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L'ombra è l'opposto del sole, ma si nutre di esso.
Un cielo grigio non genera ombre: nessun contrasto, nessun pensiero.


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sabato 24 marzo 2012

Su un muro di campagna


quasi come in un soffio
il vento appaga il respiro
e un fiato riprende vigore;
là dove sosta la mia anima
è verde accecante e dolce
di questa prima, vera, dolcezza
che nuova si spande e placa
il sordo furore si acquieta...


Andrea Zanzotto
Tutte le poesie


«Quando uscì La Beltà (1968), Eugenio Montale ne trovò l’autore “indubbiamente aumentato” rispetto al “posto di rilievo” da Andrea Zanzotto già tenuto “in quella”, soggiungeva ironicamente Montale, “che vien definita generazione di mezzo (non so quando cominci e quando stia per finire)”. Ciò che tradotto in chiaro, e aggiunta tutta la grossezza inerente a siffatte graduatorie, significa: il più importante poeta italiano dopo Montale», così iniziava la storica prefazione di Gianfranco Contini a Il Galateo in bosco (1978), come ci riferisce il prefatore Stefano Dal Bianco nella esaustiva introduzione al volume.
Le prime opere di Zanzotto lo avevano segnalato come uno di poeti più significativi della «generazione di mezzo», quella che veniva dopo i maestri Montale, Ungaretti, Caldarelli che avevano esordito negli anni Trenta e Quaranta. Dietro il paesaggio (1951), Elegie ed altri versi (1954), Vocativo (1957) sono libri di un brillante interprete della poesia del post-ermetismo, con alcune chiaroveggenze e prestiti dalla tradizione, ma nulla di più. Già si intravedono le tematiche base che faranno da fondamento della produzione maggiore: la problematica della bellezza, quella della natura e del paesaggio e, centrale, la problematica della destrutturazione dell’«io» poetico che va di pari passo con la degradazione del paesaggio. Ma il tutto è ancora dentro la tradizione. La tradizione non è ancora implosa.
È con La Beltà che la poesia zanzottiana cessa di essere un discorso innocente per il cui godimento c’è un lettore in carne ed ossa ad attenderlo, c’è un cavalletto (che sono i fogli bianchi del poeta) posto dinanzi al paesaggio etc.; non c’è più un poeta «onesto» che officia la liturgia di una poesia «onesta», di una poesia salvifica alla Luzi per intenderci; insomma, la poesia si è improvvisamente emancipata, è questa la sconvolgente scoperta del poeta di Pieve di Soligo. Per Zanzotto la poesia non può non assumere su di sé la struttura dell’artificio che domina nel mondo delle merci: la poesia è diventata una merce linguistica che vuole sottrarsi con tutte le forze alla propria condizione di merce, di vassallaggio alla funzione dell’«utile» e del consumo. La grande novità che l’opera zanzottiana mette in evidenza è che la forma-poesia è diventata una funzione del segno e che quest’ultimo indica un significante legato da un patto, da una convenzione, con l’altra faccia del segno che si chiama il significato. Il segno ha cessato di essere innocente, è diventato ambiguo, rivela il proprio carattere di artificio, indica una connotazione e non più il denotatum. Il segno, al pari di un feticcio linguistico, ammicca ad una assenza, ad una presenza che non c’è.
La poesia zanzottiana, che ha fatto ricetto della lezione lacaniana del significante, scopre il carattere di feticcio del segno linguistico, e lo carica di sottigliezze metafisiche e di arguzie teologiche, lo rende libero; parimenti, libera gli oggetti dalla loro schiavitù al significato (come avveniva nella poesia della tradizione) per ancorarli alla aerea leggerezza del significante: libera il segno linguistico dalla schiavitù dell’utile e dell’uso pratico per conferire loro il mandato di una libera leggerezza. È la forma-poesia che è diventata libera. E con la conquistata libertà la poesia zanzottiana scopre anche la propria vulnerabilità: cessa di essere intelligibile alla tradizione, rispetto alla quale essa assume una parvenza di inafferrabilità e di inintelligibilità. Ciò significa che la poesia zanzottiana deve rinunciare alle garanzie che venivano dal suo inserimento in una tradizione, grazie alla quale la poesia si poneva come ponte e saldatura fra presente e passato, vecchio e nuovo, ma fa della propria autonegazione la sua legge di sopravvivenza, in linea di continuità con i poeti romantici, verso i quali già Hegel aveva parlato delle loro esperienze come di un «autoannientantesi nulla». Non a caso i poeti di cui ricorrono continui rimandi testuali e riferimenti impliciti ed espliciti sono Hölderlin e Leopardi. La poesia zanzottiana erige così una inespugnabile fortificazione proclamando l’autodissoluzione e la propria invulnerabilità e impenetrabilità rispetto al regno della prassi dell’utile e del pratico. È questo il prezzo che la poesia zanzottiana deve pagare alla modernità: la poesia si sottrae alla tirannia dell’economico e all’ideologia del progresso, non ha altro fine all’infuori del significante, non può essere soggetta né alla curiosità della critica turistica né a quella di matrice utilitaristica. Da un altro versante, invece, la resistenza al progresso renderà la poesia zanzottiana sempre più penetrabile alle esigenze della modernizzazione linguistica richiesta dallo sperimentalismo. È questo il nodo attorno al quale si imbriglierà la poesia zanzottiana a venire, l’essere la modernizzazione linguistica della forma-poesia un riflesso e un aspetto della modernizzazione del Moderno.
