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L'ombra è l'opposto del sole, ma si nutre di esso.
Un cielo grigio non genera ombre: nessun contrasto, nessun pensiero.


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lunedì 22 dicembre 2008

Il maggiolone rosso


Tommy si svegliò prima del papà.
L’orologio coi numeri rossi diceva che era mattino. Eppure il cielo era ancora scuro, come di notte.
Lui conosceva i numeri, fin da piccolo. Glieli aveva insegnati il suo papà, mentre frequentava la scuola dei bimbi. Ora era grande, faceva la seconda elementare.
Ma la scuola dei bimbi Tommy se la ricordava bene. Si chiedeva ancora perché la chiamavano materna. Lui sul fatto che ci fosse là una mamma per chi era sprovvisto ci aveva un po’ contato. Da piccolo.
Invece ci aveva trovato solo signorine più o meno buone, che si chiamavano educatrici.
A papà piacevano le educatrici. E pure le maestre uniche, doppie e triple, titolari di cattedra o supplenti, a scavalco o a moduli, d’inglese, musica, ginnastica, religione e di sostegno e tutte le altre che giravano nella sua classe, durante il giorno. I loro nomi non se li ricordava nemmeno tutti.
Quando papà parlava con loro, a tratti sorrideva. A tratti invece si faceva serio, abbassava la voce e non si capiva che cosa bisbigliava.
Tommy temeva fossero i suoi segreti. Come la pipì che scappava di notte, che proprio non se ne accorgeva. O le unghie rosicchiate davanti alla tivù. O i piedi puzzolenti, quando teneva le scarpe da ginnastica per tutto il giorno. O i calzini dell’Uomo Ragno, quelli coi buchi. Che erano anche il motivo per cui non si toglieva le scarpe. D’altra parte il papà con il rammendo non ci sapeva fare. Poi, a lui, quei buchi piacevano. Da dentro la scarpa esplorava con il dito grosso. Immaginava che il pollicione fosse un feroce verme scavatore, uno di quelli enormi, coi denti acuminati, che dormono da mille milioni di bilioni e centoventi anni e sei nelle sabbie dei deserti. Un giorno arriva un petroliere scemo e li sveglia. E quelli sbucano fuori e si pappano vacche, cowboy e trivellatori. «Ecco» pensava Tommy «un giorno il mio alluce sbucherà e mangerà qualcuno. Zap! Del nemico resteranno solo le scarpe. E magari i calzini, se puzzano come i miei».
Non è che in giro ci fossero molti nemici. In realtà non c’era proprio nessuno.
Tommy e suo papà vivevano in una casa grande, su un piano, fuori dal paese. Tutt’attorno c’era un giardino bellissimo. Lì si stava bene, soprattutto d’estate. Il nonno aveva piantato dei pini, che con gli anni erano diventati immensi. Ed erano rimasti, anzi erano cresciuti ancora dopo che il nonno se n’era andato. I pini facevano ombra e lasciavano per terra tanti aghi che formavano un tappeto.
A volte sganciavano pigne pericolosissime, senza preavviso. A Tommy era capitato di beccarne una in testa, l’autunno passato, e non era stata un’esperienza piacevole. Aveva pianto, ma poco. Perché il papà gli aveva detto che gli uomini non piangono mai. Non si devono lamentare. Soprattutto quelli piccoli, come lui, con quelli grandi, come il papà. E che il dolore fortifica. E comunque piangere non fa sparire i bernoccoli. Né le sbucciature sulle ginocchia
Non aveva pianto più. Dalla botta autunnale, però, ogni volta che passava sotto i pini, guardava in alto. Pronto a scansare le bombe.
Con le pigne cadute costruiva castelli, proprio sopra gli aghi. Ogni pigna, una torre. Lì si aggiravano un sacco di formiche e immaginava che fossero guerrieri sul campo di battaglia, pronti a rifugiarsi tra le mura in caso di attacco.
Di attacchi gli armigeri rizzaculo ne subivano. Su più fronti.
