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L'ombra è l'opposto del sole, ma si nutre di esso.
Un cielo grigio non genera ombre: nessun contrasto, nessun pensiero.


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domenica 30 settembre 2012

Poesia e riflesso

Acque Lombarde


Acque serene ch’io corsi sognando
ne la dolcezza delle notti estive,
acque che vi allargate fra le rive
come un occhio stupito, a quando a quando,
o nostalgiche acque sorgive
mormoranti nel verde un sogno blando,
acque lombarde ch’io vo’ sospirando
sempre, tanto il ricordo in cor mi vive,
di voi l’anima dice acque stagnanti
ne’ verdi piani de la Lombardia,
di voi fonti gioconde scintillanti
a’ dolci soli del fiorito maggio
e su voi la sognante anima mia
            muove per suo spiritual viaggio

         Sergio Corazzini


acqua leggere e pura,
in rigagnoli argentini
mi scorre nel cuore;
i miei monti...lassù...

sabato 29 settembre 2012

Chiasso

Il chiasso è la più impertinente di tutte le interruzioni, poiché interrompe, anzi perfino spezza i nostri pensieri.
Ma dove non vi è nulla da interrompere, il chiasso non sarà avvertito in modo particolare.
Arthur Schopenhauer, Parerga e paralipomena, 1851.

Rumore
Scienza, tecnologia, ecologia Rumore
Autore Bart Kosko
Traduttore E.Vinassa de Regny; A. Vinassa de Regny
Editore Garzanti Libri, 2008

La prima storia del rumore dalle glaciazioni all'attuale inquinamento acustico, passando per i tavoli dei ristoranti, dove non si capisce mai quello che dice chi è seduto di fronte.
Il rumore ci infastidisce e rende difficile la nostra vita sociale.
Può provocare sordità e ipertensione.
Rende le grandi città invivibili.
È un segnale che non ci piace e che dunque disturba la ricezione dei segnali che ci interessano: in altri termini è il veleno dell'era dell'informazione (dalla rete).



tentativi imprecisi
incespicano passi lenti,
fuori da me il confuso
si staglia come muro;
le fisime incombono
in un reale chiassoso...

anonimo del XX° secolo
frammenti ritrovati

venerdì 28 settembre 2012

Poesia e riflesso

C'è tanta solitudine

C'é tanta solitudine in quell'oro.
La luna delle notti
non é la luna che
il primo Abramo vide.
I lunghi secoli dell'umano vegliare
l'han colmata d'antico pianto.
Guardala.
È il tuo specchio.

Jorge Luis Borges


alto, levato, nel sole,
un mio attimo induge
e sente alla fine
col sentire del cuore
un infinito abbraccio;
mi poso, calmo,
in un pertugio nascosto...

Il colore giallo della luna è semplicemente dovuto all'altezza nel cielo.
Quando sorge ed è piena, la vediamo all'orizzonte e quindi la luce proveniente dalla Luna attraversa tantissima atmosfera prima di raggingere il nostro occhio e le componenti rosse sono quelle che sopravvivono di più all'assorbimento da parte dell'aria.
E' lo stesso motivo per cui anche il Sole è rosso al tramonto e all'alba.
Quando invece è bella alta nel cielo la vediamo bianca perchè la luce attraversa poche decine di Km di atmosfera.
Tra il rosso ed il bianco vi sono naturalmente zone intermedie dove si vede gialla (dalla rete).

giovedì 27 settembre 2012

angùstia s. f. [dal lat. angustia, der. di angustus «stretto»; cfr. angoscia]. –

1. letter. Strettezza, ristrettezza: a. di luogo, di spazio, di tempo. Anche fig., scarsezza, penuria: a. di viveri; sono stretto più che mai dall’a. di denaro (Carducci); trovarsi in angustie, in difficoltà, spec. finanziarie; meschinità, grettezza: a. di mente, d’idee.

2. Affanno, tribolazione: vivere in mezzo alle a., essere in un mare di angustie; pena, ansia, angoscia: tenere in a.; stare in a. per qualcuno; dare, recare, provocare angustia; il padre di Lodovico passò gli ultimi suoi anni in a. continue (Manzoni).