Con La Beltà la poesia zanzottiana attinge un altissimo grado di astrazione e di de-letteralizzazione, si ipersemantizza, si carica di segni che manovra con una stupefacente versatilità ed abilità. Lo sperimentalismo giunge così, d’un colpo, al vertice delle sue possibilità espressive. Il 1968 è una data spartiacque, e non solo per la poesia italiana ma per la società tutta: il boom economico è ormai una realtà, e con esso anche la poesia italiana inizia quel complesso percorso che la porterà a ragionare in termini di modernizzazione del linguaggio poetico e di rapporto con il Moderno.
L’intangibile e l’inafferrabile per la poesia di Zanzotto è il segno linguistico, il significante.
Che cos’è che si sottrae al regno del significante? L’immobilità della natura costituisce l’hypokeimenon, il sostrato immutabile che giace al di sotto della mutevolezza dei significanti, ciò che resta intangibile e inalterabile se non sottoposto allo sfruttamento intensivo della macchina del Moderno.
Con Il Galateo in Bosco (1978) la lingua di Zanzotto si è stabilizzata, la rivoluzione linguistica è già alle spalle, non sarà più possibile andare avanti per la via tracciata da La Beltà. Scrive il prefatore: «dal punto di vista dell’autore l’Ipersonetto è anche una fase di felice ripiegamento nel borbottio rassicurante del canone. Esso nasce da quella stessa pulsione liberatoria che genera l’esplosione comunicativa di Filò (1976): un bisogno di riposo dopo gli eccessi di agonismo linguistico della trascorsa stagione poetica».
Le opere che seguiranno: Fosfeni (1983), Idioma (1986) e, ancor più, Meteo (1996), segnano le tappe di un progressivo smottamento del soggetto che è costretto ad accusare il colpo dello scacco dell’utopia di una ecologia della natura e di una ecologia della mente. Lo sperimentalismo zanzottiano perde carburante mentre perde il soggetto che doveva guidare il processo della scrittura poetica; ma è la scrittura poetica che subisce un processo di mutismo indotto dalla violenza dello sfruttamento intensivo della natura. Il paesaggio è diventato una utopia. La minaccia al paesaggio si è mutata nel frattempo in autentico eccidio della natura, in una «devastazione». Con le parole del poeta di Pieve di Soligo: «uso la parola devastazione perché si ha una proliferazione-metastasi di sopravvivenze distorte, di sincronie e acronie velenose, di rovesciamenti di senso pur rimanendo identico il segno, ed è stato, per altro, proprio sul finire degli anni Ottanta che si è palesata la corruzione». Le composizioni assumono la forma di diari di eventi atmosferici senza soggetto, vedute aeree, impressionismo e pointillisme dove il soggetto è visto come se fosse situato all’esterno del quadro, un estraneo rispetto agli eventi della storia della natura (che tende a sottrarsi al soggetto, a non essere più percepibile se non in una forma adulterata). Le figure umane tendono a scomparire, adesso ci sono i morti che abitano una parte del paesaggio naturale, anzi, sono una funzione del paesaggio come in Sovrimpressioni (2001); nel libro successivo Conglomerati (2009) la terza persona e la forma impersonale prendono del tutto il sopravvento sulle residue vestigia del soggetto il quale non è più in grado di raccontare granché, non ha più il punto di vista da cui osservare:
il significante ha guidato l’utente
l’ha pilotato in begli scioglilingua
sciogli niente.
È la presa d’atto di un lunghissimo percorso iniziato sessant’anni prima che si è rivelato un vicolo cieco. È forse questo il momento più doloroso della parabola di Andrea Zanzotto, l’aver toccato con mano che la rivoluzione linguistica operata sul linguaggio poetico si è risolta, ha avuto (e ha) un senso soltanto all’interno del linguaggio poetico, quel linguaggio poetico che le nuove generazioni di fine Novecento tenteranno di mettere tra parentesi per poter ricominciare a narrare in versi.
A questo punto, noi lettori posti negli anni Dieci, non possiamo non chiederci: la parabola poetica di Zanzotto che significato lascia alle nuove generazioni che sono nate nel bel mezzo della rivoluzione telematica e nella susseguente epoca della stagnazione economica e stilistica? Qual è il suo messaggio? Quale testimone ci lascia?
Domande inquietanti alle quali soltanto il futuro potrà rispondere.
Giorgio Linguaglossa (dalla rete).


