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L'ombra è l'opposto del sole, ma si nutre di esso.
Un cielo grigio non genera ombre: nessun contrasto, nessun pensiero.


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martedì 17 febbraio 2015

Arlecchino

Nella illustre famiglia delle maschere della Commedia dell'Arte, Arlecchino è la più caratteristica e al tempo stesso la più enigmatica e complessa. Benché nato in provincia di Bergamo, la città del suo compare Brighella, il suo nome deriva dal medioevo francese: Harlequin, o Herlequin o Hellequin si chiamava un diavolo conduttor di diavoli nei misteri popolari del sec. XI. Così il Driesen, il più dotto studioso di questa maschera.
Ma non mancano altre etimologie, più ingegnose che sensate: da Erlenkönig, folletto della mitologia scandinava e germanica; da Alichino, diavolo dantesco che in realtà deriva dall'Harlequin francese, da Achille de Harlay, gentiluomo francese che protesse un comico italiano detto Harlayqino. Secondo altri il nome sarebbe il diminutivo di harle o herle uccello dal manto variopinto.
Anche per le sue caratteristiche esteriori e per il suo tipo si sono cercate origini remote e lo si è riavvicinato agli antichi fallofori, che si imbrattavano il volto di fuliggine e recitavano senza coturno, e al Bucco romano, grande mangione.
Ma l'uso di imbrattarsi il volto per far ridere è universale, e così pure il tipo del pappatore. Troviamo comunque, verso il Cinquecento, la maschera di Arlecchino già definita: parla bergamasco, ha una corta giacchetta e calzoni attillati, l'una e gli altri coperti di pezzetti di stoffa di vari colori messi senza ordine, un bastone alla cintura, barba nera e ispida, mezza maschera nera col naso camuso, berrettone alla Francesco I con una coda di coniglio ciondolante (l'appender code di coniglio di volpe o orecchie di lepre era nel medioevo beffa consueta).
Arlecchino nasce infatti sotto il segno della stupidità: una stupidità insolente, famelica che si addipana nei fili dell'intrigo dai quali si libera con salti acrobatici e botte alla cieca.
Nella seconda meta' del cinquecento fu proprio un Bergamasco, Alberto Ganassa di Oneta di San Giovanni Bianco che, dopo i brillanti esordi presso le corti dei Gonzaga ed egli Estensi, vesti' i panni di Arlecchino nientemeno che davanti ai Sovrani di Francia e di Spagna.
Nella Contrada di Oneta si trova la cosidetta casa d'arlecchino, un edificio quattrocentesco che conserva tutti gli elementi distintivi di un passato splendore e che e' destinato a diventare un museo della maschera e del teatro popolare. La casa era in origine fortificata, ma in seguito divenne un abitazione signorile. All'interno rimangono tracce di affreschi che ingentilivano pareti e che attualmente sono visibili presso la Canonica e la Chiesa Parrocchiale di San Giovanni Bianco.
Un affresco era posto anche sopra la scala d'ingresso e raffigurava un uomo irsuto e vestito di pelli che brandiva un nodoso randello a guardia dell'abitazione, come si deduce dalla scritta posta sul cartiglio: Chi non e' de chortesia, non intragi in chasa mia, se ge venes un poltron, ce daro' col mio baston.
L'edificio apparteneva ai Grataroli, una delle famiglie piu' potenti della Valle, originaria di Oneta, che nel quattrocento vantava a Venezia ricchezze e fortune.
E qui si innesta il riferimento ad Arlecchino; questa maschera vestiva i panni del servo balordo e opportunista, quale erano nella realta' i valligiani brembani dediti nella citta' lagunare a lavori umili e faticosi. Gli stessi Grataroli stabilitisi a Venezia avevano al loro seguito servitori Brembani ai quali affidavano anche la cura dei loro beni di Oneta.
Forse accadde che uno di tali servi, portato all'arte comica, abbia buffonescamente rappresentato sulla scena il ruolo da lui stesso ricoperto nella realta' quotidiana. Il ruolo iniziale si arricchi' di forme e contenuti, favorendo l'imporsi del personaggio Arlecchino, colorito di licenziosa e pungente comicita' che veniva apprezzata in quanto non oltraggiava l'orgoglio Veneziano, ma prendeva di mira il tipo del servitore Bergamasco, costretto ad agguzzare l'ingenio per questioni di soppravvivenza (dalla rete).
 

Il vestito di Arlecchino

Per fare un vestito ad Arlecchino
ci mise una toppa Meneghino,
ne mise un'altra Pulcinella,
una Gianduia, una Brighella.
Pantalone, vecchio pidocchio,
ci mise uno strappo sul ginocchio, 
e Stenterello, largo di mano
qualche macchia di vino toscano.
Colombina che lo cucì
fece un vestito stretto così.
Arlecchino lo mise lo stesso
ma ci stava un tantino perplesso.
Disse allora Balanzone,
bolognese dottorone:
'Ti assicuro e te lo giuro
che ti andrà bene li mese venturo
se osserverai la mia ricetta:
un giorno digiuno e l'altro bolletta!".

Gianni Rodari
 
 

escissi dai pensieri
i ricordi,
le mascherine di Carnevale,
bambini felici
e girovaghi,
io per me,
amo le cose di sole
ma i colori
sono adorabili...

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