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L'ombra è l'opposto del sole, ma si nutre di esso.
Un cielo grigio non genera ombre: nessun contrasto, nessun pensiero.


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lunedì 28 dicembre 2009

Torri di Amitar

- Siedi, Principe, siedi.
Quelle scarne parole invasero la sala del trono come un torrente impetuoso.
Alle pareti gli arazzi inondati dall'ultima luce della sera luccicavano di dorati riflessi e le armature ombreggiavano tristi, come stanchi cavalieri, negli angoli della stanza reale.
- Dimmi, Vecchio, vedrò mai il sorgere del sole? - domandò il giovane Principe mentre con la mano sinistra accarezzava distrattamente i suoi fini vestiti di raso.
La mano destra, appoggiata al davanzale di marmo levigato dell'immensa finestra, reggeva lo sguardo perduto tra le nuvole basse sull'orizzonte oltre il contorno imbrunito della foresta.
- Principe Larim, hanno nome i suoni delle creature nottur­ne?
Hanno anima gli interminabili voli dei sogni?
- Vecchio, alle mie domande rispondi con altre domande; che storia è questa?
- Tu conosci l'uomo, - gli rispose il vecchio - conosci l'uomo. Non essere irritato con me, o Principe, sono solo un povero vecchio il cui unico pregio è quello di avere vissuto fin troppo a lungo. Tu ancora non puoi sapere ma assai greve è il peso del tempo.
Corrugando la fronte il Principe Larim distolse lo sguardo dalle nebbie sottili che stavano salendo dal lago e si accomodò con fare aggraziato sul trono regale incastonato di gemme preziose.
Le sue lunghe dita, tamburellando sui braccioli del seggio, indugiavano spesso a seguire i profili arrotondati delle fantasiose figure istoriate nel legno.
Seguì con gli occhi i misurati movimenti del vecchio e si chiese da quanto tempo lo ricordava tale e quale lo stava osservando.
Non seppe rispondersi ma tracciò velocemente con la mente in rassegna mnemonica i loro ultimi incontri.
Gli piaceva quell'uomo.
Lo sentiva vicino.
Quando lo interpellava raccontandogli i suoi sogni diurni non lo sorprendeva mai a scomporsi ma dentro di sè ben sapeva che l'uomo lo stava ad ascoltare con incredibile attenzione.
Quanto era vecchio?
Non se lo era mai chiesto.
Quel buffo pensiero gli pervase prepotentemente la logica del ragionare; scrollò il capo.
Non se lo era mai chiesto...
Di colpo ricordò in modo chiaro e schematico la notte di luna piena in cui quell'uomo comparve a lui come d'incanto, coperto da un violaceo mantello logoro.
- Vengo a portarti il colore. - gli disse e fu allora che Larim di Amitar aprì la sua porta di bronzo e, senza timore, lo fece entrare a palazzo.
Da quella lontanissima sera il vecchio lo aveva sempre assistito nelle sue veglie notturne, nei suoi tristi cammi­ni.
- Sei ancora qui mio Principe?
Brusco ritorno al reale, ma consueto.
Il Principe annuì distrattamente col capo, si rialzò e mosse i suoi passi verso la vicina finestra.
La fredda aria notturna cozzò contro il pallido volto provocandogli brividi spiacevoli in tutto il corpo.
- Sono ancora con te.
Fuori le cento torri di Amitar svettavano nel buio.
Ad ovest, la torre più alta, nascondeva alla vista del Principe una debole falce di luna.
- Vedrò mai, Vecchio Ulmer, il sorgere del sole?