Calavano merli affamati e anche il pettirosso. E c’erano in giro un paio di ricci che facevano razzia nel formicaio. Quando li incontrava, verso sera, Tommy li faceva arrotolare su se stessi, come palle spinose. «Farà più male un porcospino o una pigna?» si era chiesto. Ma il problema non sussisteva, avrebbe detto papà, dato che i ricci non avevano la minima vocazione al salto. Non si era mai visto che si arrampicassero sui pini per poi lanciarsi di sotto.
«In Natura non avvengono cose inutili, ricordatelo!». Papà riusciva a pronunciare Natura con la enne maiuscola. Tommy la sentiva proprio, quella enne.
Così, negli anni, la Natura per Tommy aveva assunto le fattezze di una signora gigantesca, un po’ in carne, decisamente antipatica e per niente interessata a lui e ai destini dei suoi simili. «Se ne sta lì nel suo trono di montagne e di muschio. Il massimo dell’attività è grattarsi, quando uno stambecco le fa solletico con le zampe o si lima le corna su qualche spuntone di roccia» pensava il bambino. «E la rimbambita non si accorge neanche che, invece di fare la loro vita tranquilli come le formiche negli aghi di pino, gli uomini le stanno minando il piedistallo. Crollerà, prima o poi, e ci schiaccerà tutti».
Questa riflessione catastrofica, all’inizio della seconda elementare, Tommy l’aveva espressa in una verifica scritta. Il titolo era: “Le gioie della natura”. E il suo svolgimento era stato, in sintesi: “Ci ha poco da gioire, la matrigna. Farebbe bene a guardarsi sotto i piedi”.
L’insegnante aveva fatto chiamare il papà.
Era stata una di quelle volte in cui papà aveva riso prima, poi aveva abbassato la voce. E la maestra Vittoria, quella con la gonna corta, gli aveva toccato il braccio, come a dirgli: «Su, coraggio! Ce la può fare».
Papà non l’aveva punito. Anche perché la storia della matrigna gliela aveva raccontata lui. Era un’idea di un suo amico, uno che scriveva, ma più morto del nonno, cioè morto da molto più tempo, da quello che aveva capito. Si chiamava Giacomo. E papà ci andava matto, per le sue poesie.
Dunque, visto che in qualche modo la pensata rimandava al mitico Giacomo, invece di una punizione Tommy aveva ricevuto un regalo.
Una meravigliosa macchinina rossa. Era un modello in miniatura di un vecchio maggiolone. Si potevano aprire le portiere e anche il cofano. Il volante si girava e si muovevano le ruote, tutte cromate. Così il paraurti, lucido lucido, e i fanali. Tommy la trovava bellissima. Faceva accomodare a bordo anche degli stecchi di legno. «Manichini per i crash test» aveva spiegato al papà, dopo un impressionante documentario sui danni della guida senza cinture, che entrambi si erano sorbiti, passivamente, una domenica dopo pranzo.
Tommy giocava con il maggiolone ogni giorno, in giardino, per lo più. Gli piaceva far correre l’auto sulle dune di aghi di pino. Quando avvistava le pigne fortezza, rimaste lì dal gioco precedente, faceva commentare all’ipotetico guidatore: «Voilà, les chateaux de la Loire!» Anche quella frase era l’eredità di un documentario televisivo. Fascia tardo-pomeridiana, quando quelli che non si muovono dalla loro poltrona viaggiano attraverso il video, in posti lontanissimi. Senza sapori, però, senza odori se non quello di minestra, che arriva dalla cucina.
Anche quel pomeriggio, Tommy era stato fuori con la macchina. Ma a un certo punto, non ci aveva visto più. Perché i giorni si stavano accorciando e il freddo si faceva sentire, pungente.
Il papà l’aveva chiamato con un tono bellicoso. E il bambino era corso verso la casa, lasciando il maggiolone fuori, sul vialetto.
