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L'ombra è l'opposto del sole, ma si nutre di esso.
Un cielo grigio non genera ombre: nessun contrasto, nessun pensiero.


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martedì 15 maggio 2007

Racconto: "Malattia avanzata"

MALATTIA AVANZATA


"Deponi il tuo mantello, pellegrino. - disse il vecchio - La notte è fonda, e ancora a lungo si dovrà vegliare".

L'oscurità della capanna contrastava stranamente con il chiarore dei lineamenti dell'ospi­te.

Buone parole e un tè caldo nella bufera per un vagabondo sperduto nella ricerca di una veri­tà.

Avevo bisogno di fermarmi, per riordinare le idee: la pioggia e il vento fa­stidioso non erano in realtà un problema, e il vecchio doveva averlo capito.

Avevo più che altro bisogno di un punto di riferimento, di un'autorità morale che non mi chie­desse né desse conto della so­lita realtà, ma che sapesse pronunciare una parola nuova, quella più difficile, non consumata dall'abuso del buon senso né dallo sgarbato berciare del torto che diventa ragione attraverso la ri­petitività o la so­praffazione.

"Le parole sono già scritte. Bisogna saperle scegliere, ana­gramman­dole forse, ma nulla più".

Dalla minuscola finestra potevo vedere il piccolo ponte di legno che sembrava confondersi con l'acqua nell'incerta luce am­brata che riluceva stranamente sul piccolo lago.

Mettere in fila le parole, anagrammare frammenti di senso. Le frasi si rincorrevano come in un vaneggia­mento mentre il sonno mi aggrovigliava i pensieri, alle soglie del sogno.

Ma il sonno era agitato, nonostante la stanchezza si doveva vegliare. Il vecchio sedeva da­vanti alla finestra, come attendesse qualche ombra che doveva pur venire, e ben lo si sa­peva.

Forse anche lui come me - senza volermelo confessare, per orgo­glio o, chissà, per riguardosa sollecitudine - aspettava il nume che gli desse il responso ultimativo risparmiandoci la pena di ri­mescolare i nostri destini fino alla totale confusione, alla pazzia, o all'estrema normalità. Ma un vecchio sa bene che per lui questo estremo responso altro non potrà essere che la morte. Questo aspettiamo tutti. Il chiarimento ultimo, la spiegazione definitiva che, dunque, tutti già conosciamo fin da principio.

E allora perché vegli, vecchio? Perché il mio sonno è tanto agitato e si confonde con i sogni che mi tengono desto?

Il mio ospite si era assopito, e ciò mi parve un rassicurante gesto di noncuranza, a risposta delle mie ansie si­lenziose. Fu in quegli che entrò dall'uscio il ragazzo. Poco più che bambino, dall'aria furbetta e condiscendente, come consumata dalle certezze dettate da un'acerba esperienza. Ma i gesti lo tradivano: con delicatezza coprì il nonno con una coltre di lana e gli impartì un'im­pacciata carezza sui capelli dormienti mentre se ne fuggiva lasciandogli a terra un canestro di pane e non so che altro.

Scivolò fuori, riguardandomi con quell'espressione beffarda che lo proteggeva dall'improv­vida fragilità di quel visino simpatico, senza ancora una parte da recitare.

"Il mio Cipollino" proruppe il vecchio in un improvviso mormorio intenerito che mal si con­ciliava con la sinistra solennità della notte incombente, con le sue promesse e le sue minacce di verità implacabili e vincolanti.

"Sai - soggiunse con voce forzatamente asciutta - per lui il responso definitivo verrà presto, forse prima che per noi".

Di colpo la prospettiva era mutata, le apparenze si erano ribaltate, gli stessi occhi non vede­vano più ciò che avevano visto prima.

Davanti a me avevo un vecchietto incerto e tremolante, e la Morte era entrata di contrab­bando, sotto mentite spoglie. Ecco l'anagramma, il senso in frantumi, l'estremo rimescolamento che produce verità attraverso la casualità e la dissimulazione.

Ma la notte era ancora lunga, il mattino lontano, occorreva vegliare ancora. Nessuno poteva più dormire, nessuno può mai dormire rischiando di rimanere all'oscuro dei prodigi sconvolgenti che giungono del tutto inaspettatamente.