Angustia

Fausto Colaiuda, Angoscia
, 1993, pietra




Nelle pieghe dei sempre
riposano risapute angosce
nascoste dall'io dormono
ma ogni tanto riaffiorano
e stringono forte la gola
di quel nodo che so
e fatica il respiro.
Nel mentre di un nulla
rivedo un monotono scorrere
di cose passate, di vento
che spazza la mente
in un brivido gelido.

Anonimo del XX°secolo
poesie ritrovate


mercoledì 26 settembre 2012

Poesia e riflesso

C'è riso nell'uomo

C'è nel riso dell'uomo
la meraviglia
sotto la pelle dei pezzi di pane
da mangiare subito
si vedono le corde vive nei bracci
poi verrà la pioggia
a lavare le schiene
infilare la tosse nei petti

Mariangela Gualtieri
da "Antenata"


riso di volti passati,
riso di volti presenti,
certo di un sogno ritrovo
sparse poetiche lente
e corro verso un incontro...

martedì 25 settembre 2012

poesia e riflesso

 Le campane

Mio dolce zingaro amante mio
ascolta il suono delle campane
Noi ci amavamo perdutamente
credendo che non ci vedesse nessuno

Ma eravamo proprio nascosti male
Tutte le campane dei dintorni
ci hanno visto dall'alto dei campanili
ed ora tutti lo vanno a ridire

Domani Cipriano ed Enrico
Maria Orsola e Caterina
la fornaia e suo marito
e poi Gertrude mia cugina

quando passerò sorrideranno
e non saprò più dove nascondermi
Tu sarai lontano Io piangerò
e forse forse ne morirò.

Guillaume Apollinaire


scomposto il suono rimane
leggero rumore nell'aria
e si perde lontano e vicino;
ricordi domenicali e tocchi
al mezzodì, nel sole...

lunedì 24 settembre 2012

Rassegnazione

Rassegnazione

Non pensare alle cose passate e finite
perchè pensare al passato risveglia rimpianto e dolore

Non pensare alle cose che t'accadranno
perchè pensare al futuro riempie l'uomo di timore

Po Chu-I

Acquerello, Rassegnazione, Io di un clown


un presente scarno rimedia
solo poche frasi inserite
in fogli ingialliti dal tempo;
consumo energie per restare
in preda di equilibri precari...


Rassegnazione
1 Paziente accettazione di ciò che è ritenuto inevitabile: sopportare qlco. con r.
2 non com. Rinuncia a un incarico
La rassegnazione indica una disposizione d'animo di chi accetta pazientemente un dolore, una sventura
Rassegnarsi a una situazione che non ci soddisfa per paura di cambiare può portare alla depressione (dalla rete).

