Fuscello teso dal muro
sì come l’indice d’una
meridiana che scande la carriera
del sole e la mia, breve;
in una additi i crepuscoli
e alleghi sul tonaco
che imbeve la luce d’accesi
riflessi – e t’attedia la ruota
che in ombra sul piano dispieghi,
t’è noja infinita la volta
che stacca da te una smarrita
sembianza come di fumo
e grava con l’infittita
sua cupola mai dissolta.
Ma tu non adombri stamane
più il tuo sostegno ed un velo
che nella notte hai strappato
a un’orda invisibile pende
dalla tua cima e risplende
ai primi raggi. Laggiù,
dove la piana si scopre
del mare, un trealberi carico
di ciurma e di preda reclina
il bordo a uno spiro, e via scivola.
Chi è in alto e s’affaccia s’avvede
che brilla la tolda e il timone
nell’acqua non scava una traccia.
Eugenio Montale
Un muro, dunque, si erge, lucidamente definito dai critici del poeta ligure come “separazione (invalicabile) da zone edeniche, ovvero da una condizione finalmente felice” – così Alberto Casadei
nella sua monografia su Montale -, concreto simbolo che si realizza in
una delle immagini più efficaci del ricchissimo paesaggio dipinto dal
verso dell’autore ligure, un ostacolo frapposto tra l’io poetico e la
sua felicità nel quale vengono ipostatizzate situazioni di prigionia di varia natura – personale, socio-politica, esistenziale, metafisica.
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