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L'ombra è l'opposto del sole, ma si nutre di esso.
Un cielo grigio non genera ombre: nessun contrasto, nessun pensiero.


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sabato 17 maggio 2014

Le rive dei salici

Salice, nome generico delle varie specie di piante del genere Salix e dei vimini ottenuti dai rami di alcune di queste (Salix alba, Salix viminalis, Salix purpurea ecc.). Il genere Salix, della famiglia Salicacee, comprende numerose specie di alberi o arbusti diffusi quasi esclusivamente nell’emisfero boreale, frequenti nei luoghi umidi, come le rive dei corsi d’acqua, suoli torbosi ecc.
I s. hanno foglie alterne, stipolate, per lo più allungate; i fiori dioici sono riuniti in amenti, quelli maschili hanno 1, 2 o 3-6 stami, mentre i femminili hanno un pistillo bicarpellare uniloculare, che dà una capsula deiscente in due valve con numerosi semi provvisti alla loro base di un ciuffo di peli. Sono note varie centinaia di ibridi, naturali e artificiali, spesso coltivati come piante ornamentali. Particolarmente diffuso nei giardini è Salix babylonica, detto s. piangente, originario della Cina, distinto per i rami molto lunghi e pendenti; si moltiplica soltanto per talee, sicché tutte le piante coltivate in Europa provengono in definitiva da rami di piante femminili, introdotte dal Medio Oriente.
Il legno di s. è bianco, facilmente lavorabile ma poco durevole. In passato veniva utilizzato per sedie, mastelli, botti o per farne un carbone particolarmente usato nella fabbricazione delle polveri da sparo. La corteccia dei rami giovani di varie specie di s., ridotta in strisce sottili è utilizzata in erboristeria come antireumatico, antitermico e astringente. Ha sapore amaro e contiene salicina (0,5-4%) e tannino (10-12%). In passato veniva anche usata per la concia delle pelli e dava un cuoio chiaro, morbido, dall’odore caratteristico, detto cuoio di Russia.
Le Salicacee sono una famiglia di piante Dicotiledoni, ordine Malpighiali, comprendenti alberi o arbusti chiaramente monofiletici sulla base di caratteri sinapomorfi (cladismo) relativi ai fiori nudi, dioici, disposti in amenti eretti o penduli, i sepali più o meno vestigiali e i semi con ciuffo basale di peli per la disseminazione anemocora. Alcuni sistematici in passato hanno considerato le Salicacee come una famiglia primitiva per l’infiorescenza ad amento e le hanno poste tra le Amentifere, un gruppo polifiletico comprendente anche Betulacee, Fagacee, Iuglandacee e Platanacee. Al contrario, sembra che i fiori altamente ridotti delle Salicacee non siano affatto primitivi e che l’impollinazione anemofila si sia evoluta numerose volte all’interno delle Angiosperme. Le Salicacee sono diffuse in prevalenza nell’emisfero boreale, e vengono ascritte ai generi Populus (pioppo) e Salix.
La salicina è un glicoside, di formula C6H11O5OC6H4CH2OH, contenuto nella corteccia del s. e del pioppo: si presenta in prismi o lamelle romboidali, bianchi, splendenti, inodori, di sapore molto amaro, solubili in acqua e in alcol, insolubili in etere. È dotata di azione antireumatica e antipiretica (Enciclopedia TRECCANI).

Le rive dei salici

Le rive dei salici
omdeggiano fronde
sul fiume tranquillo
proiettano giochi di ombre;
seduto in disparte respiro
questo alito lieve, profumo
di intenso vivere continuo.
Frastagliano luci tra i rami
raggi di un tiepido sole;
mi sono assopito nell'erba
tra rumori di grilli e cicale.
Mi è dolce il pensare
tra le rive dei salici
il peso mortale è leggro
e il petto non ansima
la bocca non cerca
il sapore dell'aria tra i denti
e il cuore finalmente tranquillo.

