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L'ombra è l'opposto del sole, ma si nutre di esso.
Un cielo grigio non genera ombre: nessun contrasto, nessun pensiero.


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domenica 2 novembre 2014

Il giorno dei morti

  
  
non ho parole oggi,
solo ricordi,
qualcuno è vivo e presente,
altri sono sbiaditi e passato....
 
 
Il 2 Novembre, nel giorno dedicato ai defunti, il Poeta ripensa ai suoi morti e li rivede nel cimitero, fra le intemperie, stretti fra loro a lamentare l'abbandono in cui sono lasciati. 
Questo pensiero gli suscita il senso di un'antica felicità perduta e l'idea della casa domestica come "nido" caldo e consolante; il cimitero, anzi, diventa una nuova "casa" dove i morti si congiungono ai vivi per ricostruire l'unità famigliare. 
"Rimangano rimangano questi canti sulla tomba di mio padre! ... Sono frulli d'uccelli, stormire di cipressi, lontano cantare di campane: non disdicono a un camposanto. [...] Uomo che leggi, furono uomini che apersero quella tomba. E in quella finì tutta una famiglia. E la tomba [...] è greggia, tetra, nera. Ma l'uomo che da quel nero ha oscurata la vita, ti chiama a benedire la vita, che è bella, tutta bella; cioè sarebbe; se noi non la guastassimo a noi e agli altri".
Così inizia la prefazione che Giovanni Pascoli (1855 - 1913) premise nel 1894 alla terza edizione del suo primo libro di poesie, Myricae.
Evidentemente il poeta vuole preannunciare senza equivoci quello che ad una semplice lettura appare come il carattere dominante della raccolta: il tema mortuario, solo in parte bilanciato, come indica il seguito della prefazione, da quello di una natura materna e rasserenatrice...

Ma altrettanto esplicita è la scelta di introdurre a partire da questa stessa edizione la raccolta con un nuovo testo,
Il giorno dei morti, eccezionalmente lungo (212 versi) e posto in particolarissima evidenza: precede addirittura la pagina che reca il titolo complessivo del libro; è un componimento di notevole interesse, anche per valutare quanto profondamente inquietante e radicato sia nel poeta il suo personalissimo "mito" della morte. I morti della famiglia, a cominciare naturalmente dal padre assassinato, più la madre e vari fratelli e sorelle, stanno nel camposanto morti sì ma, nella fantasia ossessiva del poeta, misteriosamente coscienti, consapevoli e attenti a ciò che accade nel mondo dei vivi, ancora in un certo senso vivi, ma solo di dolore.
Così sembra a Pascoli di vederli:
Io vedo, vedo, vedo un camposanto,
oscura cosa nella notte oscura:
odo quel pianto della tomba, pianto
d'occhi lasciati dalla morte attenti,
pianto di cuori cui la sepoltura lasciò,
ma solo di dolor, viventi.

E in un giorno dei morti battuto dalla pioggia essi si stringono assieme, come a ricostituire sottoterra un'unità familiare, quella vera, più profonda.
Stretti tutti insieme,
insieme tutta la famiglia morta,
sotto il cipresso fumido che geme,
stretti così come altre sere al foco.

Si parlano l'un l'altro, si rivolgono al poeta, ma soprattutto incessantemente piangono, piangono per lamentare la condizione di oblio, di abbandono in cui si sentono lasciati.
E qui appare l'aspetto più inquietante appunto della fantasia mortuaria pascoliana: i morti abbandonati, indifesi, disperati, sono però qualcuno a cui ci si rivolge per cercare protezione, o meglio riconciliazione, se non perdono. Per quale colpa? Quella di essere vivi. Questo in fondo è l'animo con cui il pensiero di Giovanni Pascoli si rivolge al congiunto che un giorno sotterra, al verno, si risvegliò dal sogno della vita.
Franco Bergamasco (dalla rete)
 
 
Il giorno dei morti
 
Io vedo (come è questo giorno, oscuro!),
vedo nel cuore, vedo un camposanto
con un fosco cipresso alto sul muro.

E quel cipresso fumido si scaglia
allo scirocco: a ora a ora in pianto
sciogliesi l'infinita nuvolaglia.

O casa di mia gente, unica e mesta,
o casa di mio padre, unica e muta,
dove l'inonda e muove la tempesta;

o camposanto che sì crudi inverni
hai per mia madre gracile e sparuta,
oggi ti vedo tutto sempiterni

e crisantemi. A ogni croce roggia
pende come abbracciata una ghirlanda
donde gocciano lagrime di pioggia.