Poi era venuta l’ora di cena. Tommy aveva mangiato, ma di malavoglia. Sentiva qualche brivido, però non l’aveva detto a papà. Al momento della nanna, si era schiantato sul suo letto grande e si era addormentato di colpo, stanco per le ore di gioco, all’aria aperta.

Adesso che era sveglio, si sentiva ancora strano. «Magari sono malato» pensò, mentre scostava le coperte coi piedi e si alzava per andare in bagno. Il pavimento era gelato, sotto i piedi nudi. Dalle fessure nella tapparella, filtrava un insolito chiarore. E c’era un gran silenzio. Si avvicinò alla finestra, per guardare fuori.
Neve! Durante la notte era caduta un sacco di neve. Aveva coperto il prato, i pini erano come vestiti, con un cappotto pesante e bianco. Il vialetto non si distingueva nemmeno.
«Il vialetto!» esclamò Tommy, realizzando all’istante che la sera prima ci aveva dimenticato il maggiolone.
Indossò i vestiti, le calze dell’Uomo Ragno e anche un altro paio belle grosse, sopra, per non sentir freddo con gli stivali di gomma. Si mise due felpe, infilandosele nei pantaloni, per coprire la pancia.
Poi giacca, cappello e fuori, socchiudendo la porta di casa senza far rumore.
Faceva freddo davvero e la luce era fioca. Più che dal cielo, grigio, sembrava arrivare dalla neve attorno. La superficie era compatta, senza segni. «Mi sa che il gatto dei vicini non è venuto a fare il suo giro, stamattina».
Ma non voleva distrarsi con le orme degli animali. L’obiettivo era ritrovare la sua macchinina.
Avanzò qualche passo, a fatica, con gli stivali che affondavano e la neve che ci si infilava dentro. «Sarà sotto la collina» ipotizzò. Tommy si fermò un attimo, davanti al dosso che gli si parava davanti. «Ma qui non c’è mai stata una collina!».
Era alta circa un paio di metri, tondeggiante. Provò ad affondarci una mano, senza guanto. Sotto c’era qualcosa di duro e freddo.
Tolse un po’ di neve. Apparve una superficie rossa, lucida. Tommy si diede da fare. In pochi minuti, aveva liberato una fiancata e un finestrino. Ora capiva di cosa si trattava e non riusciva a trattenere l’entusiasmo: un maggiolone rosso, simile al suo. Ma grande grande. Un’auto vera!
Riuscì ad aprire la maniglia e salì a bordo. I lunotti erano ancora coperti di bianco.
Il bambino guardò il cruscotto. Una chiave d’argento era già inserita nella serratura. La girò.
L’auto si avviò borbottando. Tommy alzò una leva e il tergicristallo spazzò, in un colpo, la neve dai vetri davanti. Quella sul fianco destro si stava piano piano sgretolando e scivolava verso il basso, per le vibrazioni del motore in folle.
«E adesso? Sono piccolo per guidare. Com’è che fa, papà?».
Appoggiò la mano sul cambio. Il pomello si spostò, da solo, in avanti.
L’auto si stava muovendo, lentamente. Emerse dalla neve e arrancò sul vialetto. «Meglio di un Suv» esclamò Tommy, appoggiando le mani con fiducia sul volante. Era gelido, ma si scaldò subito.
La macchina procedeva lungo il vialetto senza fatica. La leva delle marce si spostava da sola: seconda, terza. L’andatura era lenta, senza scossoni, verso il cancello di uscita. Era aperto. Il maggiolone lo infilò, sicuro.
A Tommy sembrava di viaggiare sulla superficie della neve. Lui impugnava il volante, l’auto procedeva in autonomia, in quarta, assecondando le minime pressioni delle dita.
«Voglio far vedere questa meraviglia ai miei amici!». Bastò dirlo, perché il mezzo accelerasse leggermente e dalla via secondaria su cui stava procedendo s’immettesse in una strada più grande. Non c’era in giro nessuno. Sembrava che la nevicata avesse trattenuto tutti gli abitanti della zona nelle loro case. E quelli che passavano di solito, diretti altrove, avevano scelto vie più battute, percorse dagli spazzaneve.