Anonimo
del XX° secolo
poesie ritrovate



Il termine salice ha origini celtiche, significa "vicino all'acqua".
Per molti popoli antichi i fiumi presso cui i salici crescevano non erano altro che le lacrime emesse da questi alberi dalle lunghe e argentate foglie.
Il salice è un albero sia simbolicamente che naturalmente in stretta correlazione con l'elemento acquatico, in particolare con la magia delle acque.
Da sempre il salice è considerato una divinità femminile, legato alla fecondità e ai cicli lunari e muliebri, secondo le leggende evocatore di pioggia e nebbie.
Nella tradizione celtica il culto del salice era molto sentito, nel calendario veniva considerato il quinto albero dell'anno ( periodo che andava dal 12 aprile al 15 Maggio cioè le Calendimaggio).
I druidi celebravano i sacri riti ponendo le offerte in ceste di salice, gli strumenti musicali che utilizzavano per incantare il popolo con suadenti melodie erano costruiti con il flessuoso legno di salice, capace di far risuonare la voce del vento e della natura tra le sue fronde.

Il salice è un arbusto che cresce bene nei luoghi umidi, poiché ama la facile provvista di acqua naturale sorgiva, suo elemento vitale, i torrenti e i fiumi sono la sua “terra”. Il suo nome significa “alba” ed è forse legato alla chiarezza e bellezza delle sue foglie, così delicate.
Molto utile in campagna per intrecciare cesti, fare scope e per legare le viti, grazie ai suoi rami ben flessibili.
Anticamente sacro per Demetra e alla Luna, è usanza ancora oggi, nel giorno della Candelora il 2 febbraio, prendere un ramo di salice e metterlo in casa come protezione dalle inondazioni. Ippocrate, il Padre della Medicina, curava febbre e dolori con la corteccia di questa pianta, che infatti è ricca di tannini e ha proprietà febbrifughe, inoltre può sciogliere le contrazioni muscolari e curare in generale i sintomi del raffreddore.
Si parla del salice anche tra gli  antichi scritti dei Sumeri, nel Papiro Ebers egiziano del 1500 a.C., in cui si elencano circa 800 rimedi a base di erbe.

Le preparazioni naturali a base di salice, che si possono trovare in commercio soprattutto nelle erboristerie, possono rappresentare un’ottima alternativa all’acido salicilico di tipo sintetico.
Per il raffreddore è particolarmente indicato un estratto di salice unito ad estratti naturali di piante ricche di vitamina C, come ad esempio la rosa canina, adatto per dare nuova forza al sistema immunitario, ad esso si potrà unire il
propoli
.
La natura non finirà mai di stupirmi: il salice, come detto in apertura, cresce spontaneamente lungo i corsi d’acqua piccoli o medi o anche grandi, e chi vive in zone come queste spesso soffre proprio di mali legati all’eccessiva umidità, ecco la soluzione a portata di mano offerta dalla Madre Terra, senza acquistare medicine sintetiche basta conoscere le pianete e le loro proprietà e sapersi curare in modo sano, unito a una buona alimentazione, che in questo caso dovrà essere ricca di frutta e verdura, vitamina C e fibre e soprattutto di acqua per essere sempre idratati.
Ideale il salice bianco anche per combattere il male alle articolazioni, durante la menopausa può migliorare le vampate di calore, le cefalee o ancora gastroenteriti e diarree provocate dal caldo eccessivo.

SaliceLa corteccia è possibile raccoglierla durante tutto l’anno (anche se il periodo migliore è la primavera), ma solo da alberi di almeno 2 o 5 anni, e va raccolta in pezzi abbastanza grossi, per poi essere polverizzata prima dell’uso.
Ma quanta corteccia si può usare per i problemi di raffreddore e gli altri sopra citati? Si deve prima di tutto dire che il rimedio è sottoforma d’infuso, in cui si usa un cucchiaino di corteccia in circa 200 ml di acqua bollente da bere per 3 volte al giorno, per le dosi per i bambini consultarsi con il medico
(dalla rete).