Il vecchio, ad esempio. Ora sembrava nuovamente sprofondato in un sopore dolente, scosso da un respiro fattosi ruvido, incostante, frammentato da frequenti sussulti. Ma ormai sapevo che anche questa era un'apparenza mutevole e ingannatrice. Il mio ospite si riscosse assumendo nuova­mente un'espressione nobile e austera. Stavolta mi fissava non senza malinconia, ma mi trasmetteva tutta la rassegnazione di un vecchio che ha ormai assunto familiarità con la fine della vita, così co­me essa si manifesta agli sguardi atterriti di noi pellegrini frettolosi e superficiali.

"Mio giovane amico, lo scopo non può e non deve consistere nell'evitare la sofferenza. Ma presto mi dovrò risolvere a sopprimere il mio piccolo Cipollino, anche se un po' mi dispiacerà, do­po".

Un ghigno rugoso apparve nei suoi lineamenti nodosi, e l'orrore per l'improvvisa rivelazione mi risvegliò le palpebre che stavano per appesantirsi. Gli abiti logori del vecchio folle nasconde­vano dunque un'arma aguzza, un orribile e macabro segreto. Avevo fatto bene a vegliare, e quale rischio avevo corso.

Vidi le mani adunche afferrare il pane portato dall'ignaro fanciullo, poi spezzarlo con gesti malfermi. Si chinò lentamente, e dall'oscurità della stanza emerse un piccolo cane malconcio.

L'uomo intinse un pezzo di pane nel latte e lo offrì al cane che debolmente si nutrì e leccò la mano del padrone, il quale lo accarezzò delicatamente e ripeté il gesto più volte. Alla fine il cane si accucciò ai suoi piedi e il vecchio mi disse sommessamente, quasi non volesse farsi sentire dalla bestiola: "Povero piccolo, soffre molto, e quasi mi sento egoista, ma non ho il coraggio di mettere fine al suo dolore. Anche il mio piccolo Maurizio non vuole farlo. Gli porta il pane tutte le sere, prima di andare a dormire".

Di nuovo la mia mente venne risucchiata, stavolta da un dolce sprofondare simile all'ubria­chezza, illuminata da una saggezza folle da esaltato. Ora le certezze mi innalzavano e mi facevano precipitare, la mia pazza presunzione mi dava la sicurezza di non dovermi più confrontare con la molteplicità.

Il mio vecchio era sempre lì, nuovamente immutabile, non certo ignaro della mia confusione, della mia incapacità di vedere e capire.

"Non è cecità, - mi prevenne - tutto ciò che vedi è, ed è anche ciò che tu sei in quel momento. Vedere o no è relativo. I miei occhi si sono spenti da anni, probabilmente perché non ne avevo più bisogno. Forse, se ne avessi di nuovo la necessità, potrebbero riaversi, ma non penso che vedrei in tal modo più nitidamente di adesso".

Ecco un nuovo prodigio, pensai. Un nuovo anagramma in quella notte dai mille colori.

Lui mi guardava - ne sentivo la certezza - ed io di colpo capivo, ma non sapevo che cosa e, soprattutto, che farne.

Domani sarò di nuovo nel mondo strillante, non ci sarà più mistero né verità, solo chiasso e abitudine.

L'ospite dormiva profondamente. Perché non mi rispondi più, vecchio? La domanda vera è questa.

Ero solo e non avevo più sonno. Già, adesso toccava a me vegliare. La luna illuminava in pieno la finestra e il vento faceva vibrare leggermente i vetri sudici. La magia mi ipnotizzava, mille e mille volti mi fissavano. Ridevano, minacciavano, restano contratti in una smorfia inespressiva.

La folla si diradava. La luna immobile.

"La fine della giornata viene sempre. Il frastuono è insito nella luce del giorno. Non sta nei rumori, ma nel nostro palpitare".

Mi lasciai abbracciare da un refolo fresco che mi solleticò scanzonatamente e mi aggiustai la coperta, ormai gratificato. La veglia era finita.

La luna si scusò e tramontò in fretta oltre i riflessi del vetro. Io ristetti a lungo, assaporando per la prima volta il mio respiro nel silenzio.

Marco Laudiano, 18 Aprile 1992

(Tutti i diritti riservati)


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