e di soffrire – all’uno, all’altro vai
rassegnata –
Ascolto e mi giunge una tua voce.
Non di rimpianto per la miserabile
giovinezza, non d’ira o di rivolta
e neppure di tedio.
Ammutolita
giaci col corpo in una disperata
indifferenza.
Non ci stupiremmo,
non è vero, mia anima, se adesso
il cuore s’arrestasse, se sospeso
ci fosse il fiato…
Invece camminiamo.
Invece camminiamo.
E gli alberi son alberi, le case
sono case, le donne
che passano son donne e tutto è quello
che è – quello che è.
La vicenda di gioia e di dolore
non ci tocca. Perduto ha la voce
la sirena del mondo e il mondo è un grande
deserto.
Nel deserto
io guardo con asciutti occhi me stesso.
Camillo Sbarbaro
Camillo Sbarbaro
la tristezza accompagna il pianto,
arriva il mese dei morti,
i giardini si riempiono di colori,
i cimiteri si affollano di gente...
Questi primi versi della raccolta poetica intitolata Pianissimo, pubblicati nel 1913 sulla Riviera Ligure e poi più volte ristampati, sono il manifesto, tanto sommesso quanto lucido e forte, della poetica di Camillo Sbarbaro, ligure come Eugenio Montale, di cui sembra anticipare la visione scabra e disillusa della realtà. Sommessa e antioratoria, apparentemente quasi prosastica (tanto che non ha bisogno di note; ma la metrica è a posto: agli endecasillabi sciolti si alternano settenari, quaternari e novenari), la scrittura è sorprendentemente moderna: va al di là non solo del lirismo carducciano, pascoliano e dannunziano, ma anche della malinconia crepuscolare (così cara a molti dei poeti liguri).
Eppure il poeta conserva echi dell’ispirazione introspettiva di un Giacomo Leopardi e di un Charles Baudelaire; e pare, come loro, sporgersi sull’abisso per contemplare con occhi asciutti se stesso e il grande deserto del mondo (dalla rete).
Eppure il poeta conserva echi dell’ispirazione introspettiva di un Giacomo Leopardi e di un Charles Baudelaire; e pare, come loro, sporgersi sull’abisso per contemplare con occhi asciutti se stesso e il grande deserto del mondo (dalla rete).
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