venerdì 16 maggio 2014

Tavolo

Il tavolo è un mobile costituito da un piano orizzontale di legno, metallo, plastica o altro materiale rigido sostenuto da tre, quattro o più gambe, di forma e dimensioni diverse a seconda dell'uso a cui è adibito. Può anche essere sostenuto da una colonna centrale, in questo caso di solito ha un aspetto più elegante e una superficie più limitata e spesso circolare.
Il tavolo viene usato in cucina o in sala da pranzo per consumarvi le vivande. Può essere però usato in alternativa alla scrivania in uno studio o in ufficio.
A seconda delle varie culture può cambiare dimensioni e forme. Per esempio, in culture dove si è soliti sedersi su tappeti o cuscini le gambe del tavolo sono molto corte.
Esistono diversi tipi di tavolo:
  • da cucina,
  • da pranzo,
  • tavolino da salotto, basso
  • da gioco, quadrato (o rotondo)
  • da disegno,
  • da caffè, piccolo, può essere retto da una sola gamba
  • da campeggio, con gambe ripiegabili
  • a consolle
  • allungabile
  • da biliardo
  • degli Ufficiali di campo
Durante la mostra delle invenzioni svoltasi nel 1988 nell'isola di Taiwan fu presentato un tavolo da pranzo con il piano formato da centinaia di fogli di plastica sovrapposti e aderenti l'uno all'altro: alla fine di ogni pasto era sufficiente rimuovere il foglio più superficiale per avere una superficie pulita (da wikipedia).

Sul tavolo

Ci terrei a precisare che ho comprato
questa tovaglia
con il suo semplice disegno ripetitivo
di fiori viola scuro non menzionati
da alcun botanico
perché mi ricorda quel vestito stampato
che indossavi
l’estate che ci siamo conosciuti (un vestito
– hai sempre sostenuto –
che non ti ho mai detto che mi piaceva).
Be’, mi piaceva, sai. Mi piaceva.
Mi piaceva un sacco, che ci fossi tu dentro
oppure no.
Come è potuto uscirsene così in silenzio
dalla nostra vita?
Detesto (proprio detesto) l’idea di qualche
altro sedere
che faccia svolazzare a sinistra e a destra
quelle pesanti corolle.
Detesto ancor più immaginarmelo sgretolarsi
in una discarica
o fatto a brandelli – un pezzo qui che pulisce
un’astina dell’olio
un pezzo là intorno a una crepa in un tubo
di piombo.

È passato tanto tempo ormai, amore mio,
tanto tempo,
ma stanotte proprio come la nostra prima
notte sono qua,
la testa leggera tra le mani e il bicchiere
pieno,
che fisso i grossi petali sonnolenti fino
a quando si mettono in moto,
amandoli ma con il desiderio di sollevarli,
di schiuderli,
persino di farli a pezzi, se questo è quanto
ci vuole per arrivare
alla tua bellissima pelle, desiderosa,
calda, candida come la luna.

Andrew Motion
Traduzione di Helena Sanson



con i fogli
e le penne,
sul tavolo
del mio pensiero
tutte le frasi
mai scritte
tutti i poemi composti
e quelli da
scrivere ancora...

