato dai problemi che il sapere porta con sé.
3. Mancanza di educazione, villania: non rispondere al saluto è i. bella e buona.
(dizionario Treccani)

domenica 24 novembre 2013

Poesia e riflesso


Vennero i freddi

Vennero i freddi,
con bianchi pennacchi e azzurre spade
spopolarono le contrade.
Il riverbero dei fuochi splendé calmo nei vetri.
La luna era sugli spogli orti invernali.

Attilio Bertolucci


ore notturne
a guardare il vento;
la pioggia è fredda
novembre finisce...

sabato 23 novembre 2013

Poesia e riflesso


Alla luna

O graziosa luna, io mi rammento
Che, or volge l'anno, sovra questo colle
Io venia pien d'angoscia a rimirarti:
E tu pendevi allor su quella selva
Siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
Il tuo volto apparia, che travagliosa
Era mia vita: ed è, né cangia stile,
O mia diletta luna. E pur mi giova
La ricordanza, e il noverar l'etate
Del mio dolore. Oh come grato occorre
Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
La speme e breve ha la memoria il corso,
Il rimembrar delle passate cose,
Ancor che triste, e che l'affanno duri!

Giacomo Leopardi


vittime ribelli,
ululati e gridi,
come povere fiamme
inondate di pioggia...

venerdì 22 novembre 2013

Gymnopedie n°1



La numero uno, la più famosa.
Le Gymnopedies sono tre composizioni per pianoforte solo, pubblicate nel 1888 e ispirate alla poesia Les Antiques di Patrice Contamine, poeta francese che Satie conobbe nel 1887. 
Oblique et coupant l’ombre un torrent éclatant

Ruisselait en flots d’or sur la dalle polie

Où les atomes d’ambre au feu se miroitant

Mêlaient leur sarabande à la gymnopédie…
Pur essendo assieme alle Gnossiennes, tra le prime opere pianistiche di questo autore, esse già definiscono l’estrema esilità e la semplicità strutturale che sarà alla base, seppur in forme diverse, di tutta la sua arte.
Il fascino ipnotico che emana da queste composizioni nasce dalla scena di un’antica cerimonia greca in cui alcuni adolescenti danzano nudi. La parola gymnopedie deriverebbe infatti dalla corrispondente parola greca gymnopaedia.
Verso la fine del 1896, Claude Debussy, la cui popolarità era a quel tempo ormai all’apice, decise di orchestrare le tre splendide melodie di Satie. Egli inserisce in organico ben due arpe, affidando l’accompagnamento accordale alla prima, e costruendo egli stesso una seconda ostinata linea melodica per la seconda (dalla rete).

giovedì 21 novembre 2013

Poesia e riflesso

Poesia

È come a un uomo battuto dal vento,
accecato di neve - intorno pinge
un inferno polare la città-
l'aprirsi, lungo il muro, d'una porta.

Entra. Ritrova la bontà non morta,
una dolcezza di un caldo angolo. Un nome
posa dimenticato, un bacio sopra
ilari volti che più non vedeva
che oscuri in sogni minacciosi.
                                                  Torna
egli alla strada, anche la strada è un'altra.
Il tempo al bello si è rimesso, i ghiacci
spezzano mani operose, il celeste
rispunta in cielo e nel suo cuore. E pensa
che ogni estremo di mali un bene annuncia.

Umberto Saba

 

 
le rime, le atmosfere,
sentimenti e voce;
un sussulto,
una speme
e tutto
tace...

mercoledì 20 novembre 2013

Autunno descrizione e poesia

L'autunno è una delle quattro stagioni dell'anno.
Si distinguono quello astronomico e quello meteorologico.
L'autunno astronomico nell'emisfero boreale ha inizio il giorno dell'equinozio d'autunno, il 22 o il 23 settembre e termina il 20 o il 21 dicembre. Avvicinandoci a questo periodo la parte illuminata e le ore di luce diminuiscono. Il 22 o il 23 settembre (in base al giorno dell'equinozio d'autunno) i raggi del sole sono perpendicolari all'equatore e il circolo d'illuminazione passa per i poli.
Meteorologicamente invece si considerano estate e inverno i periodi di tre mesi rispettivamente più caldi e più freddi: in tal modo primavera e autunno sono definiti come i periodi intermedi. In tal senso l'inizio dell'autunno meteorologico varierà da paese a paese principalmente in base alla latitudine (wikipedia).