Sibila tra la festa lagrimosa
una folata, e tutto agita e sbanda.
Sazio ogni morto, di memorie, posa.

Non i miei morti. Stretti tutti insieme,
insieme tutta la famiglia morta,
sotto il cipresso fumido che geme,

stretti così come altre sere al foco
(urtava, come un povero, alla porta
il tramontano con brontolìo roco),

piangono. La pupilla umida e pia
ricerca gli altri visi a uno a uno
e forma un'altra lagrima per via.

Piangono, e quando un grido ch'esce stretto
in un sospiro, mormora, Nessuno! . . .
cupo rompe un singulto lor dal petto.

Levano bianche mani a bianchi volti,
non altri, udendo il pianto disusato,
sollevi il capo attonito ed ascolti.

Posa ogni morto; e nel suo sonno culla
qualche figlio de' figli, ancor non nato.
Nessuno! i morti miei gemono: nulla!

- O miei fratelli! - dice Margherita,
la pia fanciulla che sotterra, al verno,
si risvegliò dal sogno della vita:

- o miei fratelli, che bevete ancora
la luce, a cui mi mancano in eterno
gli occhi, assetati della dolce aurora;

o miei fratelli! nella notte oscura,
quando il silenzio v'opprimeva, e vana
l'ombra formicolava di paura;

io veniva leggiera al vostro letto;
Dormite! vi dicea soave e piana:
voi dormivate con le braccia al petto.

E ora, io tremo nella bara sola;
il dolce sonno ora perdei per sempre
io, senza un bacio, senza una parola.

E voi, fratelli, o miei minori, nulla! . . .
voi che cresceste, mentre qui, per sempre,
io son rimasta timida fanciulla.

Venite, intanto che la pioggia tace,
se vi fui madre e vergine sorella:
ditemi: Margherita, dormi in pace.

Ch'io l'oda il suono della vostra voce
ora che più non romba la procella:
io dormirò con le mie braccia in croce.

Nessuno!- Dice; e si rinnova il pianto,
e scroscia l'acqua: un impeto di vento
squassa il cipresso e corre il camposanto.

- O figli - geme il padre in mezzo al nero
fischiar dell'acqua - o figli che non sento
più da tanti anni! un altro cimitero

forse v'accolse e forse voi chiamate
la vostra mamma, nudi abbrividendo
sotto le nere sibilanti acquate.

E voi le braccia dall'asil lontano
a me tendete, siccome io le tendo,
figli, a voi, disperatamente invano.

O figli, figli! vi vedessi io mai!
io vorrei dirvi che in quel solo istante
per un'intera eternità v'amai.

In quel minuto avanti che morissi,
portai la mano al capo sanguinante,
e tutti, o figli miei, vi benedissi.

Io gettai un grido in quel minuto, e poi
mi pianse il cuore: come pianse e pianse!
e quel grido e quel pianto era per voi.

Oh! le parole mute ed infinite
che dissi! con qual mai strappo si franse
la vita viva delle vostre vite.

Serba la madre ai poveri miei figli:
non manchi loro il pane mai, né il tetto,
né chi li aiuti, né chi li consigli.

Un padre, o Dio, che muore ucciso, ascolta:
aggiungi alla lor vita, o benedetto,
quella che un uomo, non so chi, m'ha tolta.

Perdona all'uomo, che non so; perdona:
se non ha figli, egli non sa, buon Dio . . .
e se ha figlioli, in nome lor perdona.

Che sia felice; fagli le vie piane;
dagli oro e nome; dagli anche l'oblio;
tutto: ma i figli miei mangino il pane.

Così dissi in quel lampo senza fine;
Vi chiamai, muto, esangue, a uno a uno,
dalla più grandicella alle piccine.

Spariva a gli occhi il mondo fatto vano.
In tutto il mondo più non era alcuno.
Udii voi soli singhiozzar lontano. -

Dice; e più triste si rinnova il pianto;
più stridula, più gelida, più scura
scroscia la pioggia dentro il camposanto.

- No, babbo, vive, vivono - Chi parla?
Voce velata dalla sepoltura,
voce nuova, eppur nota ad ascoltarla,

o mio Luigi, o anima compagna!
come ti vedo abbrividire al vento
che ti percuote, all'acqua che ti bagna!

come mutato! sembra che tu sia
un bimbo ignudo, pieno di sgomento,
che chieda, a notte, al canto della via.