giovedì 15 maggio 2014

Il drago di Wawel


Tanto tempo fa, sulle rive del fiume Vistola, c’ era una gran rupe che dominava la pianura. Nessuno ci andava mai, soprattutto verso sera, e se qualcuno ci passava accanto si faceva cento volte il segno della croce, perché quello era un luogo maledetto. Sulla rupe, infatti, viveva il piú grosso drago che si fosse mai visto, con zanne e unghie e scaglie grossissime, e una bocca immensa che sputava fiamme e inghiottiva buoi e cavalli come fossero confetti. Ma, quel che è peggio, il drago di Wawel era anche ghiotto di carne umana, e andava pazzo per i bambini piccoli e grassi. Era colpa sua se nel paese regnava il terrore, e alla fine i contadini, dispe
rati, decisero di chiedere aiuto al re Krakus, che viveva nel suo castello in cima a una collina insieme ai figli Krak e Lech, forti e coraggiosi. A sentir parlare di un drago, Krakus e Krak si sentirono prudere le mani: quella era un’impresa per loro! Ma Lech non era d’accordo, e disse:
”È una pazzia rischiare la vita di un re e di un principe solo per salvare quattro contadini sporchi e paurosi! Io non vi accompagnerò, state sicuri!”
In fondo al cuore, però, sperava che il drago si mangiasse sia il padre che il fratello, così lui sarebbe diventato re, con tanto di corona d’oro in testa.
Krakus e Kak, invece, decisero di montar subito a cavallo per sorprendere il drago nella sua tana, e stavano già uscendo dal castello quando il loro capo falconiere, Skuba, li trattenne:
”Signori, dove andate? Non sapete che contro la corazza del drago le lance si spezzano e le pietre rimbalzano, che la pece bollente gli scivola addosso senza bruciarlo, e che il suo alito di fuoco potrebbe arrostirvi a mille metri di distanza? È impossibile ucciderlo con la forza, bisogna usare l’astuzia!“
”L’astuzia è un’arma che non mi piace ” disse Krakus ”io preferisco vedere in faccia i miei nemici.“
”Ma non stai affrontando un bisonte selvaggio della prateria o un’altra bestia nobile, degna di lottare contro il re! Morirai sicuramente, se lo combatterai in campo aperto. Io, invece, ti consiglio di prendere un bel montone arrosto e di riempirgli la pancia di zolfo e pece. Lo lasceremo sotto la rupe, e quando il drago lo inghiottirà, si ritroverà in pancia un intruglio infuocato che lo farà crepare.“
Alla fine re e principe si convinsero, e Skuba preparò il montone. Poi tutti e tre cavalcarono verso Wawel, mentre già scendeva la sera. Appena arrivati, Krakus prese il montone e andò a posarlo sul sentiero ai piedi della rupe, e subito si vide il rosso delle fiamme: il drago si era svegliato, e spalancava la bocca in un enorme sbadiglio. Allora i cavalli, impazziti di paura, fuggirono al galoppo trascinando con sé i cavalieri: ma Skuba rimase a terra, e i suoi padroni lo videro correre a nascondersi tra gli alberi. Quando arrivarono al castello, il re e suo figlio erano pesti e doloranti per la lunga corsa. Avrebbero voluto tornare indietro per cercare il falconiere, ma ormai era notte, e non poterono far nulla. Krakus e Krak sedevano tristamente davanti ai loro boccali di birra: sembrava proprio che la loro impresa fosse fallita, e il cattivo Lech li guardava con un mezzo sorriso. Era convinto che il popolo si sarebbe rivoltato contro un re così incapace, e che avrebbe scelto lui al suo posto.
Ma ecco, sotto le finestre del castello si sentirono grida e canzoni: “Viva Krakus, viva il principe Krak!“
Erano i contadini che, portando in trionfo Skuba, si affollavano davanti al portone. Dunque il falconiere si era salvato! Skuba entrò nel salone, con gli abiti a brandelli ma pieno di gioia e, inginocchiandosi davanti al suo re, disse:
”Il drago è morto! Dopo che i cavalli vi hanno trascinato via, io sono corso a nascondermi, e di lontano ho potuto vedere quel maledetto mostro che mandava giù il montone tutto intero. Ma sembrava che lo zolfo e la pece non facessero effetto, finché ... finché è sceso a bere l’acqua della Vistola. Il montone ripieno gli aveva fatto venire tanta sete che non riusciva piú a smettere, e ha bevuto al punto che alla fine è scoppiato: dalla sua pancia l’acqua usciva a fiumi!
Fu così che il drago di Wawel venne sconfitto, e i festeggiamenti andarono avanti tutta la notte (l’unico che ci rimase male fu Lech, naturalmente, ma lui non contava). E il giorno dopo Krakus decise di costruire, sulla rupe di Wawel, un castello fortificato, e di abbattere il bosco per fondare una città che si sarebbe chiamata Cracovia.(Julia Runggaldier 2001/2002)

favole strappano
a noi lunghi pensieri;
la notte, come il giorno,
riposa negli occhi sognanti...

