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L'ombra è l'opposto del sole, ma si nutre di esso.
Un cielo grigio non genera ombre: nessun contrasto, nessun pensiero.


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mercoledì 18 giugno 2014

Riva

In riva alla vita

Ritorno per la strada consueta,
alla solita ora,
sotto un cielo invernale senza rondini,
un cielo d’oro ancora senza stelle.
Grava sopra le palpebre l’ombra
come una lunga mano velata
e i passi in lento abbandono s’attardano,
tanto nota è la via
e deserta
e silente.
Scattano due bambini
da un buio andito
agitando le braccia:
l’ombra sobbalza
striata da un tremulo volo
di chiare stelle filanti.
Gridano le campane,
gridano tutte
per improvviso risveglio,
gridano per arcana meraviglia,
come a un annuncio divino:
l’anima si spalanca
con le pupille
in un balzo di vita.
Sostano i bimbi
con le mani unite
ed io sosto
per non calpestare
le pallide stelle filanti
abbandonate in mezzo alla via.
Sostano i bimbi cantando
con la gracile voce
il canto alto delle campane: ed io sosto
pensandomi ferma stasera
in riva alla vita
come un cespo di giunchi
che tremi
presso un’acqua in cammino.

Antonia Pozzi
Milano, 12 febbraio 1931


Luca Mori 2010,
Sentiero montano a Pergola

poi il tempo,
quello che passa,
quello che fa scordare;
ogni tanto
un suono di voce...



riva
s. f. [lat. rīpa «riva del fiume» e per estens., ma non com., anche «spiaggia, riva del mare»]. –

1. a. La zona di terra che delimita una distesa d’acque (mare, lago) o un corso d’acqua: le due r. dell’Adriatico, la r. occidentale del Garda, le r. del Po. In senso tecn., con riferimento al mare, il termine si usa nei casi in cui la zona terminale sia bassa e pianeggiante, di facile approdo, anche se sistemata con manufatti portuali (diversamente da costa e spiaggia). Con riferimento a corsi d’acqua, le rive, parti costitutive del bacino, sono di solito tagliate a picco sul letto, ma possono assumere, col tempo, un aspetto a terrazze (r. terrazzate). b. Con sign. più ristretto, come sinon. di banchina, di proda, di sponda, indica l’orlo estremo della terra o del manufatto portuale: spingere la barca a r.; giungere, venire a r.; toccare la r.; accostarsi a r.; il battello navigava rasente la r., o anche riva riva. In alcune città designa il lungomare (R. Vecchia, R. Nuova, R. Derna, a Zara); a Venezia, il tratto lastricato che fiancheggia i canali o la laguna (R. degli Schiavoni, R. del Carbón, ecc.). In senso fig., poet., giungere a r., essere a r., al termine, al fine: Sì è debile il filo a cui s’attene La gravosa mia vita, Che, s’altri non l’aita, Ella fia tosto di suo corso a riva (Petrarca), sarà giunta al suo termine. c. Con uso estens. può indicare, spec. al plur., una fascia di terreno molto più larga: le r. del lago erano cosparse di ridenti paesi; Roma si estende sulle r. del Tevere; Mia natal patria è nella aspra Liguria, Sovra una costa alla r. marittima (Poliziano).
2.
Orlo, estremità in genere: Noi ricidemmo il cerchio [il 4° cerchio dell’Inferno] a l’altra r. (Dante); dopo un poco si sedette nel primo posto libero in riva al corridoio [del cinematografo] (Palazzeschi).
3.
Terreno in pendio, più o meno ripido e regolare (cfr. ripa): Era lo loco ov’ a scender la riva Venimmo, alpestro (Dante); cercando le mele rotolate in fondo alla r. (Pavese).
4.
In marina, la parte alta, soprattutto dell’alberatura: a riva!, abbasso da riva!, voci di comando per far salire o scendere la gente dall’alberata; avere le bandiere, le vele a riva. In questo senso, la parola deriva dallo spagn. arriba «in alto» (v. a riva).
5.
poet. Luogo in genere, piaggia (nel suo sign. più ampio): sospirando vo di riva in riva (Petrarca); Sovente in queste rive, Che, desolate, a bruno Veste il flutto indorato [la lava], e par che ondeggi, Seggo la notte (Leopardi).
6.
Nome di varî antichi tributi, talvolta corrispondenti al diritto di sbarco e di ancoraggio, talaltra gravanti sulle merci provenienti per via d’acqua o sui cereali o sulle vendite in genere: a Genova si ebbero la r. grossa o rivagrossa e la r. minuta o rivaminuta, che colpivano rispettivamente le vendite di cose mobili e quelle di immobili e navi.
7.
Nel linguaggio teatrale, cinematografico e televisivo, elemento di scena, costituito da uno spezzato basso e di dimensioni allungate, usato per rappresentare muretti, balaustrate e parapetti.