- Vivono, vive. Non udite in questa
notte una voce querula, argentina,
portata sino a noi dalla tempesta?

È la sorella che morì lontano,
che in questa notte, povera bambina,
chiama chiama dal poggio di Sogliano.

Chiama. Oh! poterle carezzare i biondi
riccioli qui, tra noi; fuori del nero
chiostro, de' sotterranei profondi!

Un'altra voce tu, fratello, ascolta;
dolce, triste, lontana; il tuo Ruggiero;
in cui, babbo, moristi un'altra volta.

Parlano i morti. Non è spento il cuore
né chiusi gli occhi a chi morì cercando,
a chi non pianse tutto il suo dolore.

E or per quanto stridula di vento
ombra ne dividesse, a quando a quando
udrei, come da vivo, il tuo lamento,

o mio Giovanni, che vegliai, che ressi,
che curai, che difesi, umile e buono,
e morii senza che rivedessi!

Avessi tu provato di quell'ora
ultima il freddo, e or quest'abbandono,
gemendo a noi ti volgeresti ancora.-

- Ma se vivete, perché, morti cuori,
solo è la nostra tomba illacrimata,
solo la nostra croce è senza fiori ?-

Così singhiozza Giacomo: poi geme:
- Quando sola restò la nidïata,
Iddio lo sa, come vi crebbi insieme:

se con pia legge l'umili vivande
tra voi divisi, e destinai de' pani
il più piccolo a me ch'ero il più grande;

se ribevvi le lagrime ribelli
per non far voi pensosi del domani,
se il pianto piansi in me di sei fratelli;

se al sibilar di questi truci venti,
al rombar di quest'acque, io suscitava
la buona fiamma d'eriche e sarmenti;

e io, quando vedea rosso ogni viso,
e più rossi i più piccoli, tremava
sì, del mio freddo, ma con un sorriso.

Ma non per me, non per me piango; io piango
per questa madre che, tra l'acqua, spera,
per questo padre che desìa, nel fango;

per questi santi, o fratel mio, che vivi;
di cui morendo io ti dicea . . . ma era
grossa la lingua e forse non udivi.-

Io vedo, vedo, vedo un camposanto,
oscura cosa nella notte oscura:
odo quel pianto della tomba, pianto

d'occhi lasciati dalla morte attenti,
pianto di cuori cui la sepoltura lasciò,
ma solo di dolor, viventi.

L'odo: ora scorre libero: nessuno
può risvegliarsi, tanto è notte, il vento
è così forte, il cielo è così bruno.

Nessuno udrà. La povera famiglia
può piangere. Nessuno, al suo lamento,
può dire: Altro è mio figlio! altra è mia figlia!

Aspettano. Oh! che notte di tempesta
piena d'un tremulo ululo ferino!
Non s'ode per le vie suono di pesta.

Uomini e fiere, in casolari e tane,
tacciono. Tutto è chiuso. Un contadino
socchiude l'uscio del tugurio al cane.

Piangono. Io vedo, vedo, vedo. Stanno
in cerchio, avvolti dall'assidua romba.
Aspetteranno, ancora, aspetteranno.

I figli morti stanno avvinti al padre
invendicato. Siede in una tomba.
(io vedo, io vedo) in mezzo a lor, mia madre.

Solleva ai morti, consolando, gli occhi,
e poi furtiva esplora l'ombra. Culla
due bimbi morti sopra i suoi ginocchi.

Li culla e piange con quelli occhi suoi,
piange per gli altri morti, e per se nulla,
e piange, o dolce madre! anche per noi;

e dice:- Forse non verranno. Ebbene,
pietà! Le tue due figlie, o sconsolato,
dicono, ora, in ginocchio, un po' di bene.

Forse un corredo cuciono, che preme:
per altri: tutto il giorno hanno agucchiato,
hanno agucchiato sospirando insieme.

E solo a notte i poveri occhi smorti
hanno levato, a un gemer di campane;
hanno pensato, invidïando, ai morti.

Ora, in ginocchio, pregano Maria
al suon delle campane, alte, lontane,
per chi qui giunse, e per chi resta in via

là; per chi vaga in mezzo alla tempesta,
per chi cammina, cammina, cammina,
e non ha pietra ove posar la testa.

Pietà pei figli che tu benedivi!
In questa notte che non mai declina,
orate requie, o figli morti, ai vivi!-
O madre! il cielo si riversa in pianto
oscuramente sopra il camposanto.

 
Giovanni Pascoli
Myricae 
( arbusta iuvant humilesque myricae)

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