mercoledì 14 maggio 2014

Testamento

Brano dal mio testamento

Non voglio che tu sia lo zimbello del mondo.
Ti lascio il sole che lasciò mio padre
a me. Le stelle brilleranno uguali, e uguali
t’indurranno le notti a dolce sonno,
il mare t’empirà di sogni. Ti lascio
il mio sorriso amareggiato: fanne scialo,
ma non tradirmi. Il mondo è povero
oggi. S’è tanto insanguinato questo mondo
ed è rimasto povero. Diventa ricco tu
guadagnando l’amore del mondo.
Ti lascio la mia lotta incompiuta
e l’arma con la canna arroventata.
Non l’appendere al muro. Il mondo ne ha bisogno.
Ti lascio il mio cordoglio. Tanta pena
vinta nelle battaglie del mio tempo.
E ricorda. Quest’ordine ti lascio.
Ricordare vuol dire non morire.
Non dire mai che sono stato indegno, che
disperazione m’ha portato avanti e son rimasto
indietro, al di qua della trincea.
Ho gridato, gridato mille e mille volte no,
ma soffiava un gran vento, e pioggia, e grandine:
hanno sepolto la mia voce. Ti lascio
la mia storia vergata con la mano
d’una qualche speranza. A te finirla.
Ti lascio i simulacri degli eroi
con le mani mozzate, ragazzi che non fecero a tempo
ad assumere austera forma d’uomo,
madri vestite di bruno, fanciulle violentate.
Ti lascio la memoria di Belsen e di Auschwitz.
Fa’ presto a farti grande. Nutri bene
il tuo gracile cuore con la carne
della pace del mondo, ragazzo, ragazzo.
Impara che milioni di fratelli innocenti
svanirono d’un tratto nelle nevi gelate
in una tomba comune e spregiata.
Si chiamano nemici: gia! i nemici dell’odio.
Ti lascio l’indirizzo della tomba
perché tu vada a leggere l’epigrafe.
Ti lascio accampamenti
d’una città con tanti prigionieri:
dicono sempre sì, ma dentro loro mugghia
l’imprigionato no dell’uomo libero.
Anch’io sono di quelli che dicono, di fuori,
il sì della necessità, ma nutro, dentro, il no.
Così è stato il mio tempo. Gira l’occhio
dolce al nostro crepuscolo amaro.
Il pane è fatto pietra, l’acqua fango,
la verità un uccello che non canta.
È questo che ti lascio. Io conquistai il coraggio
d’essere fiero. Sfòrzati di vivere.
Salta il fosso da solo e fatti libero.
Attendo nuove. È questo che ti lascio.

Kriton Athanasulis
Traduzione di Filippo Maria Pontani




quando
il tempo
sfiorerà le cose
sarà caldo
o
paesaggio solatio...


Il testamento è l'atto giuridico mediante il quale una persona manifesta il proprio volere e dispone dei propri diritti per il tempo in cui avrà cessato di vivere.
Il testamento nasce dell'idea di attribuire rilevanza alla volontà del de cuius all'interno della successione a causa di morte e permettergli di decidere a chi attribuire i propri beni o diritti.
Esso è un atto unilaterale, mortis causa, di natura personale.
Le dichiarazioni in esso contenute hanno generalmente contenuto patrimoniale o comunque in grado di produrre effetti nell'ordinamento giuridico. Tuttavia può contenere anche dichiarazioni di tipo morale, filosofico, politico o di altra specie. Nell'antica Roma esistevano tre diverse procedure per effettuare testamento:
1 pubblicamente a Roma, davanti a Comitia Calata;
2 prima di scendere in battaglia; in questi casi, scudo in mano e toga stretta alla vita, davanti a tra commilitoni, nominavano verbalmente il proprio erede;
3 con l'alienazione del patrimonio.
La revocazione testamentaria si può avere anche quando nascono figli successivamente alla data del testamento (revocazione di diritto per sopravvivenza di figli).
La revocazione del testamento è una facoltà concessa al testatore di revocare in qualsiasi momento il testamento o modificare le volontà contenute nel documento testatorio. Esso può essere esplicito o implicito: Esplicito quando un successivo testamento revoca esplicitamente il precedente. Implicito quando il contenuto del testamento successivo è incompatibile con quello precedente.
In Italia è regolato dall'art. 687 C.C. (da wikipedia) 

lunedì 12 maggio 2014

Promemoria

Memento

Quando bacio il tuo labbro profumato,
cara fanciulla non posso obbliare
che un bianco teschio vi è sotto celato.
Quando a me stringo il tuo corpo vezzoso,
obbliar non poss'io, cara fanciulla,
che vi è sotto uno scheletro nascosto.
E nell'orrenda visione assorto,
dovunque o tocchi, o baci, o la man posi,
sento sporger le fredde ossa di un morto.

Iginio Tarchetti

realtà
fatta di tutto
unicamente,
solamente,
fortemente...