Dim. rivétta, col sign. specifico, nella scenotecnica, di serie di lampade fissate a un supporto orizzontale che si può spostare sul piano scenico in modo da illuminare qualsiasi punto del palcoscenico con luce diffusa dal basso in alto.

Vocabolario TRECCANI 

martedì 17 giugno 2014

Statue

stàtua s. f.
[dal lat. statua, der. di statuĕre «collocare, innalzare»].
– Opera di scultura, a tutto rilievo (o, come anche si dice, a tutto tondo), che rappresenta una figura umana o animale, oppure un’idea o un concetto astratti raffigurati in forma umana o animale: s. di marmo, di pietra, di bronzo, di legno, di gesso, di cera; s. d’avorio, d’oro, criselefantina; modellare, scolpire una s.; fondere una s. (di bronzo).
Spesso seguito da un compl. di specificazione indicante il nome dello scultore: una s. di Michelangelo, del Canova, di Manzù, ecc.; o anche il soggetto scolpito: una s. di Gesù, della Madonna; una s. di Giove, di Minerva, della Medusa; la s. della Fortuna; la s. della Libertà nel porto di New York.
Talvolta è sinon. di monumento, nel caso in cui sia eretto a singola persona e non costituito da un gruppo scultoreo: la s. di un condottiero, di un grande statista; la s. di Mazzini, del Cavour; s. equestre (v. equestre); erigere, innalzare una s.; inaugurare, scoprire una s.; buttar giù, abbattere, atterrare una statua.
Con valore generico: il piedistallo, la base della s.; villa, scalinata ricca di statue; le s. della fontana, della chiesa, di un parco della rimembranza, del cimitero.
In senso fig., come termine di confronto per indicare immobilità e silenziosità di una persona, oppure un atteggiamento particolarmente solenne e maestoso; talora anche insensibilità, inespressività: sembrava una s.; stava immobile e silenziosa come una s.; quella donna è una s., una vera statua.
◆ Dim. statüétta, statüina, piccola scultura originale o riproduzione di altra opera di dimensioni maggiori: una statuetta etrusca, una statuina cinese; statuine di marmo, di gesso; gioco delle belle statuine, gioco infantile, tipicamente femminile: a un ordine dato o alla fine d’un girotondo o d’una breve filastrocca, ogni bambina assume un particolare atteggiamento rimanendo immobile; quella di loro che fa da giudice decide quale sia la statuina più bella, cioè la compagna che ha assunto una posa più aggraziata.
(Vocabolario TRECCANI)

Le statue e noi

Le statue, calme, non si preoccupano dell'usura del tempo;
perdono le mani, i piedi o la testa
ma restano sempre nella stessa posa, erette,
o supine per terra, sorridenti,
o, bocconi, voltano la schiena a noi e al tempo
come se copulassero, come intente
a un amore infinito, e noi le guardiamo
con un'inspiegabile spossatezza, tristi. Più tardi
torniamo nell'albergo popolare, tiriamo le tende
per attenuare il bagliore del meriggio, e tentiamo,
nudi anche noi, coricati sul letto scomodo,
di imitare la quieta immobilità delle statue.