- Quante sono le stelle dell'universo, Principe Larim? Quante le strade che conducono a Dio?
Ancora deve venire il tempo delle tante risposte.
Osserva quella falce di luna dietro la tua torre più alta; è lei la signora del cielo?
Detto ciò il vecchio abbozzò un paterno sorriso che Larim non colse.
Il giovane Principe era di nuovo lontano.
L'ululato del lupo percorse le valli del regno e piano si spense. Ai sensi del Principe arrivò come un'eco lontana.
Ormai il latteo riflesso della luna aveva riempito l'ampio diametro del prezioso vassoio di argento massiccio, regalo di chissà quali altri Re, posto al centro della parete est del salone.
All'esterno tutto taceva.
- Quale triste visone nei tuoi occhi, o mio grande Principe?
- Vecchio, non voglio domande e non odo risposte.
- C'è un tempo per tutte le cose giovane Larim, - disse il vecchio con voce addolcita e suadente - una tempesta mai non dura in eterno perchè tempesta è vento e vento altro non è che portare tempesta lontano.
Ogni cosa si crea e tutto deve essere distrutto per ricre­arsi di nuovo.
E' questo l'ultimo, immutabile fine.
La fiera che attacca ed uccide il bestiame è a sua volta scovata ed uccisa dai cacciatori.
La pesante minaccia della morte incombe in ogni luogo e puoi riconoscerne l'alito negli occhi di chi ha a lungo vissuto.
Ma morire è un pò come nascere.
Nascere è vita.
Non si può morire se non si è mai nati.
- Quali dure sentenze mi dispensi buon Ulmer. - commentò Larim - Ti chiedo risposte e tu mi parli di morte.
E' forse che io debba morire per poter vedere sorgere il sole?
A quella domanda il vecchio, come sempre, non dette rispo­sta, reclinò il capo in avanti come quando, spossati, ci si vorrebbe addormentare seduti e sembrò vinto dal torpore.
Il Principe tornò ai suoi pensieri.
Gli odori del bosco soavi aleggiavano sui viali in rovina dell'austero palazzo tracciandovi misteriosi sentieri che mai corpo d'uomo avrebbe saputo seguire.
Dove un dì era splendore e grandezza ora il fiato pietoso del tempo stava tessendo la sua impalpabile tela.
- Che notte è mai questa, o mio Ulmer, di colpo sento il cuore schiantarsi nel petto e ad ogni battito l'ansia in me cresce come una marea inesorabile.
Nessuna ferita fu mai così lacerante e straziante; ho nel corpo mille ferri roventi a dilaniarmi la carne.
Può, Ulmer, un Re perire per ciò che io provo?
Dov'è la mia guardia?
Dov'è il mio cavallo? che io lo possa montare e nuovamente roteare la spada per affrontare questo strano nemico.
Ho arrossato la terra con la linfa vitale di chi ha osato osteggiarmi, ho disarcionato, in tutti i tornei, cavalieri di paesi lontani ritenuti imbattibili.
Cavalcai molte lune per raggiungere la mitica rocca di Eisther, da solo ne scalai la scogliera incantata ed apposi sulla torre più alta i colori del mio vessillo.
Ed ora io, Larim di Amitar, Signore dei regni del Nord, sento crescere in me questa furia impotente che dilaga riempiendomi il petto.
Parla, Ulmer, dimmi se è questa la notte così che io possa sapere e cullarmi l'idea.
- Non posso, mio Principe, dai segni non ho avuto chiarezze, solo immagini vaghe.
Pazienta.
Il giorno è ancora lontano.
Dopo quelle ultime parole una folata di gelido vento riportò nella sala il silenzio.
Il piccolo carro, nella volta celeste, aveva percorso altra strada...