domenica 23 settembre 2012

Autunnale con Aesculus hippocastanum, Ippocastanacee

L’ippocastano é un albero antichissimo, probabilmente un residuo dell'era terziaria. Data la somiglianza tra i frutti suoi e quelli del castagno, gli antichi certamente tentarono di mangiarne i frutti, ma ben presto rinunciarono poiché i frutti dell'ippocastano, cioè le castagne d'India, sono tossiche per l'uomo. Al contrario, alcuni animali selvatici consumano la castagna che viene soprannominata "matta". Sull'origine del nome dal greco ippo significa “cavallo” e kastanon “castagna” sono state fatte molte ipotesi. Si dice che i cavalli mangino le castagne d'India, ma questo non è vero, anche se si racconta che i Turchi dessero la polvere derivante dalle castagne d'india ai cavalli per guarirli dalla tosse. È stato introdotto a Vienna nel 1591 da Charles de l'Écluse e a Parigi, da Bachelier, nel 1615 come albero ornamentale. Originaria della parte settentrionale della penisola balcanica, in Albania, in Jugoslavia meridionale, in Bulgaria orientale, in Grecia settentrionale. Oggi è coltivato e diffuso in tute le zone temperate dell'Europa, dalla pianura fino a 1200 m. di altitudine. In Italia è diffusa in tutte le regioni, soprattutto in quelle centro-settentrionali. Longevo e rustico, tollera le basse temperature e non ha particolari esigenze in fatto di suolo, anche se cresce meglio nei terreni fertili. È poco resistente alla salinità del terreno e gli agenti inquinanti atmosferici, ai quali reagisce con arrossamento dei margini fogliari e disseccamento precoce della lamina. L'Ippocastano può arrivare a 25-30 metri di altezza; presenta un portamento arboreo elegante e imponente. La chioma è espansa, raggiunge anche gli 8-10 metri di diametro restando molto compatta. L'aspetto è tondeggiante o piramidale, a causa dei rami inferiori che hanno andamento orizzontale. La corteccia è bruna e liscia e si desquama con l'età. Le foglie dell'ippocastano sono decidue, palmato-settate, con inserzione opposta, mediante un picciolo di 10-15 cm, su rametti bruni o verdastri e leggermente pubescenti; il margine è doppiamente seghettato, la nervatura risulta ben marcata; sono di color verde brillante nella pagina superiore e verde chiaro, con una leggera tomentosità sulle nervature, in quella inferiori. I fiori sono ermafroditi a simmetria bilaterale, costituiti da un piccolo calice a 5 lobi ed una corolla con 5 petali bianchi, spesso macchiati di rosa o giallo al centro; riuniti in infiorescenze a pannocchia di grandi dimensioni (fino 20 cm di grandezza e 50 fiori). I frutti sono grosse capsule rotonde e verdastre, munite di corti aculei, che si aprono in tre valve e contengono un grosso seme o anche più semi di colore bruno lucido che prendono il nome di castagna matta. Hanno sapore amaro e sviluppano un odore molto sgradevole durante la cottura.

Fino a qualche decennio, le sue castagne venivano portate in tasca per allontanare fatture e malocchi.


Autunnale

il bavero rialzato mi dice
l'estate finisce;
riprovo a siocchiudere
gli occhi a sentire
il calore del sole
l'equinozio passato
me induge a pensare
l'autunno che arriva
guardo l'ippocastano
e raccolgo i suoi frutti
scaramantico come non mai.

Anonimo del XX° secolo,
poesia ritrovate

sabato 22 settembre 2012

Canto e riflesso

Scongiuro
 
Tutti i pericoli supererò.
Non sarò della Morte la preda.
Evitando miriadi di frecce
arriverò alla mia meta.
E' forte il mio cuore.
 
Navajo
 
 
indomite forse allineano
spirali di immagini
crendo scompiglio
in un lungo istante...

venerdì 21 settembre 2012

Il dunque

Il dunque

rive franose incombono
sulle mie didascaliche brame,
ecco che parte dal nulla
un suadente richiamo, una voce,
si perde nel verde, nel sole;
schiacciato dal dunque ripiego
le frasi disposte a ogni cosa
e riprovo scodato dolore.

Anonimo del XX° secolo
poesie ritrovate

 
dunque particella congiuntiva con cui si trae conseguenza o conclusione.
cong. testuale
  • 1 Con valore più strettamente deduttivo, perciò, di conseguenza, per questo motivo SIN quindi: hai perso la causa, d. devi lasciare l'appartamento; anche dopo pausa forte o all'inizio di una battuta dialogica di risposta: “Mi so vestir da me.” “Dunque vestitevi subito” (Manzoni) || e dunque?, come battuta isolata in un dialogo, per sollecitare una deduzione, “e con ciò?”, “che facciamo?”, “che intendi fare?”
  • 2 Con valore più propriamente riassuntivo o di ripresa di quanto già detto (per chiudere una digressione o riprendere il filo del discorso dopo un'interruzione: spesso all'inizio di una partizione del testo, di una lezione e sim.): “Dunque dico che ora questa prima parte si divide in due” (Dante); posta nella prima frase di un testo, rinvia a temi o situazioni noti o accettati: “Ma ci fu dunque un giorno/su questa terra il sole?” (Carducci)
  • 3 Con valore più semplicemente di esplicazione o commento di un elemento o di un'informazione precedente: possiede alcuni beni pignorati, dunque non disponibili || dunque, dunque, avvio di discorso col quale il parlante, rivolgendosi a se stesso, riordina le proprie idee
  • 4 Come segnale discorsivo, di puro appoggio a un'esortazione, un invito e sim., di solito posposta, dopo pausa: che aspetti, d.?; vieni, d.!
  • s.m. (solo sing.) Il nocciolo di una questione, il momento decisivo in una situazione, spec. in espressioni come veniamo al d. (dalla rete).