Al bivio successivo, il maggiolone svoltò di nuovo in una via laterale.

“Qui abita Jos!”. Il bimbo riconobbe la cascina decrepita dove viveva il suo amico senegalese e la sua famiglia. Jos aveva tre fratelli e una sorella, più grandi, che lavoravano già. Lui invece andava a scuola con Tommy. E stava bene, diceva, perché dove c’era lavoro per tutti c’era da mangiare anche per lui, che era un bambino. In Italia i piccoli andavano a scuola. E non lavoravano. Almeno, non molto. Lui si sentiva italiano e lo parlava bene, l’italiano. Molto meglio di tutti i suoi parenti. Il suo impegno era l’aiuto al papà, la sera, per i mestieri di casa. Non nel senso di pulire. A quelli pensavano soprattutto la mamma e la sorella. Erano i lavori di manutenzione quelli di loro competenza. La costruzione era davvero malconcia, per questo l’avevano affittata a loro a un prezzo abbordabile. Così, quasi ogni giorno, lui e il papà dovevano smontare un tubo o metter mano alle tegole, che il vento e la pioggia spostavano regolarmente. Jo era svelto e agile. Le arrampicate sul tetto erano uno scherzo per lui, anche se sapeva che la mamma stava in pensiero. Così cercava di essere prudente.
Il problema delle tegole era noto anche agli amici di Jos. E fu il primo pensiero per Tommy, quando avvistò la casa, praticamente sepolta sotto una coltre bianca. «Come farà a sistemare il tetto? Avranno la neve in casa, di sicuro».
Ma il pensiero fu allontanato dall’arrivo del bambino. Uscì dalla porta sbracciandosi, per salutare l’amico. Lo stupore gli spalancava gli occhi e un sorriso da orecchio a orecchio. Si avvicinò al maggiolone a balzelloni, sollevando stivali di almeno tre numeri più larghi del suo piede.
«Tommy! Che meraviglia! E’ tua? Me la fai guidare?».
«Sali!». Tommy aprì la portiera e l’amico sedette, sbattendo prima gli stivali, tacco contro tacco, per non portare a bordo un quintale di neve con i piedi»
«Non posso fartela guidare. Sei un bambino!» disse Tommy.
«Ma anche tu sei un bambino». L’osservazione di Jos era pertinente. In effetti, considerò Tommy tra sé e sé, neppure lui avrebbe potuto guidare.
«Ma non è che guido proprio io. E’ lei che mi capisce alla perfezione. E fa quasi tutto da sola».
«Cavolo!». Il nuovo arrivato si guardava attorno estasiato. Toccava delicatamente il cruscotto, i vetri, le maniglie alzafinestrini. «Dove si va?» chiese al conducente.
«Mi sa che la scuola è sepolta dalla neve. E le maestre di sicuro non la trovano più».
«Niente maestre, niente scuola» concluse il senegalese. «Potremmo passare a prendere le gemelle».
Il discorso bambine era delicato. A Jos piacevano molto, perché le bambine italiane potevano fare un sacco di cose in più rispetto a quelle del suo paese. Sua sorella portava il velo già da un paio d’anni. Mentre le ragazze grandi, le compagne dei suoi fratelli quando andavano alle medie, il velo non se lo sarebbero mai messo. Anzi, mettevano fuori la pancia e certe curve che non si poteva non notarle. Le compagne di Jos e Tommy erano ancora bambine, ma qualcuna già si vestiva come le ragazzine delle medie. Poi, a volte, si dimenticavano dei pantaloni griffati e si rotolavano per terra con gli amici in mischie furiose.
Tutto questo era successo da quando il papà di Tommy, alla sua festa di compleanno, aveva insegnato a tutti i principi del rugby.