Karlòvasi, 9.VIII.87
Ghiannis Ritsos



immobili
come statue,
quante volte...
perchè?
eppure
il tempo dice,
qualche volta
il cuore dispone...

lunedì 16 giugno 2014

Amico tra spiegazione e poesia

amico
s. m. (f. -a) e agg. [lat. amicus, affine ad amare] (pl. m. -ci). –

1. s. m. Chi è legato ad altri da vincoli di amicizia: avere, trovare, perdere, farsi un a.; a. intimo, a. d’infanzia; l’a. del cuore, quello cui si è più intimamente legati (spesso scherz.); un vecchio a. di casa; a. di cappello, di saluto, non intimo; a. di tavola, di gioco; consiglio da a.; trattare da a., confidenzialmente, alla buona, o, in rapporti d’affari, concedendo particolari agevolazioni; fare l’a., mostrarsi amico, senza essere tale in realtà: costui fa l’a. del convento, si spaccia per partigiano de’ cappuccini (Manzoni). Anche di animali: l’a. dell’uomo, il cane. Proverbî: patti chiari, a. cari; a. cari e borsa del pari; chi trova un a. trova un tesoro; dagli a. mi guardi Iddio, ché dai nemici mi guardo io (per significare che non sempre è facile giudicare della sincerità degli amici). Di uso fam. la locuzione: ... e amici come prima, o più di prima!, quando non ci s’accorda su un affare, ma s’intende rimanere ugualmente in buoni rapporti. In denominazioni storiche, al plur.: amici di Dio, nome di alcuni gruppi religiosi del sec. 14°, come i seguaci della mistica dei domenicani tedeschi e i seguaci di s. Brigida di Svezia; società degli amici, denominazione ufficiale del movimento dei quaccheri (ingl. the religious society of friends); amici sinceri, società segreta antibonapartista fondata a Ginevra dopo il 1806 dal rivoluzionario Filippo Buonarroti.


2. Usi estens.:
a. Persona con cui si intrattiene un rapporto amoroso: avere l’amico, l’amica; fare un viaggio con l’amica; farsi accompagnare a casa dall’amico; la parola, che in questa accezione è di solito preceduta dall’art. det., è per lo più pronunciata in tono eufem., come sinon. meno crudo e meno esplicito del sost. amante, spec. con allusione a relazioni extraconiugali: farsi l’amico, l’amica; ha lasciato la moglie per vivere con l’amica; hai visto l’appartamento che le ha regalato l’amico! Con lo stesso sign. anche nel linguaggio letter. e poet.: aver sì bella donna e sì pudica Debbe nome di moglie e non d’amica (Ariosto); in altri casi, con sign. più generico e oggettivo, l’amica, la donna amata: La morta a. almen guarda dal cielo Onde d’Elettra tua resti la fama (Foscolo).
b. Chi si diletta, chi ha passione per qualche cosa: è un a. dell’arte; spec. in titoli di associazioni: gli a. del paesaggio; gli a. della musica; gli a. dell’arte sacra.
c. Sostenitore; con questo sign., è usato soprattutto con riferimento a chi affianca correnti politiche (gli amici di..., seguito dal nome di qualche esponente d’un partito o corrente di partito), oppure a sostenitori e ammiratori di figure di rilievo nel mondo della letteratura, dell’arte, ecc. Nel gergo della mafia, e per estens. nel linguaggio allusivo della politica, l’a. degli amici, la persona (in genere un notabile o un parlamentare) sulla quale, per l’attività che svolge o per le relazioni e amicizie di cui gode, e per l’obbligo di gratitudine verso l’organizzazione che l’ha aiutata a salire in alto, si può fare assegnamento in qualsiasi situazione e per qualsiasi necessità d’aiuto, anche se estranea all’organizzazione.
d. Con sign. più ampio: amico!, o quell’a.!, per chiamare qualcuno senza nominarlo; amici!, rispondendo scherzosamente dopo che si è bussato alla porta: «Chi è?» «Amici!». Talora anche persona con cui non si è in buoni rapporti, o che si sia comunque comportata male: e l’a. che ha risposto?; voleva fartela, l’amico!
3. agg.
a. Benevolo, da amico: viso a., parola amica. In unione col verbo essere, e seguito da compl. di termine o di specificazione, ha lo stesso sign. del sost.: tu sai che io ti sono a.; il cane è a. dell’uomo (per a. del giaguaro, v. giaguaro); sono molto amici, sono amicissimi fra loro; anche, favorevole, propizio: Se fosse a. il re de l’universo (Dante); la notte è a. dei ladri. Fig., che ha amore, trasporto, simpatia per qualche cosa, che sente vivo desiderio di qualche cosa: essere a. dell’arte, della libertà, della pace, della quiete.
b. In matematica, numeri a., lo stesso che numeri amicabili. ◆ Dim. amichétto, soprattutto per indicare un bambino amico o l’amico di un bambino, e così il femm. amichétta (per eufem. scherz., avere un’amichetta, farsi l’amichetta, una giovane amante); non com., amicùccio (f. -a), amichino (f. -a). Accr. scherz. amicóne (f. -a), grande amico, amico con cui si sta molto e spesso insieme. ◆ Raro l’avv. amicaménte, con amicizia, da amico (in questi sign., è com. amichevolmente).
TRECCANI

