Per la selva folta e scura,
Sotto il cielo spento,
Passa come un raccapriccio di paura
Un gran brivido di vento.
Ecco, il mare delle fronde
Freme, s’agita, si lagna:
Vasto il gemito si leva e si diffonde
Tutto intorno alla campagna.
Ma di nubi incoronato,
Dietro l’erta rovinosa,
Lentamente spunta il volto insanguinato
Della luna tempestosa.
Truce volto di Medusa,
Boccheggiante, innorrescente,
Che di sbieco, fra la tenebra confusa,
Guarda in giù sinistramente.
Tosto il vento vagabondo
Nel lontan vanisce:
Sopraggiunta da novello orror profondo
La foresta ammutolisce.
Arturo Graf
Il raccapriccio è un senso profondo di orrore; non è esplosivo come lo spavento, è più sottile: è quel turbamento che ti fa formicolare il cuoio capelluto, che paralizza l’espressione del volto e i muscoli del corpo. Si può dire che non sia quella paura di quando si teme per la propria incolumità, non ha quella scarica di adrenalina che ti prepara a batterti o a battertela, ma ha il senso di quando si rabbrividisce davanti a qualcosa di ripugnante, di abominevole, di grottesco, disumano. E il suono spezzato della parola rende bene l’incredulità paralizzata del raccapriccio (da "Una parola al giorno").
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