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L'ombra è l'opposto del sole, ma si nutre di esso.
Un cielo grigio non genera ombre: nessun contrasto, nessun pensiero.


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domenica 1 luglio 2018

Ormai (o oramài)


oramài
(o ormài)
avverbio [comp. di ora e mai].
- TRECCANI -
 
Delle due varianti, la forma oramai è più pop. e più usuale nella lingua parlata, mentre ormai è più frequente nella lingua scritta; spesso, tuttavia, la preferenza per l’una o per l’altra forma è dettata da ragioni di armonia sintattica. Il valore semantico e la funzione non sono sempre definibili esattamente, in quanto più che una condizione l’avverbio esprime un atteggiamento soggettivo di fronte a fatti o situazioni; in genere, ha valore e tono conclusivo, sia rispetto a un discorso precedente sia, più spesso, rispetto a fatti la cui natura induce di per sé a fare una constatazione o a trarre una conseguenza. In molti casi equivale pressappoco a già, con quelle differenze che di volta in volta il contesto stesso suggerisce: mi sono o. abituato; è o. un anno che non lo vedo; questo vestito è o. vecchio; è un male o. cronico; dove vuoi andare? o. è quasi buio; passati i settant’anni, o. vecchio e stanco, decise di ritirarsi a vita privata. O equivale a frasi come «giunti a questo punto», «stando così le cose» e sim.: c’era da aspettarselo o.; o. dovresti conoscermi; o. sono sicuro di riuscire. Con valore simile a «già quasi», «si può dire che», per esprimere l’immediatezza di un fatto futuro o la certezza che esso si avvererà: o. hai vinto; resisti ancora un po’, o. siamo arrivati; possiamo dire o. d’aver finito. Talvolta afferma l’impossibilità di indugiare oltre o comunque l’opportunità di non ritardare qualche cosa: o. bisogna andare; bisogna concludere o.; Ma seguimi oramai che ’l gir mi piace (Dante). Può esprimere infine la rassegnazione a una realtà che non può più mutare o la constatazione della sua ineluttabilità: corre al mar, graffiandosi le gote, Presaga e certa ormai di sua fortuna [= della sua sorte] (Ariosto); o. non ci pensavo più; credo che o. non ci sia più nulla da sperare; o., ciò ch’è fatto è fatto; che cosa ci posso fare o.?; o. è tardi per intervenire, per rimediare, per tornare indietro. V. anche omai.
 
 
Ormai

  Un giorno la giovinezza, con circospezione
abbandona arbitrariamente i capolinea. Ecco.
E io ricordo le finestre che s’accendono al pianterreno
sul vialone, e somigliano così profondamente ai radi
ragionamenti che faremo sul punto di morire,
in articulo, con l’ombra degli amici, a fior di mente.

                             Invero
non so più se viva tra le secche
ancora il suo tepido serpire, adesso,
in province gelate, come una romanza
fine e perenne sul filo della schiena, ma davvero
so che nelle lacrime lombarde, ove credemmo
di mieterci a vicenda, vagabondi baleni
dissipavano i veli nuziali alle riviere.

Ed era un nome d’alta Italia, a ripensare bene,
era un nome questa raffica, che non osi
più inseguire? E la felicità dell’occidente
si salva in occidente?

Disabitate ormai le alzaie, e disperando
ormai del nostro sentimento (e la nebbia
ormai mietuta che ci stringe a mezza vita),
disabitate le alzaie e disperando ormai
se la patria fosse una cittadinanza unica, reale,
andrebbe ricordata in un risucchio, a capofitto
per le celesti aiuole, la parte più dimessa
del nostro pensare lontanamente: andrebbe
ricordato uno spesso passaggio di brumisti
e di taxi, quel che tossisce sul margine caduco
del Naviglio, o libero tra le pioppe luccicanti
che i diti del vento tamburellano lassù, il brivido
dell’ultimo brum, in una corsa matta, che ci porta

via tutti i fanali e il nostro cuore salutando.  
 
Emilio Villa
 
  
Ormai, è tardi, non si può più,
abbiamo lasciato l'umanità fuori,
dietro di noi compaiono spettri ancestrali;
siamo ancora uomini? donne?...
 

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