giovedì 20 settembre 2012

Mattino

Parte del giorno compresa tra l'alba e mezzogiorno
SIN mattina || giornali del m., che escono nelle prime ore della giornata | di buon m., molto presto || nei provv. il m. ha (o le ore del m. hanno) l'oro in bocca, al mattino presto si lavora meglio e si rende di più (dalla rete).

Mattino


grigiastro e secco. Ad una sporca corda
vinto è un cavallo - e non sa più se c'era
verde sui prati. Un ragazzino piscia
contro un albero magro - e corre via.
Il malato moriva. Per la strada
un ciclista batteva contro un uomo.
Cadevano i biscotti. Li mangiava
ugualmente un ragazzo - e poi correva.

Sandro Penna

U. Sala, Mattino, olio su tela


filtri velano i sogni,
palpebre stanche si aprono
alla prima luce del giorno;
mattina immensa e chiara,
settembre inoltra il viaggio...

mercoledì 19 settembre 2012

Poesia e riflesso

Non di questo presente ora bisogna

Non di questo presente ora bisogna
vivere - ma in esso sì: non c'è modo,
pare, d'averne un altro, non c'è chiodo
che scacci questo chiodo. Nè a chi sogna

va meglio, che le più volte si infogna
a figuararlo, e fa più groppi al nodo
se cerca di disfarlo (sta nel todo
che si crede nel nada, sempre) o agogna,

ma con che lama? troncarlo. La mente
infortunata non ha altra fortuna,
dunque, che nel pensiero? Certo a niente

più la mia si consola che se in una
deposizione o un offertorio gente
dispersa solennemente s'aduna.

Giovanni Raboni
da "Altri sonetti"

Bernardo D'Aleppo, "Il presente e le bolle del tempo"
Olio e acrilico su cartoncino telato
 bisogna calare le reti,
innescare le vie di fuga;
il cospetto è grave,
l'aria è ancora serena,
dove cade lo sguardo
si intravede il ricordo...

martedì 18 settembre 2012

Canto e riflesso

Canto fantastico
Vago
in alto nel cielo,
al mio fianco
un uccello.
 
Chippewa
 
 
l'aria mi frizza il volto
cabrando ritrovo assetti perduti;
il limpido blu collima
e si fonde coi raggi del sole...