Autunno

Se ne vanno nella nebbia un contadino storto
e il suo bue lentamente nella nebbia d'autunno
che cancella le borgate povere e vergognose

Mentre s'allontana il contadino canticchia
una canzone d'amore e d'infedeltà
che parla di un anello e d'un cuore infranto

Oh l'autunno l'autunno ha ucciso l'estate
Se ne vanno nella nebbia due grigie figure.

Guillaume Apollinaire
trad. Renzo Paris
 

leste scie d'acqua
freddano il suolo,
affogano foglie intristite...

  
L'Autunno è una de "Le quattro stagioni di Vivaldi".
Il 31 ottobre è tipico festeggiare Halloween, nato nel Regno Unito e negli Stati Uniti.
Il 1º novembre ricorre la solennità di Ognissanti e il Capodanno celtico.
Il 2 novembre ricorre la Commemorazione dei Defunti.
L'8 dicembre ricorre la solennità dell'Immacolata Concezione.

martedì 19 novembre 2013

Voce e riflesso

La voce è il suono emesso dall'essere umano parlando o cantando oppure urlando.
Il termine può altresì indicare, per estensione, il verso emesso da un animale, il suono di uno strumento musicale oppure il prodotto di una manifestazione naturale.
In musica la voce è lo "strumento musicale" primo e imprescindibile, il più istintivo.
Essa è stata fin dalle origini fondamento dell'espressione musicale, e ha ispirato la creazione di numerosi strumenti musicali.
Termini come "cantabilità" e "cantando" vengono spesso utilizzati anche nella pratica strumentale per indicare comportamenti timbrici e di fraseggio analoghi a quelli impiegati nella pratica vocale, e in alcune tradizioni musicali la voce è il modello espressivo a cui tende la musica strumentale (ad es. nella musica classica indiana).

Caratteristiche:
1) Estensione, campo in cui si estende la voce
2) Intensità acustica, potenza del suono
3) Altezza, definisce la frequenza media della voce, acuto, ottuso
4) Timbro della voce, definisce l'andamento del suono
(da Wikipedia) 

La tua voce

La tua voce è oscura
di baci che non mi hai dato
di baci che non mi dai.
La notte è polvere di quest’esilio.
I tuoi baci appendono lune
che raggelano il mio cammino.
E tremo
sotto il sole.

Juan Gelman



anche quando cambia di tono,
anche quando è stanca,
la musica che sento,
quella dell'anima
quella di sempre...

lunedì 18 novembre 2013

Poesia e riflesso


I tetti

Dolci pendii dei tetti!
Rosei taluni come dei guanciali
su cui le diafane nubi
abbiano impresse le tenere gote;
altri sanguigni come torchi
di tramonti e d'aurore,
come ceppi per le serali
decapitazioni del sole;
altri nerastri come letti
della funebre notte;
altri madreperlacei come
se la chiocciola della luna
v'abbia lasciata la sua scìa luminosa.
Vecchie vele tignose
conciate dal sole e dall'intemperie,
in secca in un canale senza uscita,
valanghe immobili di neve nell'inverno,
lividi sgocciolatoi
del pianto tedioso
della pioggia autunnale,
logori asciugatoi
dei crepuscoli violetti.
Con le loro ventarole di latta,
con i loro galletti inverniciati
che montano la guardia giorno e notte,
con le indorate baionette
inastate dei parafulmini,
coi loro bianchi e grigi campanili
che sbucan qua e là sottili,
paracarri di mistici confini:
incombono i bigi tetti.
 Una verde speranza d'edera
s'ostina su una gronda;
un glicine dispone lungo un muro
la sua solitaria uva gioconda.
Alla sera, sui tegoli rossi,
a due a due come suore,
fanno la loro scalza passeggiata
le colombe soffuse di pallore;
mentre sopra i leggii degli abbaini
i gatti scorticano l'acrobatica
musica delle stelle
con i loro epilettici violini.