Tutta la poesia è basata sull’antitesi vita/morte.
Le prime due terzine ripetono la stessa costruzione e un lessico simile: l’inizio di ogni verso segue apparentemente schemi tradizionali con il ricorso al linguaggio aulico classico (labbro profumato, cara fanciulla, corpo vezzoso) a cui si contrappone nella conclusione il richiamo a motivi macabri (bianco teschio, scheletro nascosto).
Il tema ossessivo e ripetuto è la morte nascosta dietro la bellezza del corpo della donna. L’ultima terzina chiude accentuando il tono lugubre e terrificante e sentenziando la presenza costante e ovunque della morte (ovunque o tocchi, o baci, o la man posi) (dalla rete).

domenica 11 maggio 2014

Anche a mia madre


A mia madre

Ora che il coro delle coturnici
ti blandisce nel sonno eterno, rotta
felice schiera in fuga verso i clivi
vendemmiati del Mesco, or che la lotta
dei viventi più infuria, se tu cedi
come un’ombra la spoglia
(e non è un’ombra,
o gentile, non è ciò che tu credi)
chi ti proteggerà? La strada sgombra
non è una via, solo due mani, un volto,
quelle mani, quel volto, il gesto d’una
vita che non è un’altra ma se stessa,
solo questo ti pone nell’eliso
folto d’anime e voci in cui tu vivi;
e la domanda che tu lasci è anch’essa
un gesto tuo, all’ombra delle croci.

Eugenio Montale


dove sei?
dove sarai ora?
qui è silenzio
prima dei risvegli;
ho il cuore gonfio
I miss you
so much!


 
Un volo gioioso di uccelli - le coturnici - nel paesaggio ligure caro alla prima età del poeta (la punta del Mesco); sullo sfondo la lotta dei viventi, quella che Montale chiamò "una guerra cosmica e terrestre, senza scopo e ragione" (la poesia è del 1942): in questo scenario nasce una delle più alte meditazioni montaliane sul tema della morte, in occasione della scomparsa della madre; ed è a lei stessa che il poeta si rivolge.
Essa sentiva ormai il proprio corpo (la spoglia), la vita terrena, come una trascurabile ombra, qualcosa da abbandonare senza rimpianti; per la fede religiosa che era in lei è solo con l'anima, immortale, che ci si avvia verso l'altra vita, il Paradiso cristiano, lungo un cammino dove si è ormai sgombri da quel peso.
Per il figlio, che ha ormai preso congedo dall'antica fede, non è così: la nostra vita non è l'ombra di un'altra, ma vale per se stessa.
Non è possibile separare una persona, la sua vita, il ricordo che ne rimane, da un preciso, inconfondibile e prezioso segno concreto (quelle mani, quel volto, quei gesti), che unisce inscindibilmente corpo e spirito. Montale ripercorre qui, certo consapevolmente, le orme di Ugo Foscolo nei Sepolcri; la persona cara resterà idealmente viva, insieme a tanti altri, in un laico eliso (il termine ha una significativa connotazione classica, cioè precristiana) che ha sede non in un altro mondo ma nella memoria di chi resta; e lì si troverà in virtù della forza del ricordo di quel concreto volto, di quello spirito incarnato nella irripetibile materialità dell'esistenza.
Un valore, quest'ultimo, che la furia insensata degli uomini sta sistematicamente schiacciando (1942…).  FRANCO BERGAMASCO (dalla rete)

sabato 10 maggio 2014

Aforisma


Sempre camminerò per queste spiagge
tra la sabbia e la schiuma dell'onda.
L'alta marea cancellerà l'impronta
e il vento svanirà la schiuma.
Ma sempre spiaggia e mare rimarranno.

Kahlil Gibran




tempo al tempo,
un mare di gesti,
fluisce la via
verso il domani...