Bontà
(ad un amico)

I.
Quella bontà che nel mio cor rinviene
La bella anima tua fervida e pia
Non è che un’amorosa cortesia,
La cortesia dell’anime serene.

È una bontà che dal voler non viene,
È un istinto di pace e d’armonìa,
È una dolcezza che la madre mia
Mi trasfuse nell’ossa e nelle vene.

E non è mia virtù, ma mio destino;
Non merta il nome benedetto e santo
A cui la fronte reverente inchino;

Ho l’indulgenza, la dolcezza, il pianto,
Come ha il trillo gentile il cardellino:
La mia bontà, diletto amico, è un canto.

II.
E chi m’offende con maligna mente
Non lo sdegno o lo sprezzo o l’odio o l’ira,
Ma una grande tristezza in cor m’ispira,
Una grande tristezza solamente.

E non solo a colui che il fa dolente
Il cor perdona, e l’amor suo sospira,
Ma sè stesso condanna e in sè s’adira
Chè altrui non sa ispirar quello ch’ei sente.

E le censure acerbe, e il franco e duro
Disdegno, e i colpi apertamente intesi
A umiliar l’orgoglio mio, non curo;

È l’odio freddo che il mio cor deride,
È l’odio di color che non offesi,
Questa è l’arma spietata che m’uccide.

III.
Oh chi afflisse o ferì l’anima mia,
O nei begli anni dell’età ridente,
O nell’età che in lotte aspre e cruente
La gentilezza del perdono obblía,

Venga, venga da me, qualunque sia
La sua fede, il suo nome e la sua mente,
Venga superbo o triste o sorridente,
E incontrerà il mio bacio per la via.

Venga da me in un giorno di dolore,
Mi troverà una lacrima negli occhi
Ed un fraterno palpito nel core;

E stringerò il suo capo sul mio petto
E gli porrò i miei bimbi sui ginocchi
E sarà benvenuto e benedetto.

IV.
E mi si disse: — Muterai natura
Sotto il morso crudel dei disinganni;
L’angelo de’ bei sogni aprirà i vanni,
Aprirà i vanni coll’età matura.

Voce bugiarda! È giunta la sventura
E l’onda amara dei virili affanni;
Ma sento sempre il cor come a vent’anni
E il sogno dell’antico angelo dura.

E cangi il mondo, rimarrò qual sono;
E vecchio, solo, derelitto, irriso,
Avrò ancora nell’anima il perdono;

E fin che non sarò nel cataletto,
Sulla mia bocca brillerà un sorriso
E nel mio core fremerà un affetto.