A sorpresa, le più temibili giocatrici si erano rivelate proprio le gemelle. Avanzavano come panzer e guai a chi cercava di portar via loro il pallone. Giocare con loro era uno spasso. A parte il dente scheggiato di Federico, quello di terza, che non sapeva a cosa andava incontro quando le aveva apostrofate con un «Belle bambine, dove avete lasciato le Wings?».
Erano state le ultime parole che aveva detto per un bel po’. Labbro gonfio e appuntamento urgente con il dentista, causa planata di muso sul prato. Il placcaggio era stato da manuale. Tommy e Jos non ricordavano mai se fosse stata Manuela o Daniela. Erano praticamente identiche, a un primo sguardo. Bionde, con folti capelli crespi, a caschetto. E occhi celesti. Ma a osservarle bene per qualche tempo, e di tempo a scuola ce n’era parecchio, si potevano distinguere. Manuela era più dolce e quando sorrideva strizzava gli occhi, che brillavano tutti. Daniela era più tosta. Il viso le si induriva e aggrottava la fronte, quando la facevano arrabbiare o davano fastidio a sua sorella. Erano molto simpatiche, entrambe. L’importante era stare in squadra con loro, non averle di fronte, tra le fila dei nemici.
«La fabbrica del pane è vicina. Passiamo a chiamarle» propose Tommy.
Daniela e Manuela erano le figlie del padrone del panificio industriale, che dava lavoro anche al papà e ai fratelli di Jos. Il padre delle gemelle aveva anche una villa da qualche parte, sul lago. Ma siccome si alzava alle quattro per le prime infornate, preferiva vivere nell’appartamento sopra la fabbrica, con moglie e figlie.
«Le mie pagnottelle» le chiamava con affetto. Alle bimbe il soprannome piaceva quando lo usava il loro papà. Un po’ meno quando correva sulle bocche dei compagni di classe. A quel punto partivano i pugni. Sempre di bocca in bocca, ma meno lievi delle parole.
Jos e Tommy evitavano gli appellativi da forno. Le loro amiche erano Dani e Manu. Punto. E a loro andava bene così.
«Daniiii! Manuu!» Gridarono forte, sporgendosi dai finestrini del maggiolone, quando arrivarono davanti al capannone industriale. L’edificio sembrava chiuso, come se nessuno fosse al lavoro.
Le bambine si affacciarono da una finestra in alto e fecero ciao. Daniela zittì i saluti rumorosi, con il dito davanti alla bocca.
Da lì a poco, aiutandosi l’una l’altra, fecero scorrere il portellone dell’ingresso e sgusciarono fuori.
Loro calzavano i doposci. Manuela verdi, Daniela rossi. Il rosa non era contemplato nel loro guardaroba.
Tommy si divertì un sacco per le loro espressioni, mentre giravano attorno al maggiolone, osservandolo in tutti i dettagli. «A bordo, dai, che si va a fare a palle di neve!».
Le bambine non se lo fecero dire due volte. Si sistemarono dietro e investirono il conducente di domande. «Come funziona? Ma chi è stato? Da dove arriva? E tuo padre?»
Tommy non rispose, buttandola su un coro da stadio che aveva imparato dagli amici di papà. Le parole non erano proprio identiche, ma la musica era facile e in pochi minuti tutti lo seguirono, dimenticando la curiosità.
Finito l’inno, Daniela estrasse dalla tasca una grossa pagnotta. «È con l’uva. Un po’ per uno». I bambini gradirono e addentarono con entusiasmo il pezzo che la gemella passava loro. Nessuno si curò delle briciole, che cadevano sui sedili, salvo Manuela che raccolse le più grosse.
«Che fai?» chiese Tommy. «Non sono per me» si giustificò lei. Fece cenno di estrarre anche lei qualcosa dalla tasca.
«Che pane hai tu?» Jos era curioso. Conosceva a memoria tutte le varietà del panificio, perché papà portava a casa le novità e le michette avanzate. Ma aveva ancora appetito.
Manuela protese quello che aveva nascosto.