lunedì 17 settembre 2012

Antonia

Quando Antonia Pozzi nasce è martedì 13 febbraio 1912: bionda, minuta, delicatissima, tanto da rischiare di non farcela a durare sulla scena del mondo; ma la vita ha le sue rivincite e … … Antonia cresce: è una bella bambina, come la ritraggono molte fotografie, dalle quali sembra trasudare tutto l’amore e la gioia dei genitori, l’avvocato Roberto Pozzi, originario di Laveno, e la contessa Lina, figlia del conte Antonio Cavagna Sangiuliani di Gualdana e di Maria Gramignola, proprietari di una vasta tenuta terriera, detta La Zelata, a, Bereguardo. Il 3 marzo la piccola viene battezzata in San Babila ed eredita il nome del nonno, primo di una serie di nomi parentali (Rosa, Elisa, Maria,Giovanna, Emma), che indicherà per sempre la sua identità. Antonia cresce, dunque, in un ambiente colto e raffinato: il padre avvocato, già noto a Milano; la madre, educata nel Collegio Bianconi di Monza, conosce bene il francese e l’inglese e legge molto, soprattutto autori stranieri, suona il pianoforte e ama la musica classica, frequenta la Scala, dove poi la seguirà anche Antonia; ha mani particolarmente abili al disegno e al ricamo. Il nonno Antonio è persona coltissima, storico noto e apprezzato del Pavese, amante dell’arte, versato nel disegno e nell’acquerello. La nonna, Maria, vivacissima e sensibilissima, figlia di Elisa Grossi, a sua volta figlia del più famoso Tommaso, che Antonia chiamerà “Nena” e con la quale avrà fin da bambina un rapporto di tenerissimo affetto e di profonda intesa. Bisogna, poi, aggiungere la zia Ida, sorella del padre, maestra, che sarà la compagna di Antonia in molti suoi viaggi; le tre zie materne, presso le quali Antonia trascorrerà brevi periodi di vacanza tra l’infanzia e la prima adolescenza; la nonna paterna, Rosa, anch’essa maestra, che muore però quando Antonia è ancora bambina. Nel 1917 inizia per Antonia l’esperienza scolastica: l’assenza, tra i documenti, della pagella della prima elementare, fa supporre che la bimba frequenti come uditrice, non avendo ancora compiuto i sei anni, la scuola delle Suore Marcelline, di Piazzale Tommaseo, o venga preparata privatamente per essere poi ammessa alla seconda classe nella stessa scuola, come attesta la pagella; dalla terza elementare, invece, fino alla quinta frequenta una scuola statale di Via Ruffini. Si trova, così, nel 1922, non ancora undicenne, ad affrontare il ginnasio, presso il Liceo-ginnasio “Manzoni”, da dove, nel 1930, esce diplomata per avventurarsi negli studi universitari, alla Statale di Milano. Gli anni del liceo segnano per sempre la vita di Antonia: in questi anni stringe intense e profonde relazioni amicali con Lucia Bozzi ed Elvira Gandini, le sorelle elettive, già in terza liceo quando lei si affaccia alla prima; incomincia a dedicarsi con assiduità alla poesia, ma, soprattutto, fa l’esperienza esaltante e al tempo stesso dolorosa dell’amore. È il 1927: Antonia frequenta la prima liceo ed è subito affascinata dal professore di greco e latino, Antonio Maria Cervi; non dal suo aspetto fisico, ché nulla ha di appariscente, ma dalla cultura eccezionale, dalla passione con cui insegna, dalla moralità che traspare dalle sue parole e dai suoi atti, dalla dedizione con cui segue i suoi allievi, per i quali non risparmia tempo ed ai quali elargisce libri perché possano ampliare e approfondire la loro cultura. La giovanissima allieva non fatica a scoprire dietro l’ardore e la serietà, nonché la severità del docente, molte affinità: l’amore per il sapere, per l’arte, per la cultura, per la poesia, per il bello, per il bene, è il suo stesso ideale; inoltre il professore, ha qualcosa negli occhi che parla di dolore profondo, anche se cerca di nasconderlo, e Antonia ha un animo troppo sensibile per non coglierlo: il fascino diventa ben presto amore e sarà un amore tanto intenso quanto tragico, perché ostacolato con tutti i mezzi dal padre e che vedrà la rinuncia alla “vita sognata” nel 1933, “non secondo il cuore, ma secondo il bene”, scriverà Antonia, riferendosi ad essa. In realtà questo amore resterà incancellabile dalla sua anima anche quando, forse per colmare il terribile vuoto, si illuderà di altri amori, di altri progetti , nella sua breve e tormentata vita. Nel 1930 Antonia entra all’Università nella facoltà di lettere e filosofia; vi trova maestri illustri e nuove grandi amicizie: Vittorio Sereni, Remo Cantoni, Dino Formaggio, per citarne alcune; frequentando il Corso di Estetica, tenuto da Antonio Banfi, decide di laurearsi con lui e prepara la tesi sulla formazione letteraria di Flaubert, laureandosi con lode il 19 novembre 1935. In tutti questi anni di liceo e di università Antonia sembra condurre una vita normalissima, almeno per una giovane come lei, di rango alto-borghese, colta, piena di curiosità intelligente, desta ad ogni emozione che il bello o il tragico o l’umile suscitano nel suo spirito: l’amore per la montagna, coltivato fin dal 1918, quando ha incominciato a trascorrere le vacanze a Pasturo, paesino ai piedi della Grigna, la conduce spesso sulle rocce alpine, dove si avventura in molte passeggiate e anche in qualche scalata, vivendo esperienze intensissime, che si traducono in poesia o in pagine di prosa che mettono i brividi, per lo splendore della narrazione e delle immagini; nel 1931 è in Inghilterra, ufficialmente per apprendere bene l’inglese, mentre, vi è stata quasi costretta dal padre, che intendeva così allontanarla da Cervi; nel 1934 compie una crociera, visitando la Sicilia, la Grecia, l’Africa mediterranea e scoprendo, così, da vicino, quel mondo di civiltà tanto amato e studiato dal suo professore e il mondo ancora non condizionato dalla civiltà europea, dove la primitività fa rima, per lei, con umanità; fra il 1935 e il 1937 è in Austria e in Germania, per approfondire la conoscenza della lingua e della letteratura tedesca, che ha imparato ad amare all’Università, seguendo le lezioni di Vincenzo Errante, lingua che tanto l’affascina e che la porta a tradurre in italiano alcuni capitoli di “Lampioon”, di M. Hausmann.
Intanto è divenuta “maestra” in fotografia: non tanto per un desiderio di apprenderne la tecnica, aridamente, quanto perché le cose, le persone, la natura hanno un loro sentimento nascosto che l’obiettivo deve cercare di cogliere, per dar loro quell’eternità che la realtà effimera del tempo non lascia neppure intravedere. Si vanno così componendo i suoi album, vere pagine di poesia in immagini. Questa normalità, si diceva, è, però, solamente parvenza. In realtà Antonia Pozzi vive dentro di sé un incessante dramma esistenziale, che nessuna attività riesce a placare: né l’insegnamento presso l’Istituto Tecnico Schiaparelli, iniziato nel ‘37 e ripreso nel ’38; né l’impegno sociale a favore dei poveri, in compagnia dell’amica Lucia; né il progetto di un romanzo sulla storia della Lombardia a partire dalla seconda metà dell’Ottocento; né la poesia, che rimane, con la fotografia, il luogo più vero della sua vocazione artistica. La mancanza di una fede, rispetto alla quale Antonia, pur avendo uno spirito profondamente religioso, rimase sempre sulla soglia, contribuisce all’epilogo: è il 3 dicembre del 1938. Lo sguardo di Antonia Pozzi, che si era allargato quasi all’infinito, per cogliere l’essenza del mondo e della vita, si spegne per sempre mentre cala la notte con le sue ombre viola. (Biografia tratta da Antonia Pozzi. Nelle immagini l’anima Ancora, Milano 2007)