venerdì 9 maggio 2014

Lampi poetici

LAMPO

(fr. éclair; sp. relámpago; ted. Blitz; ingl. lightning).
- È il fenomeno luminoso che accompagna le scariche elettriche nell'atmosfera.
I lampi si sogliono dividere in tre classi: lampi lineari o a zig-zag, diffusi e di calore.
I lampi lineari guizzano ordinariamente fra due punti lontani di una medesima nube, o fra una nube e l'altra, quando la differenza di potenziale ha raggiunto un valore sufficiente. Anche i fulmini che scoppiano fra la terra e una nube sono per lo più accompagnati da un lampo lineare. Il passaggio dell'elettricità da un punto all'altro dell'atmosfera avviene attraverso all'aria ionizzata, e il lampo segue il cammino, generalmente tortuoso, lungo il quale la ionizzazione è più intensa; per questa ragione i lampi sembrano talora ramificarsi in direzioni differenti.
Essi possono avere lunghezze assai diverse, fino a 15-20 km., e le differenze di potenziale lungo il loro percorso sono dell'ordine di 3000 volta per cm.
La luce emessa dai lampi lineari è generalmente intensissima e abbagliante, d'un color bianco splendente che volge all'azzurro o al violaceo, e analizzata con lo spettroscopio presenta le righe caratteristiche dell'azoto, dell'ossigeno e anche dell'idrogeno e dei gas rari dell'atmosfera. La durata apparente dei lampi lineari è variabile, e può anche raggiungere alcuni decimi di minuto secondo; ma, da un lato, il fenomeno della persistenza delle immagini dà l'impressione di una durata assai più grande del vero e, dall'altro canto, i lampi, come i fulmini, sono generalmente multipli, cioè risultano dalla successione di un certo numero di scariche le quali si seguono a brevissimi intervalli di tempo lungo il medesimo percorso. 
L'intensità e la grossezza del solco luminoso prodotto dai lampi lineari avevano fatto sospettare che le scariche elettriche alle quali essi sono dovuti fossero scariche oscillatorie, ma un'indagine meglio approfondita ha dimostrato che i lampi lineari, per quanto intensi, sono prodotti dal movimento dell'elettricità in un verso solo.
In taluni casi, specialmente durante i temporali notturni, vediamo illuminarsi per un tempo assai notevole regioni più o meno estese di una nube, o anche solo il contorno della medesima, senza che il bagliore sia accompagnato dal tuono: tali luminosità costituiscono i lampi diffusi. Spesso non sono altro che riflessi di lampi lineari i quali non si vedono direttamente; ma può anche accadere che, in determinate condizioni, una nube dia bagliori di una certa durata, sopra una parte considerevole della sua superficie, per un fenomeno analogo a quello che produce i fuochi di Sant'Elmo; e sembra che anche la luce emessa da questi speciali lampi diffusi, ai quali si potrebbe dare il nome di lampi superficiali, sia diversa da quella dei lampi lineari anche per il carattere, avendo essa uno spettro a zone. Nelle serate estive appaiono talora, in lontananza, lievi bagliori luminosi all'orizzonte: sono i cosiddetti lampi di calore, i quali si ritengono dovuti alla luce riflessa di lampi lineari assai lontani (enciclopedia TRECCANI).


 
Quando

Quando i silenzi
rispaziano suoni indistinti
mi fermo a cercare;
le sempiterne avvisaglie,
i lampi lontani seguiti dal tuono,
le veglie notturne.

Anonimo
del XX° secolo
poesie ritrovate

giovedì 8 maggio 2014

Onda, luna e poesia con riflesso

La luna e l’onda

Mentre la prima luna s’alza in trono
occhi sui vivi, col pallore e lo scherno
d’una vecchia pastiglia consumata,
il passeraccio solo e imbalonato
dall’egra tamerice guarda al mare
– azul y azul, immenso azul redondo –
guarda al di là di dune e di barene
con un occhio soltanto l’altro in sonno,
trepidante per prendere la mira,
dell’onda definita e trionfante
che nessun colpo potrà mai fermare
sul confine del sogno che viviamo.
Quell’onda che avanzando ci costringe
e senza requie ci fa domandare
perché io, io chi, io quando
ed io per quanto ancora?
Ma la luna procede verso il cielo
che livido s’imbruna
testimone impassibile e solenne
sull’affanno del nulla.

Lucio Mariani


piccoli rumori
notturni,
il bagnasciuga,
il mare,
orizzonte appena intravisto,
si respira,
si fiata...