Non era una pagnotta. Era Gruccia, la tartaruga delle gemelle. L’animale, insonnolito, aprì un occhio e la bocca antica. «Non potevo mica lasciarla fuori, ieri sera. Faceva così freddo!»
I bambini risero, mentre Gruccia mordicchiava le molliche. Ma a Tommy venne uno strano pensiero: se il suo modellino era diventato quell’auto meravigliosa e grande, sotto la neve, che cosa sarebbe successo alla tartaruga? Le gemelle forse si sarebbero ritrovate un mostro preistorico alto tre metri. Tipo il triceratopo del museo. Bella lì, nell’aiuola dietro il panificio. Pronta a cibarsi di un paio di operai del Ghana o di un camion di filoncini raffermi. L’idea gli fece un po’ paura e preferì non condividerla con gli amici. Gruccia, piccola come al solito, viaggiava con loro. E non avrebbe mangiato nessuno.

Il maggiolone correva sulla strada deserta. Lasciava due scie dietro di sé, come quelle di una slitta.
Ma i bambini non le vedevano. Le facce incollate ai finestrini, osservavano la campagna che conoscevano così bene e che sembrava diversa, immensa e selvaggia, i capannoni che di solito spuntavano ovunque se ne stavano acquattati sotto la neve, quasi gradevoli, sotto tutto quel biancore.
«Arriviamo in riva al canale». Era un campo grande, dove si poteva correre e giocare. Il loro posto preferito quando lanciavano il boomerang. Poteva volare lontano, senza impigliarsi nei tralicci o negli alberi. E si vedeva bene dove cadeva, anche quando l’erba era alta.
Quando furono di fronte al campo, il maggiolone si arrestò. I bambini scesero, eccitati e cominciarono a sgroppare come cavalli o caprette. Poi volarono le prime palle e fu un conflitto senza regole e senza rispetto. Si rincorrevano attorno al maggiolone, cercando di ripararsi, ma in breve furono tutti bagnati fino alle mutande.
A quel punto, cominciarono ad arrotolare due grosse sfere di neve e le sovrapposero. Poi ci appoggiarono piedoni e braccia.
«Non abbiamo neanche una carota per il naso e un cappello da mettergli in testa». Manuela valutava il pupazzo con espressione critica. Gli altri concordavano. Non era un granché.
«Io ho un po’ freddo» disse Tommy. «Vado in macchina». Gli altri lo seguirono, allettati dall’idea del calduccio che si era creato nell’abitacolo. Gruccia si era rintanata nel suo guscio.
In pochi minuti, i vetri si appannarono del tutto, per il fiato dei bambini.
Tommy tolse con la mano la condensa dal lunotto. Il cielo era sempre scuro. «Ma non dovrebbe spuntare il sole?»
«Se è nuvolo, il sole non si vede». L’osservazione di Daniela non lo convinse.
«Sì, ma almeno un po’ di luce si dovrebbe vedere. Qui sembra notte».
I quattro fissavano il cielo, nella speranza di scorgere un raggio attraverso la spessa coltre di nubi.
Invece ricominciò a nevicare. Larghi fiocchi, fittissimi.
«Mi sa che è meglio tornare». Non c’era traccia di piagnucolio nella voce di Manuela. Le sue parole sembrarono molto sagge. Forse perché tutti avevano le mutande e le calze zuppe. Forse perché le mani si erano fatte prima gelate, poi bollenti e ora ricominciavano a raffreddarsi. E nessuno di loro si era ricordato di fare colazione, prima di uscire. La pagnotta di Daniela era bell’e digerita.
Il maggiolone si riavviò senza che Tommy girasse la chiave. Fece una perfetta inversione a “u” nel campo innevato, dove le tracce della battaglia erano già state cancellate dai nuovi fiocchi e l’abbozzo di pupazzo stava perdendo i suoi connotati.
L’auto viaggiava con un borbottio costante, bonario. Come una ninna nanna. Tommy dovette svegliare le gemelle, quando arrivarono davanti alla fabbrica del pane. Insonnolite, raccolsero Gruccia e scesero, biascicando saluti. Quando aprirono e chiusero il portellone, non si udì alcun suono, come se tutto quel fioccare l’avesse attutito.