Amitar, pallido astro del mondo dalle cento alte torri
con gli spalti rivolti alle deboli luci dell'aurora boreale.

Amitar, città di grandi ricchezze e affascinanti misteri;
passaggio obbligato del Nord,
fontane che sprizzano inestimabili gemme,
laghi dorati dai riverberi di sole.
Amitar, sconfinate distese di maestose conifere,
stracolme di selvaggina e briganti, regno di penombre e
chiaroscuri soffusi.
Amitar, centro del nulla, cammino tortuoso e insicuro
per la ricerca instancabile dell'eterno viandante, volo
perpetuo degli uccelli di passo.
Amitar, patria di gioie intensissime e di grigi dolori,
porto di navi fantasma con carichi di aromatiche droghe
d'Oriente.
Amitar, terra di tutti e terra per nessuno.
Amitar.
Amitar e Larim, Principe regnante di Amitar.



Ulmer, assorto, non stava dormendo ma con attenti sguardi studiava il vagare irrequieto e nervoso del giovane Principe.
Lo seguì nell'irregolare percorso attendendo il momento opportuno per proferirgli parola; lo colse nell'attimo in cui la furia di Larim sembrò per un istante essersi placata.
- O giovane Re, - cominciò - faresti erigere nuove torri da aggiungere a tutte quelle che già ora possiedi?
Il Principe, per nulla meravigliato da quella domanda, si limitò ad assentire.
- Adesso, oltre la tua grande finestra, è notte profonda - continuò il vecchio Ulmer - e Amitar sembra che dorma del sonno dei giusti.
Non senti il silenzio percuoterti i sensi?
Larim porse attenzione al richiamo del buio ma nemmeno il più piccolo suono giunse a contraddire le parole di Ulmer.
- Lo sento, - rispose - è un lieve e continuo ronzio, è come il suono che da bambino udivo accostando al mio orecchio le grandi conchiglie marine.
Eppure è diverso.
Ora è presente ma so che non lo posso fermare.
Cosa mi accade buon Vecchio, è forse che il mio presente di uomo stia subendo influenze malefiche?
Perchè questa ansia mostruosa nell'attendere?
Detto ciò si fermò per trarre un profondo respiro, poi continuò:
- Ricordi quando alla caccia del cervo mi staccai dal gruppo spronando, incitandolo, Imbrel?
Galoppammo a perdifiato fino al margine dalla verde vallata per tagliare la strada alla preda e all'improvviso noi fummo preda e l'intreccio dell'adorata foresta si fece intricata tela di ragno ed ogni albero protese i suoi lunghi rami ad impedimento della nostra ricerca.
Allora provai la paura e cercai di aprirmi la strada con la lama affilata e tagliente della mia spada ma più mi accanivo sbracciandomi più il cammino si faceva arduo ed i varchi appena aperti si richiudevano alle mie spalle.
Scesi dal mio cavallo e notai dense spire di vapori grigiastri sgorgare dal terreno a nascondere le mie stesse orme, faticai a trattenere l'impaurito Imbrel a maledii con parole infuocate la mia terra.
Quanto tempo vagai solitario con il volto graffiato dalle appuntite spine dei rami?
Si susseguiva il tetro paesaggio con monotonia stressante ma il mio orgoglio mi impediva di cedere al terrore nascente.
Continuai con caparbia follia ed il braccio era stanco e spossato.
Persi il senso del tempo e dello spazio ma giunsi all'ampia radura sul ripiego del crinale.
Il colore dell'erba tendeva all'azzurro, là vidi il cervo che stavo inseguendo.
Era un animale superbo dal mantello rubino; brucava tranquillo la tenera erba inzuppata di rugiada.
Nel silenzio più teso potevo ascoltare il mio ansimare rabbioso.
Con cura incoccai la freccia mortale e puntai il mio arco mirando al suo cuore.
Quando il cervo sollevò la testa e mi vide lasciai partire lo strale assassino.
Seguii con occhi attenti la traiettoria del mio messaggio di morte e la vidi sparire nel nulla.
Riprovai più e più volte, l'animale non cercò di fuggire, si limitò ad osservarmi.
Quando non ebbi più dardi impugnai il coltello da caccia e mi gettai su di lui.
Alla fine del balzo strinsi stupito ciò che di lui era rimasto: solo il vuoto.
Quelle che a me non erano parse che poche ore, al mio ritorno ad Amitar, si rivelarono giorni.
Ci furono altre battute ma più non rividi quello strano animale nè quella radura se non nei miei più terribili incubi.
- Ricordo quell'avventura, - Ulmer rispose - non avesti più pace da allora ed Amitar non fu più la stessa.