Onda è una massa d’acqua che si solleva e si abbassa alternativamente sul livello di quiete (del mare, di un lago, ecc.), per effetto del vento o per altra causa (maree, ecc.), così che la sua superficie assume un caratteristico aspetto (detto esso stesso onda): o. alte, basse, corte, lunghe (secondo la maggiore o minore altezza e lunghezza); o. grandi, grosse; l’impeto, la forza delle o.; l’o. si alza, si abbassa; le o. increspano, agitano, sconvolgono la superficie del mare; Sì come l’o. che fugge e s’appressa (Dante); le o. s’infrangono sugli scogli; le o. sbattevano violente contro i fianchi della nave; la barca era in balìa delle o.; lido flagellato dalle o., ecc. In partic.: cresta (o cima) dell’o., la parte dell’onda corrispondente al massimo innalzamento sul livello medio (per l’uso fig. della frase essere sulla cresta dell’o., v. cresta1, n. 7); valle (o cavo, gola, solco) dell’o., la parte corrispondente al massimo abbassamento; nodo dell’o., la parte che sensibilmente coincide con il livello medio; fronte d’onda, l’insieme dei punti dove l’onda è arrivata a un dato istante; linea di cresta dell’o., la linea ottenuta congiungendo le creste situate su un medesimo fronte d’onda; lunghezza d’o., la distanza tra due linee di cresta successive; altezza d’o., il dislivello tra la cresta e il cavo di un’onda; periodo di un’o., l’intervallo di tempo che intercorre tra il formarsi di due creste successive in uno stesso punto; o. capillari, o. di gravità, rispettivam. quelle (di lunghezza minore di 5 cm) dovute alla forza elastica di richiamo della tensione superficiale, e quelle nelle quali il perdurare del vento determina un aumento di lunghezza e di altezza, rendendo trascurabile l’effetto della tensione superficiale (si dicono o. significative le onde di gravità ben sviluppate e stabili, marosi quelle il cui stadio di sviluppo ha superato la fase di stabilità e sono prossime alla rottura, già incipiente sulle creste); o. vive, quelle prodotte dal vento in atto, che interferiscono variamente con quelle, preesistenti, prodotte da venti che hanno cessato di spirare (o. morte); o. riflessa, quella prodotta da un’onda che incontra un ostacolo verticale (una costa scoscesa, un’opera portuale) e si riflette su di esso, dando luogo, insieme all’onda successiva che sopraggiunge, a un’o. di interferenza, di altezza anche doppia di quella originaria; o. stazionarie, onde di interferenza caratterizzate da un regolare moto di innalzamento e abbassamento del livello marino in prossimità dell’ostacolo, senza risacca. Con senso generico, o. distruttiva, onda marina dovuta a maremoto, a sconvolgimento vulcanico o a burrasca, che occasionalmente inonda coste basse, causando enormi distruzioni (vocabolario TRECCANI).

mercoledì 7 maggio 2014

Maggio tra poesia e riflesso

è il quinto mese dell'anno secondo il calendario gregoriano ed il terzo ed ultimo mese della primavera nell'emisfero boreale, dell'autunno nell'emisfero australe, consta di 31 giorni e si colloca nella prima metà di un anno civile. Il nome potrebbe derivare dalla dea romana Maia.
Nella cultura cristiana maggio è il mese dedicato alla Madonna.
La traduzione inglese, May, è usata come nome proprio femminile.
Ne fanno parte i segni zodiacali del toro (fino al 20), e poi gemelli.


Rinascita

Da anni più nessuno si è occupato del giardino.
Eppure
quest’anno – maggio, giugno – è rifiorito da solo,
è divampato tutto fino all’inferriata, – mille rose,
mille garofani, mille gerani, mille piselli odorosi –
viola, arancione, verde, rosso e giallo,
colori – colori-ali; – tanto che la donna uscì
di nuovo
a dare l’acqua col suo vecchio annaffiatoio –
di nuovo bella,
serena, con una convinzione indefinibile.
E il giardino
la nascose fino alle spalle, l’abbracciò,
la conquistò tutta;
la sollevò tra le sue braccia. E allora, a mezzogiorno
in punto, vedemmo
il giardino e la donna con l’annaffiatoio
ascendere al cielo –
e mentre guardavamo in alto, alcune gocce
dell’annaffiatoio
ci caddero dolcemente sulle guance, sul mento,
sulle labbra.
 
3 giugno 1969 Karlòvasi- Samo
Traduzione di Nicola Crocetti

Ghiannis Ritsos




Maggio,
coraggio,
le foglie
sul faggio,
pensiero
assai saggio
di un verde
messaggio...