Il maggiolone si rimise in moto. Prima, seconda, terza e quarta. Tommy non appoggiava nemmeno più la mano sul pomello del cambio. La leva si muoveva da sola. E lui la osservava distrattamente, di tanto in tanto, come se fosse il movimento meccanico del tergicristalli.
Da lì a poco si ritrovarono davanti alla cascina di Jos. Il bambino scese e salutò senza parlare, con un cenno della mano e un sorriso. Arretrò in modo curioso, camminando all’indietro, fino alla porta di casa. Tommy ad un certo punto non lo distinse più, tanto fitta cadeva la neve.
«Voglio arrivare a casa» pensò. «Sono tanto stanco».
L’auto viaggiava. Il bimbo si assopì, cullato dal movimento. Quando aprì gli occhi, vide che erano arrivati. Il maggiolone si era avvicinato il più possibile all’ingresso della villetta. «Grazie» mormorò il bimbo. Poi girò la chiave e la estrasse. Il motore tacque.
Tommy percorse i pochi passi fino all’uscio, lo aprì e corse in camera sua. Lottò contro il sonno, mentre si toglieva gli abiti bagnati e s’infilava il pigiama.
Letto, nanna subito. Buio.

Sentì qualcuno toccargli la fronte. Era il papà.
Il giorno era arrivato, c’era più luce nella stanza.
«Sai che hai dormito tutto il giorno, ieri? Avevi un bel febbrone» gli disse il papà. «Non ti sei neanche accorto che ti facevo bere le medicine».
Tommy fece di no con la testa.
«Sono venuti i tuoi amici a trovarti. Sai, le gemelle. E Jos, quello nero».
Il papà si chinò ed estrasse un pacchetto, da sotto il letto. «Ti hanno portato un regalo, per Natale. E per augurarti di guarire presto».
Il bimbo aprì piano l’involto. C’era dentro una scatola di cartone. Ne sollevò il coperchio e sbirciò il contenuto.
Una palla di vetro. La estrasse delicatamente dalla confezione. Come in una bolla, vide una coccinella rossa, circondata da un gruppo di gnomi che facevano il girotondo. Erano immersi in un liquido trasparente.
«Agitala!» consigliò il papà.
Il bimbo la fece oscillare. All’interno cominciò a sollevarsi una tempesta di fiocchi bianchi. Sembrava davvero neve.
«Come fuori, papà».
L’uomo assentì. Anche lui era affascinato dalla palla. «Certo che le coccinelle se la passano brutta sotto la neve» mormorò, tra sé e sé. Poi sentenziò: «Natura matrigna!».
Il bimbo tacque. Si adagiò di nuovo tra le coperte, fissando la sfera. Il padre, credendolo assorto nel suo gioco, uscì dalla stanza in punta di piedi.
Appena fu solo, Tommy sollevò la sguardo dall’insetto e dagli gnomi e lo indirizzò alla finestra, da cui un candore innaturale invadeva la camera.
Di tanto in tanto, abbassava le palpebre, appesantite dalla stanchezza e dall’influenza.
Poi si raggomitolò su un fianco, stringendo la palla tra le dita. Il vetro non era più freddo. Liscio, perfetto: era un piacere tenerlo vicino e accarezzarlo, come un peluche.
«Altro che matrigna» borbottò il bimbo mentre, dolcemente, scivolava nel sonno. «Al mio maggiolone la neve piace un sacco. Fa diventare grandi».
Le dita si rilassarono e la palla scivolò verso il pavimento, cadendo sul mucchio dei vestiti. Non si ruppe, era robusta. La neve dentro mulinò per un po’ di tempo, poi si depositò.
Da una tasca dei pantaloni, per terra, qualcosa brillò.
Una piccolissima chiave d’argento.

Silvia Messa
15 dicembre 2008

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