Corrado Govoni


si vede diverso,
dall'alto;
tutto sembra distante,
lontano dal cuore;
vorrei un tetto, una terrazza,
per guardare con dolce distacco...

domenica 17 novembre 2013

Baudelaire

Per Jeanne Duval

Lasciami respirare a lungo, a lungo, l’odore dei tuoi capelli. affondarvi tutta la faccia, come un assetato nell’acqua di una sorgente, e agitarli con la mano come un fazzoletto odoroso, per scuotere dei ricordi nell’aria.
Se tu sapessi tutto quello che vedo! tutto quello che sento! tutto quello che intendo nei tuoi capelli! La mia anima viaggia sul profumo come l'anima degli altri viaggia sulla musica.
I tuoi capelli contengono tutto un sogno, pieno di vele e di alberature: contengono grandi mari, i cui monsoni mi portano verso climi incantevoli, dove lo spazio è più bello e più profondo, dove l’atmosfera è profumata dai frutti. dalle foglie e dalla pelle umana.
Nell’oceano della tua capigliatura, intravedo un porto brulicante di canti malinconici, di uomini vigorosi di ogni nazione e di navi di ogni forma, che intagliano le loro architetture fini e complicate su ün cielo immenso dove si abbandona il calore eterno.
Nelle carezze della tua capigliatura, io ritrovo i languori delle lunghe ore passate su un divano, nella camera di una bella nave, cullate dal rullio impercettibile del porto, tra i vasi da fiori e gli orcioli che rinfrescano.
Nell’ardente focolare della tua capigliatura, respiro l’odore del tabacco, confuso a quello dell’oppio e dello zucchero: nella notte della tua capigliatura, vedo risplendere l’infinito dell'azzurro tropicale; sulle rive lanuginose della tua capigliatura, mi inebrio degli odori combinati del catrame, del muschio e dell’olio di cocco.
Lasciami mordere a lungo le tue trecce pesanti e nere. Quando mordicchio i tuoi capelli elastici e ribelli, mi sembra di mangiare dei ricordi.

Charles Baudelaire

sabato 16 novembre 2013

A un padre

Una lirica semplice, d'amore e di profondo affetto, quella di Camillo Sbarbaro.

Il sentimento che egli prova nei confronti di suo padre prelude da quell'indissolubile legame di sangue, perché:"padre, se anche tu non fossi il mio, per te stesso egualmente t'amerei". L'affetto è rivolto all'uomo innanzitutto, a quella persona che egli amerebbe e ammirerebbe comunque. Dolci sono i ricordi d'infanzia legati al genitore, come quando comunicò ai figli di aver trovato una viola. Un piccolo gesto, questo, carico d'amore e di sensibilità. Il poeta riscopre il padre, e lo riscopre più che nella sua veste di genitore, nella sua veste di uomo. Una persona con sentimenti puri e sinceri, descritta da Sbarbaro in profondità. Gli episodi d'infanzia raccontati servono a rendere l'immagine di un uomo ricco di umanità. Il padre del poeta viene descritto sensibile e dolce quando non trova il coraggio di punire la figlia per una malefatta:"l'avviluppavi come per difenderla da quel cattivo che eri tu prima". Ecco così che la bambina viene rassicurata dalle forti braccia paterne, piuttosto che essere punita dallo stesso. La lirica ha la struttura di un colloquio con il padre, versi confidenziali e sinceri, sentimenti puri manifestati apertamente. Tutto ruota attorno ad una ferma e vera convinzione:"Anche se fossi a me un estraneo, per te stesso egualmente t'amerei". Sbarbaro usa degli endecasillabi sciolti, raggruppati in tre strofe di diversa lunghezza. "Padre, se anche tu non fossi il mio" appartiene alla raccolta di poesie Pianissimo (1914) (dalla rete).