Ti vidi sprecare stagioni in ricerca affannosa di un qualunque senso; ti seguii quando scovasti Alicantor il predone e lo uccidesti sulla vetta della catena delle Rehor.
Per la prima volta il saggio Signore del Nord non concedette pietà a chi, nel nome di chissà quale lontano Dio, gliela chiese implorando.
Ti vidi dare la morte, Larim, vidi il tuo volto mutare espressione e la tua spada abbassarsi e colpire.
- Taci Vecchio, mi stai ricordando cose per cui io ancora provo profonda vergogna.
Ciò detto Larim si rimise a sedere, le parole di Ulmer sapevano colpire nel segno con precisione incredibile.
Di nuovo vinse il silenzio.
Di tanto in tanto le palpebre del Principe si abbassavano lente per poi, a scatti fulminei, riaprirsi.
Il sonno, troppo a lungo trattenuto lontano, si stava avvicinando al corpo e alla mente del Sovrano di Amitar.
Larim lottava contro la stanchezza ed il desiderio di abbandonarsi tra le braccia del sonno che dispensa ristoro.
- Dormi mio Principe? - arrischiò il vecchio con un filo di voce.
- No, - Larim rispose - ma grande fatica è conservare lucidità nello scorrere dei pensieri.
Immagini di momenti diversi si mescolano tra loro, confondendomi, a darmi strani quadri di insieme.
Così forte è il sonno Ulmer?
- Più di quanto tu possa immaginare. - sospirò il vecchio Ulmer - L'ho visto raggiungere e sconfiggere uomini molto più forti di te con le sue braccia di niente.
Viene il sonno quando il corpo fatica a produrre scintilla vitale, viene per ridare speranza e vigore.
In questo caso il sonno è riposo e lievi carezze sono i suoi sogni più belli.
Ma sonno può essere anche immenso terrore di incubi cupi.
Come vedi, Principe Larim, ciò che ora tu temi ti prenda può piacevolmente soggiogare e cullare così come è anche capace di minare fisico e mente con messaggeri spettrali.
C'è gente che dice sia come la morte.
- Parlami ancora Ulmer così che, ascoltando i tuoi racconti, io possa rimanere sveglio, vigile e attento.
Così disse Larim, Signore di Amitar, con le palpebre ormai completamente abbassate sulle stanche pupille ed il lungo respiro sempre più regolare.
- Come tu vuoi, o Principe, - rispose il vecchio Ulmer - continuerò a parlare affinchè tu possa rimanere sveglio.
Volavano le parole di Ulmer tra i pensieri confusi di Larim e sulle torri di Amitar, racconti a seguire racconti.
Il tempo, fedele al suo corso, inesorabilmente scorreva.
- E' questa la notte mio Principe! - urlò il vecchio ad un tratto stralunando lo sguardo nel vuoto.
A quel grido improvviso l'intero essere di Larim venne scosso da un incontrollabile fremito.
Il Principe, come una belva ferita, proruppe in un tremendo ruggito che echeggiò lungamente tra i corridoi deserti dell'immenso palazzo.
Staccò con un gesto di rabbia la sua spada, corrosa dagli anni, relegata in un angolo del grande salone.
Con corsa furiosa Larim uscì dalla stanza e, di lui, per un brevissimo istante non rimase altro che la debole luce della torcia che teneva alta nella mano ad illuminargli il percorso.
Ulmer stava piangendo.
Come schiacciato dal peso dei suoi tanti anni il vecchio faticò ma riuscì a trascinarsi presso la grande finestra e, con lo sguardo rivolto agli spalti della torre più alta, si adagiò stanco in posizione di attesa.
Lui sapeva cosa sarebbe successo.
Da tempo sapeva.
Poco dopo dal basso cominciarono a levarsi i colori rossastri del fuoco, dapprima come brevi bagliori, poi, via via, sempre più intensi e luminosi.
Amitar, nel buio, man mano che l'incendio divampava, sembrò risplendere nuovamente di vita.
Le lunghe lingue di fuoco parevano flessuosi ed eleganti guerrieri al cui tocco ogni cosa andava distrutta.
La città, avvolta completamente dalle fiamme, si accese come un piccolo sole.
Nella notte le cento alte torri si mutarono in fiaccole enormi, dita di fuoco protese nel cielo.
Sulla sommità della torre più alta apparve la figura del Principe Larim.
Troneggiò, l'austero aspetto del Principe, sulla sua amata città.
- Ulmer! - Larim gridò e le sue parole sovrastarono il fragore dell'incendio - Questa è la notte? Guarda! - urlò additando l'orizzonte.
Ad Est, lungo il profilo tranquillo del mare, le prime luci dell'alba.

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