La poesia
era la sua linfa vitale: «vivo della poesia come le vene del sangue», scrive
all’amico poeta Tullio Gadenz, ed è la dichiarazione di un ‘credo’ che, al di là
di ogni esperienza positiva o negativa, anzi all’interno di esse (perché la fuga
dalla vita non si addice alla Pozzi, nemmeno quando fa la scelta definitiva che
da essa la separa), acquista la forza di una vocazione e di un destino,
l’accettazione della vocazione di poeta, a costo della solitudine che essa può
comportare ed effettivamente comporta per la sua vita.
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Elihu Vedder - La Sibilla Cumana |
Certo è che, se per
Antonia Pozzi la poesia «ha questo compito sublime: di prendere tutto il dolore
che ci spumeggia e ci romba nell’anima e di placarlo, di trasfigurarlo nella
suprema calma dell’arte, così come sfociano i fiumi nella vastità celeste del
mare», essa esige anche la massima fedeltà, la massima sincerità; essa diviene
il metro di misura della propria vita, la «voce profonda» che denuncia gli
smarrimenti e le inadempienze con il suo silenzio – tu che allora ti neghi e
taci - (Preghiera alla poesia); e il silenzio è la peggiore punizione per chi
sente la poesia come carne della propria carne.
Quando Antonia pensa e scrive
queste cose, nel 1934, è ancora in una situazione di dubbio riguardo al suo
‘essere’ poeta, anche se sente, per una urgenza interiore, che quella è la
strada sulla quale è chiamata a camminare. Per questo, per «questa febbre di
veder chiari i miei limiti», mostra le sue poesie al professore di estetica,
Antonio Banfi, con il quale sta preparando la tesi di laurea; e non ne riceve
alcun incoraggiamento.
È il 4 febbraio 1935: giorno della sconsolatezza, si
potrebbe dire.
Ma il 13 febbraio successivo – ed è il giorno del suo compleanno!
– nasce la poesia Un destino: Antonia ha deciso che la sua vita è e non
potrà essere se non quella della poesia: « ora accetti/ d’esser poeta»; ha
trovato la sua foce, ha trovato l’infinito sorriso delle «libere
stelle» sopra di sé, sopra la sua solitudine.
È una decisione e
ogni decisione è un taglio netto, che fa sanguinare la vita, è vero, ma che la
rigenera, anche, facendo scaturire dal dolore la gioia, dal silenzio del deserto
la parola poetica.
La poesia non è dunque una gratificazione, una consolazione,
ma «una catarsi del dolore, come l’immensità della morte è una catarsi della
vita»: sono parole sue, a Gadenz. Ai lumi, guida sicura perché qualcuno
li tiene accesi, si contrappone la «pallida strada nella notte» che solo il
vento scopre (buio, incertezza, instabilità) e «l’argenteo lume delle stelle»
che trema (non vi si legge il tremito del poeta, posto di fronte a una scelta
dalla quale dipenderà la sua vita?); alle capanne (sicurezza, calore,
affetti, conforto) fa da contrappunto l’immagine dei torrenti che precipitano a
valle (angoscia, tumulto di sentimenti, sensazione di crollo di fronte alle
asperità della vita); il loro chiuso tepore si congela e si spalanca su «l’erba
dei pascoli», sulla volta stellata del cielo, sul «limpido deserto dei
monti»: una sequenza di luoghi aperti ad ogni possibile evento, senza pareti
amiche, senza confortevoli fuochi.
La «pallida strada» sfocia nel limpido
deserto: passaggio quanto mai emblematico: da un luogo stretto entro limiti e
confini precisi, dove è possibile procedere, sotto il lucore stellare, solamente
a fatica e tuttavia con un certa sicurezza, proprio perché strada, a uno spazio
aperto, senza limiti e confini e, per questo, col rischio del naufragio; ma è
uno spazio «limpido», totalmente illuminato, dove è possibile vedere tutto,
anche se questo tutto è il «deserto». Ma il deserto è colmato dalla libertà
interiore, dalla coscienza di essere, non solo hic et nunc, ma per la vita, con
una propria realtà da comunicare con la parola, da trasfigurare in simbolo:
nella solitudine più disperante sgorga, come un fiume che finalmente trova la
foce, una gioia che è più grande del dolore, anche se questo si macera nel
profondo dell’io.
Si attuano, allora, l’ungarettiano «M’illumino / d’immenso» e
il «naufragar dolce» leopardiano, che coincidono, nella Pozzi, con
l’accettazione sofferta, dolorosa e dolorante, ma liberante, del dono della
poesia per sé e per gli altri: «ora accetti/ d’esser poeta».
Onorina Dino (dalla rete)
Un destino
Lumi e capanne
ai bivi
chiamarono i compagni.
A te resta
questa che il vento ti disvela
pallida strada nella notte:
alla tua sete
la precipite acqua dei torrenti,
alla persona stanca
l’erba dei pascoli che si rinnova
nello spazio di un sonno.
In un suo fuoco assorto
ciascuno degli umani
ad un’unica vita si abbandona.
Ma sul lento
tuo andar di fiume che non trova foce,
l’argenteo lume di infinite
vite – delle libere stelle
ora trema:
e se nessuna porta
s’apre alla tua fatica,
se ridato
t’è ad ogni passo il peso del tuo volto,
se è tua
questa che è più di un dolore
gioia di continuare sola
nel limpido deserto dei tuoi monti
ora accetti
d’esser poeta.
Antonia Pozzi
13 febbraio 1935
destini,
solitari,
incrociati;
destini
alla deriva,
finiti;
rivedo e rivivo
cose e persone
nel silenzio
o nel vocio fastidioso,
rivoglio me stesso
rivendico
innati diritti...