 Padre, se anche tu non fossi il mio
Padre se anche fossi a me un estraneo,
per te stesso egualmente t'amerei.
Ché mi ricordo d'un mattin d'inverno
Che la prima viola sull'opposto
Muro scopristi dalla tua finestra
E ce ne desti la novella allegro.
Poi la scala di legno tolta in spalla
Di casa uscisti e l'appoggiasti al muro.
Noi piccoli stavamo alla finestra.
E di quell'altra volta mi ricordo
Che la sorella mia piccola ancora
Per la casa inseguivi minacciando
(la caparbia aveva fatto non so che).
Ma raggiuntala che strillava forte
Dalla paura ti mancava il cuore:
ché avevi visto te inseguir la tua
piccola figlia, e tutta spaventata
tu vacillante l'attiravi al petto,
e con carezze dentro le tue braccia
l'avviluppavi come per difenderla
da quel cattivo che eri il tu di prima.
Padre, se anche tu non fossi il mio
Padre, se anche fossi a me un estraneo,
fra tutti quanti gli uomini già tanto
pel tuo cuore fanciullo t'amerei.

Camillo Sbarbaro

venerdì 15 novembre 2013

Poesia di sabbia

Un dono

Prendi un sorriso,
regalalo a chi non l'ha mai avuto.
Prendi un raggio di sole,
fallo volare là dove regna la notte.
Scopri una sorgente,
fa bagnare chi vive nel fango.
Prendi una lacrima,
posala sul volto di chi non ha pianto.
Prendi il coraggio,
mettilo nell'animo di chi non sa lottare.
Scopri la vita,
raccontala a chi non sa capirla.
Prendi la speranza,
e vivi nella sua luce.
Prendi la bontà,
e donala a chi non sa donare.
Scopri l'amore,
e fallo conoscere al mondo.

Mahatma Gandhi


infinitesimi granelli
scorrono il tempo;
Padre ritorna!
un grido soffocato
un triste momento...


La sabbia è un materiale granulare formatosi dall’erosione di rocce, coralli, conchiglie o altri residui ossei. La principale roccia che si trova nei sedimenti di sabbia è l’arenaria. La caratteristica principale della sabbia è la sua permeabilità, per tale caratteristica trova largo impiego in agricoltura nella coltivazione di piante che necessitano di terreni ben drenati, quindi senza ristagni d’acqua. La sabbia viene utilizzata principalmente nell’edilizia per la produzione del cemento. In questi casi la sabbia deve essere priva di argilla, quindi viene sottoposta ad un’attenta selezione, dove vengono predilette le sabbie composte da silicati. Nella miscela utilizzata per la produzione di cemento può essere impiegata la sabbia, ottenendo così la malta di cemento, oppure sabbia e ghiaia, in questo caso il prodotto finale viene denominato calcestruzzo.
I granuli della sabbia, detti granelli, devono avere un diametro massimo di 2 millimetri per essere classificati come sabbia, nel caso in cui il diametro sia superiore viene catalogata come ghiaia, mentre se i granelli hanno un diametro inferiore a gli 0,63 millimetri si parla di limo o silt.
La sabbia è comunque un materiale versatile, gli impieghi di essa sono vari, la si può trovare infatti dalla lavorazione del vetro o addirittura raccolta in sacchi per rinforzare gli argini dei fiumi, o creare barriere protettive (dalla rete).