Distacco dalle montagne

Questa è la prova
che voi mi benedite –
montagne –
se nell’ora del distacco
la vostra chiesa m’accoglie
con la sua bianchezza di sole
e abbraccia forte la mia
malinconia
col canto
delle campane di mezzogiorno –
Nella piccola piazza
una donna ridente
vende le prugne rosse e gialle
per la mia ardente
sete –
sul gradino di pietra
della fontana
luccica la lama
di una piccozza –
l’acqua diaccia gela
il riso in bocca
a un fanciullo –
stampa lo stesso riso
sulla mia bocca –
Questa è la vostra
benedizione –
montagne.

Antonia Pozzi


quando rivedo
gli amati monti
ritorna la voglia,
ritrovo il coraggio;
rallenta il respiro
e l'aria è tersa...

domenica 16 settembre 2012

Frammento

scelsi, si io scelsi,
non potei che scegliere
e da allora ricreo
di nuovi sguardi, gonfio,
sensazioni sospese...

anonimo del XX° secolo
frammenti ritrovati


sabato 15 settembre 2012

Poesia e riflesso

L'agonia della Poesia

Quando l’animo è cupo,
pervaso da rancore,
quando non c’è più amore,
invano cerchi di comporre un verso.
Mancano le parole,
la fantasia ha perso ogni colore!
La tua mente balbetta,
stenta a comporre
qualcosa di decente.
Lo sguardo vaga pensoso,
si sperde tra le nebbie
che nascondono i monti
e cancellano i laghi
ed i torrenti.
I pensieri si rincorrono
come i passeggeri in corsa
in una metropolitana affollata,
dove il rumore
affoga ogni pensiero
ed annega la voce della gente.
Avverti l’inutilità della tua vita:
e sogni un mare di tranquillità
ed isole assolate e sperse
tra l’onde d’un Egeo turchino.
E rivedi i tuoi padri, addormentati
all’ombra d’un contorto fico
o di acacie fiorite e profumate,
tornati a ristorar le stanche membra
dopo che il fato via li sospinse
dall’Eubea ventosa per lidi sconosciuti
a soffrire in cuor di nostalgia.

