superstite
/su·pèr·sti·te/
aggettivo e sostantivo maschile e femminile
[dal lat. superstes -stĭtis, comp. di super- e tema di stare «stare»].
- TRECCANI -
[dal lat. superstes -stĭtis, comp. di super- e tema di stare «stare»].
- TRECCANI -
Chi sopravvive ad altri, o è scampato a una sciagura in cui altri hanno trovato la morte: passeggeri superstiti di un disastro aereo; come sostantivo: i superstiti della strage; i superstiti del terremoto, della spedizione; il disastro ferroviario nel racconto dei superstiti, genitori superstiti ai figli.
"mi sentivo paurosamente sciolto dalla vita, superstite di me stesso (Pirandello)".
figurato, di cose sopravvissute all'opera distruttrice degli uomini e del tempo: i grappoli d’uva superstiti alla grandine; le superstiti rovine di Roma antica; e scherzoso: è rimasto ancora questo pasticcino, unico superstite della golosità dei ragazzi. (dalla rete)
"mi sentivo paurosamente sciolto dalla vita, superstite di me stesso (Pirandello)".
figurato, di cose sopravvissute all'opera distruttrice degli uomini e del tempo: i grappoli d’uva superstiti alla grandine; le superstiti rovine di Roma antica; e scherzoso: è rimasto ancora questo pasticcino, unico superstite della golosità dei ragazzi. (dalla rete)
Una superstite falda di neve, Associazione Italiana Acquarellisti (AIA) |
Superstite
Della chiesa superba
Questo avanzo rimane,
Quattro livide mura, un arco immane,
La distesa scalea vestita d’erba.
Questo avanzo rimane,
Quattro livide mura, un arco immane,
La distesa scalea vestita d’erba.
Dal ciel guata la luna
L’ignudo altar, gl’inscritti
Sepolcri e il muto pulpito e i diritti
Pilastri cui la fosca edera abbruna,
E gli alti, vaneggianti
Finestroni all’ingiro,
Ove su fondi d’oro e di zaffiro
Un giorno sfavillâr madonne e santi.
Tra le deserte mura
Tutto è silenzio e morte;
D’una vita che fu, d’un’altra sorte,
Un solo e vivo testimonio or dura.
Dietro alla vota occhiaja
Dell’orïuolo incombe
Alla ruina e le forbite trombe
Ancor lo smisurato organo appaia.
Ancor grandeggia e brilla
Sotto la buja volta,
E par che intuoni a un popolo che ascolta
L’orror del Dies irae dies illa.
Ma ne’ fianchi l’intenso
Fiato più non comprime.
Più non rompe terribile e sublime
Dalle cento sue bocche il canto immenso.
E sol talora, quando
Nei cilindri sonori
S’ingorga un venticel, l’aria di fuori
Freme d’un canto doloroso e blando:
E sulla sponda estrema
Della grigia parete
Alcun pallido fior morto di sete
Sul flessuoso stel palpita e trema.
Arturo Graf
unico di tanti,
poco di pochi,
ancora qui a scrivere,
superstite, sopravvissuto, stanco...
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