giovedì 14 novembre 2013

88 Poesie

Il volume che comprende le poesie scritte da Hemingway dal 1912 al 1956 sono state pubblicate nell'edizione americana a cura di Nicholas Gerogiannis (Ernest Hemingway, 88 Poems, Edited, with an Introduction and Notes, by Nicholas Gerogiannis, New York and London, Harcourt Brace Jovanovich/Bruccoli Clark, 1979) a vent'anni dalla morte dello scrittore. Si tratta praticamente di tutta la produzione poetica dello scrittore, tranne quattro poesie per le quali la vedova Mary Welsh Hemingway, sposata in quarte nozze nel 1946, non diede il permesso di pubblicazione, una che venne ritenuta lesiva nei confronti di qualche personaggio, e ancora una della quale si conosce solamente il titolo. Di queste ottantotto poesie, venticinque furono pubblicate quando l'autore era ancora vivo e settantatré risalgono a prima del 1929, data della pubblicazione del romanzo Addio alle armi. Il volume è strutturato in sei parti: Juvenilia (1912-1917), Vagabondaggi (1918-1925), A Valentine and other offerings (1926-1935), Farewells (1944-1956), Un augurio e altre oblazioni (1926-1933), Addii (1944-1956) (Wikipedia). 

Montparnasse

Non ci sono mai suicidi nel quartiere tra la gente che si conosce
Suicidi riusciti.
Un ragazzo cinese s'ammazza ed è morto.
(continuano a mettergli la posta nel casellario al Dome)
Un ragazzo norvegese s'ammazza ed è morto.
(nessuno sa dov'è andato l'altro norvegese)
Una modella, la trovano morta,
sola nel suo letto e morta assai.
(e non parliamo dei fastidi che tutto questo ha dato
alla concierge)
Olio d'oliva, bianco d'uovo, senapismi, schiuma di sapone
E sonde gastriche salvano la gente che si conosce.
La gente che si conosce la si trova ogni pomeriggio al caffè.

Ernest Hemingway


odori francesi,
nei miei ricordi,
in alcuni rimpianti;
bistrò all'aperto
profumo di mondo...

mercoledì 13 novembre 2013

Poetare e poesia

poetare v. intr. e tr.
[dal lat. pŏētari, der. di pŏēta «poeta»] (io poèto, ecc.; ma il pres. è raro).
– 1. intr. (aus. avere) Comporre poesie, scrivere versi: gli umanisti preferivano p. in latino piuttosto che in volgare; la corona Che suole ornar chi poetando scrive (Petrarca); dolorosamente Alla fioca lucerna poetando (Leopardi); con uso sostantivato: lettere contro alla maniera del poetare di Dante (G. Gozzi).
- 2. tr., non com. Trattare un argomento in poesia, narrare in forma poetica: Quelli ch’anticamente poetarono L’età de l’oro e suo stato felice (Dante); anche, comporre una poesia, un’opera poetica: mirabile fu la capacità che acquistammo di p. lunghe produzioni a memoria (Pellico). ◆ Part. pres. poetante, anche come agg. e sost. (questo per lo più con una connotazione riduttiva), che, o chi, compone opere in poesia: se invece che a uno o due poeti singoli si pensa a un popolo intero poetante (B. Croce); molti de’ nostri poetanti ... null’altro sanno fare ... se non un sonetto o una canzone alla petrarchesca (Baretti).
(dizionario Treccani).

O mia poesia, salvami,
per venire a te
scampo alle invitte braccia del demonio:
nel sogno bugiardo
agguanta la mia gonna la sua fiamma
e io vorrei morire
per i mille patimenti che m’infligge.
Nulla vale la durata di una vita
ma se mi alzo e divoro
con un urlo il mio tempo di respiro,
lo faccio solo pensando alla tua sorte,
mia dolce chiara bella creatura,
mia vita e morte,
mia trionfale e aperta poesia
che mi scagli al profondo
perché ti dia le risonanze nuove.
E se torno dal chiuso dell’inferno
torno perché tu sei la primavera:
perché dunque rifiuti me germoglio,
casto germoglio della vita tua?

Alda Merini


sento freddo oggi,
ho paura, temo;
non ho più risorse
non so cosa fare...