Colloquio

"Ora il sereno è ritornato le campane suo-
nano per il vespero ed io le ascolto con
grande dolcezza. Gli ucelli cantano festosi
nel cielo perché? Tra poco è primavera i
prati metteranno il suo manto verde, ed io
come un fiore appassito guardo tutte que-
ste meraviglie."

SCRITTO SU UN MURO DI CAMPAGNA

Per il deluso autunno,
per gli scolorenti
boschi vado apparendo, per la calma
profusa, lungi dal lavoro
e dal sudato male.
Teneramente
sento la dalia e il crisantemo
fruttificanti ovunque sulle spalle
del muschio, sul palpito sommerso
d'acque deboli e dolci.
Improbabile esistere di ora
in ora allinea me e le siepi
all'ultimo tremore
della diletta luna,
vocali foglie emana
l'intimo lume della valle. E tu
in un marzo perpetuo le campane
dei Vesperi, la meraviglia
delle gemme e dei selvosi uccelli
e del languore, nel ripido muro
nella strofe scalfita ansimando m'accenni;
nel muro aperto da piogge e da vermi
il fortunato marzo
mi spieghi tu con umili
lontanissimi errori, a me nel vivo
d'ottobre altrimenti annientato
ad altri affanni attento.

Sola sarai, calce sfinita e segno,
sola sarai fin che duri il letargo
o s'ecciti la vita.

Io come un fiore appassito
guardo tutte queste meraviglie

E marzo quasi verde quasi
meriggio acceso di domenica
marzo senza misteri

inebetì nel muro.

Andrea Zanzotto
 Vocativo 

2 commenti:

  1. Sul muro ancora tante parole non dette
    quando ancora ridevano gli amori.
    Non io, ma tu ancora,
    nel cuore
    e nella mente voci e suoni
    di secoli passati.
    Capace di sogni ancora sono
    e non lontano dall'alba
    il tramonta lambisce memorie e ricordi.....
    "poesieinsmalto"

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  2. Amnamaria,

    questa poesia di Zanzotto mi piace moltissimo.

    Gujil

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