Salvatore Armando Santoro



dimmi che dormirò
di sonno leggero stanotte,
veglierò su di me ora
che nessuno mi porta
dove il sangue è più caldo,
dove regna calore;
dimmi che sognerò
di sogni belli stanotte...

venerdì 14 settembre 2012

Poesia e riflesso



dita appisolate, intorpidite
girano fogli notturni;
un'alba come altre affaccia
le luci al mondo di fuori,
dentro è un'altra cosa...


Leonardo da Vinci, Studio di mani
 

Le mani
 
Queste tue mani a difesa di te:
mi fanno sera sul viso.
Quando lente le schiudi, là davanti
la città è quell'arco di fuoco.
Sul sonno futuro
saranno persiane rigate di sole
e avrò perso per sempre
quel sapore di terra e di vento
quando le riprenderai.

Vittorio Sereni
da "Frontiera"

giovedì 13 settembre 2012

I caldi e morbidi

 C'era una volta, nel paese della fantasia, il villaggio di Raggio di Sole e di Luna Splendente.
Nel villaggio tutti vivevano felici e contenti perché ogni abitante, grande o piccino, aveva con sé un sacchetto di caldi e morbidi, e quando s'incontravano se li scambiavano.
I caldi e morbidi erano cosine piccole come il pugno chiuso di un neonato; di colore verde e avevano una proprietà: quando venivano regalati all'altro, egli si sentiva tutto caldo e morbido.
Le persone erano soddisfatte della vita che conducevano e godevano di ottima salute .
Tutti tranne la strega che viveva in cima alla montagna e si lamentava che nessuno andava da lei per comprare delle pozioni magiche.
Un giorno si travestì da persona per bene e scese al villaggio.
Nel bosco incontrò Raggio di Sole che spaccava la legna, si scambiarono un saluto, e chiese informazioni circa lo stile di vita del villaggio.
Tutti stavano bene grazie ai caldi e morbidi e allora la strega fece un'osservazione:
"Ma non avete mai pensato che possono finire?"
Detto questo, se ne andò e Raggio di Sole rimase in silenzio, perplesso perché questo dubbio non gli era mai venuto in mente.
Riprese il suo lavoro e poi s'incamminò per tornare a casa.
Vide da lontano suoi figli: giocavano in giardino con i figli del vicino e si scambiavano i caldi e morbidi. E gli tornarono in mente le parole della strega.
Dopo cena, quando i piccoli già dormivano, Raggio di Sole e Luna Splendente si ritirarono nella loro stanza e iniziarono a scambiarsi i loro caldi e morbidi.
Ricordandosi nuovamente delle parole della signora incontrata nel bosco, Raggio di Sole ne parlò a Luna Splendente e insieme concertarono di parlare ai bambini l'indomani.
Immaginatevi lo stupore dei bambini quando si sentirono dire :
"Bambini, da questo momento in poi, fate attenzione ai caldi e morbidi, perché possono finire!"
Ma si sa, come tutti i bambini , continuarono a farlo di nascosto dei grandi.
La voce si sparse nel villaggio, di porta in porta, e tutti, tranne i più piccini, cominciarono a essere avari di caldi e morbi, fino al giorno in cui, per la prima volta, un abitante cominciò a sentirsi male, poi un altro ancora e ancora un altro; anche i bambini iniziarono ad ammalarsi e un uomo morì.
La gente del villaggio, seriamente preoccupata, si rivolse alla strega per le sue pozioni magiche e lei che li aspettava da tempo, diede i loro freddi e ruvidi.
Come del tutto simili ai caldi e morbidi, erano differenti per il colore, arancione, e quando venivano dati a una persona la facevano sentire tutta fredda e ruvida, ... ma non moriva.
La gente del villaggio imparò così a strutturare il proprio tempo scambiandosi pochi caldi e morbidi sempre con la paura di vederli finire e tanti freddi e ruvidi per non morire.
Le notizie si sparsero per la vallata e così un bel giorno arrivò al villaggio un mercante: vendeva caldi e morbidi di plastica, del tutto simili a quelli autentici, per forma e colore, solo che quando venivano dati ad una persona, non la facevano sentire né bene né male...
I saggi del villaggio si riunirono e stabilirono leggi con le quali indicavano le regole per lo scambio dei freddi e ruvidi e dei caldi e morbidi, di plastica e autentici.
Un giorno, una bellissima signora scese dal vento e si rivolse ai bambini:
"Siete pallidi e malaticci. Cosa vi succede? "
I piccoli le raccontarono tutto l'accaduto e allora la fata, perché era proprio una fata, prima di andarsene li rassicurò:
"Bambini, la verità è che i caldi e morbidi, quelli autentici, non finiscono mai. Più ne dai gratuitamente, più il sacchetto che hai con te ne è pieno."
Non si sa esattamente come andarono a finire le cose al villaggio di Raggio di Sole e di Luna Splendente. Se vinsero i grandi con le loro paure e le loro leggi, o i bambini che naturalmente sapevano la verità (dalla rete).

