ho ancora in tasca un biglietto inutilizzato
non leggo tra le righe significati riposti
non immagino altro che un dispettoso dolore
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E trascende il dolore in un rivolo di immagini e pensieri,
come una scia di interminabili esiti scontati, come un parallelo forzato.
La potenza della situazione schiaccia le deboli linee di
difesa e le lacrime (sempre le lacrime) rigano i solchi delle gote, nelle
pieghe del buio notturno, o nella fioca luce della mattina nebbiosa.
Si pente l’assillata anima di un peccato senile,
rimangia frasi, parole, pensieri; il nudo abbraccio è scortese e l’immagine
bionda schiarisce fino a sfocare in luce abbagliante e scottare il muscolo
cardiaco esposto alle infinite abrasioni di tutta un’eroica esistenza.
Città indivisibili dai sogni realizzati sfilano profili
e margini taglienti in miriadi di toni intristiti dal grigiore pallido della
fine di un anno indiscutibilmente trascorso.
Parigi!
O Cara!
Il deserto tartarico dei sentimenti inaridisce il contesto, come
fosse una vena disseccata dall’arsura del sapere, dalle fake di ogni giorno che
passa; indico una direzione nascosta e la mia vita si gira a guardare, la vedo
scuotere teneramente il capo.
La riva nebbiosa argina la luce del giorno, pensieri
oscuri macchiano da sempre anime candide o presunte tali.
Dove sono i cavalieri del Re?
Rimane impigliato un grido ora che sono un assillo che
assilla.
Bordeggio strade sconosciute ormai conscio del fatto, ho
inghiottito un sospiro come un banale innamorato di un irraggiungibile sogno,
sono cosparso di parole e significati oppure (molto probabile) incompreso e
schernito da una vendetta postuma che non ha prodotto che lievi analgesici
battiti di ciglia in un chiaroscuro presente.
La mia persona sovrasta i cristallizzati contorni di un
inverno latente che ricorda la neve, il ghiaccio e si fonde in un imperterrito
gesto ribelle e svogliato... la galaverna è rimasta a quand’ero bambino.
Futili ed impietose cornici contornano le didascaliche
ombre della malinconica presenza.
Ricordo le parole di un sogno che ora riparte…
“…Sei tornato da
me…”
Il silenzio stupisce le didascalie consunte del vecchio film in proiezione continua.
“...Sto troppo bene… non capisci…”
Come in un cortometraggio danneggiato dal tempo i
fotogrammi si inceppano e il filmato si brucia al calore di un’unica visione
che ci toccherà proiettare in un loop infinito nei soli ricordi…
“…Ricordi..?
Ma tu non ricorderesti…”
Ricordare è privilegio di pochi, ancor di più lo è
ricordare con le giuste punteggiature e le parole dette diventano pietre preziose
e così pesanti che ne impediscono lo spostamento e le variazioni di significato
e interpretazione.
Siamo esposti alla furia animale di un corpo che invecchia
e la sorda rabbia non può che imploderci dentro con sconquassanti esiti di
macerie e dolori; infine il tragico epilogo si riallaccia al prologo, quasi
sempre.
Crediamo che il tempo possa darci ragione o risposte,
crediamo che la furia vendicatrice che dentro di noi ci urla possa darci
conforto nella realizzazione di un covato contesto ma non è mai così, l’effetto
analgesico di un bacio dura lo spazio di infinitesimi attimi, un abbraccio si
carica di eternità effimere, l’amplesso si riduce ad un contatto frugale.
Siamo isole nell’oceano solitario della nostra mente, ci
crediamo approdi e invece noi siamo i naufraghi ed il naufragio.
Lasciamo piccoli segnali nel nostro percorso ma
preferiamo la via della parole semplici, dei significati univoci senza raccogliere
le bottiglie arenate sulla spiaggia per paura di trovarci dei messaggi da
leggere che potrebbero minare le nostre fredde presenze.
Le futilità alimentano il vivere, la quotidianità,
mentre le nebbie avvolgono le nostre
anime; il mio volto si dilegua alla vista di chi ancora mi cerca per aver un
qualcosa di cui vergognarsi.
La storia infinita che sono sospira nel pomeriggio
inoltrato ridotto a una sagoma indistinta e silente.
La fredda sala d’aspetto rimane un angolo asciutto e
riparato mentre il vento trasporta folate di pioggia sui vetri ridotti a
frantumi, cicliche litanie sciorinano passaggi di treni invisibili diretti al
centro del cuore che è sempre subbuglio; trattengo un conato di vomito e
disgusto per quello che non vorrei essere ma a volte trapela ed ammanta di buio
il mio eroico e tattico stoicismo.
“La paura uccide la mente…”
Allora meglio non pensare, rifugiarsi nei comodi
abbracci delle delizie quotidiane fatte di cibi, bevande e fisici sfoghi;
pagando si intende per la droga del corpo o quella dell’anima.
Conosco soluzioni previste e prevedibili, ed il
quotidiano fatto di gesti consumati o di strade note dalle quali è deleterio
deviare.
Ho sonno la notte ma fatico a dormire, il peso degli
anni incombe come pesante fardello in cui rovistare alla ricerca di medicamenti
portentosi che leniscano le mille ferite e le cicatrici che solcano i visceri.
Ora ascolto il lamento della terra, la noia di un giorno
qualsiasi, una canzone che sento lontana e fatico a distinguere; ho freddo, ho
quasi la nausea.
Prosegue la ricerca di approdo, di aiuto, vedo in altri
l’oblio fatto di consuete abitudini, vedo anche i rapporti cambiare, divenire
scogli a cui aggrapparsi per non affogare (ed erano prima spiagge assolate) nello
svolgersi delle eterne tempeste dell’anima.
Musicalmente stanco mi stacco dal pianoforte (che mai ho suonato) per inseguire le note che non so più ascoltare, il suono si stempera nell'oscurità e svanisce.
La ricerca continua a fatica, le strade si riempiono di
ostacoli e la luce d’inverno è fioca e a malapena illumina lo stretto cammino
ma continuo a percorrere la vita da Pellegrino Incostante che sono, un viaggio
iniziato agli albori del tempo, un viatico religiosamente in progresso.
Frasi sottolineate risaltano il libro dei miei
avventurosi trascorsi, costipati resoconti corollati di falsità che ora credo
per vere costellano il fiume in piena della mia vita e non c’è diga che lo
possa arginare.