mercoledì 12 settembre 2012

Riflesso in un laghetto

I laghi costituiscono una delle piu' importanti presenze paesaggistiche del nostro territorio. 
Quasi tutti creati dell'escavazione glaciale pleistocenica a basse quote, storica o attuale ad altitudini maggiori.
I laghi di alta quota hanno la morfologia cosi' spiccatamente alpina del "circo": di forma discretamente regolare, tendente alla circolarita', godono di una prevedibile, lunga durata nel tempo data da una alimentazione di acque superficiali lievi, tranquille, prive di contenuti solidi.
Il che ne determina la limpidezza (dalla rete).

fragorosa cascata rimbomba
nel frusciare dei sensi
nell'omettere sensi;
là sto con me stesso
in un turbinio di spruzzi
a cercare il piacere...



ACQUA CHIARA

Picciol lago, che in mezzo
A questa valle e a questi sassi enormi,
D’ignota vena ti raccogli e dormi
Dell’alte querce e de’ grand’olmi al rezzo;
Sul margin tuo che in giro
Tutto verdeggia solitario io seggo;
La stanca fronte con la man mi reggo,
Lo specchio di tue pure acque rimiro.
Primaticce viole
E verde timo fan l’aria fragrante:
In te la bianca nuvoletta errante,
E dall’alto del ciel si guarda il sole.
Intorno a te nereggia
Silenzioso il bosco; dalla frasca
La secca foglia vagolando casca,
E lieve sulla cupa onda galleggia.
Tra ’l verde, in dolce rima,
Un usignol la primavera canta:
Passano l’ore e d’ombre il ciel s’ammanta,
Splende la luna ai negri sassi in cima.
Acqua chiara e tranquilla,
Sul tuo margine io seggo; il ciel sereno
Veggo in te rispecchiarsi, e nel tuo seno
Dagli occhi miei piove un’amara stilla.

Arturo Graf

martedì 11 settembre 2012

Poesia e riflesso

LA CAMPANELLA

Campanella d’argento, del convento
qui presso: voce di lontana infanzia
è in quel fresco tinnire, che mi giunge
or sì or no nell’ore più raccolte
della giornata; e meglio all’alba, quando
mute sono le strade e muto è il cielo.
Torno bambina: ho treccia al dorso, asciutte
gambe di capriola, occhi ridenti
pieni d’aprile: vo con la mia mamma
a messa, per viuzze ancor nel sogno
del primo albore, colme d’un silenzio
abbandonato, che sol rompe un’eco
di campanella: - oh, mai non fosse, mamma,
venuto il giorno a dissipar quell’alba.

Ada Negri


ancora risuona il ricordo
mentre indora  il cielo,
settembre avanza e il noce
mi avvisa con le prime foglie
che stanno cadendo a terra...