Edmondo De Amicis


 



amici lontani,
quasi ricordi,
amici vicini,
quasi presente...

domenica 15 giugno 2014

Aforisma

Voglio sapere
come Dio creò questo mondo.
Voglio conoscere i suoi pensieri.
In quanto al resto,
sono solo dettagli.

Albert Einstein


che dire...
la sintesi,
il pragmatismo 
e l'ovvio...

sabato 14 giugno 2014

Frammento



prismi girovaghi
tra sprazzi di luce
ripiego il pensiero;
quando cade la pioggia
non sono sereno...

Anonimo
del XX° secolo
frammenti ritrovati

venerdì 13 giugno 2014

En français

En poésie, Guillaume Apollinaire a fait de la Tour Eiffel un calligramme nationaliste.
C’est un idéogramme à travers lequel Apollinaire décrit la situation politique de son époque germanophone.
Le langage exprime un sentiment « engagé » ; la littérature est liée à l’histoire. La tour Eiffel fait la ‘grimace’, la ‘mauvais langue’ (boccaccia/linguaccia) aux allemands.
Apollinaire avec cette lyrique affirme qu’un poète doit faire face, doit être engagé dans l’histoire.



Guillame apollinaire in poesia ha fatto della Torre Eiffel un calligramma nazionalistico.
E' un ideogramma attraverso cui Apollinaire descrive la situazione politica della sua epoca.
Il linguaggio esprime un sentimento "impegnato"; la letteratura legata alla storia.
La torre Eiffel fa il verso, le boccace ai tedeschi.
Apollinaire con questa poesia afferma che un poetadeve metterci la faccia, deve essere impegnato nella storia.

giovedì 12 giugno 2014

Mani

Quale strumento delle più importanti azioni umane, la mano assume, nelle visioni del mondo di tutti i tempi, significati simbolici che i vari sistemi religiosi valorizzano in miti e pratiche rituali.
La m. è per lo più simbolo di potere (la m. di Dio nella Bibbia e nel Corano, la m. di determinate divinità nel Ṛgveda ecc.). La m. divina è anche elargitrice di beni (in raffigurazioni egiziane della XVIII dinastia i raggi del Sole, il dio Aton, terminano in mani; nella iconografia cristiana medievale la m. che spunta da nubi è la m. di Dio).
Anche alla m. umana si attribuiscono poteri speciali, se si pensa ai gesti della benedizione, della preghiera, del giuramento ecc. Nelle pratiche religiose e magiche gli ammalati vengono toccati con la m. dagli iniziati che presumono di avere potere taumaturgico.
La m. stessa ha virtù protettrici: sono noti i gesti apotropaici della m. tuttora diffusi in diverse culture. Perciò molti amuleti sono a forma di m., per lo più facente determinati gesti.
La m., d’altro canto, può essere caricata di valenze negative, come ha mostrato R. Hertz (1909) in relazione all’universale dicotomia tra m. destra, considerata pura, quotidiana, normale, e m. sinistra, con la quale vanno invece compiute azioni di volta in volta reputate impure, pericolose, negative o malefiche (dalla rete TRECCANI).


L'albero m'è penetrato nelle mani,
La sua linfa m'è ascesa nelle braccia,
L'albero m'è cresciuto nel seno -
Profondo,
I rami spuntano da me come braccia.
Sei albero,
Sei muschio,
Sei violette trascorse dal vento -
Creatura - alta tanto - tu sei,
E tutto questo è follia al mondo.

Ezra Pound

 

 
rami,
diritti,
contorni,
come dita
di mani
nei capelli
del cielo...

mercoledì 11 giugno 2014

Roccia e masso

La roccia

Trine di betulla
nella valle
i pensieri –
ma ieri
quando soli erravamo
sulla nuda montagna –
il taglio
delle rupi più eccelse
era il disegno
della mia forza – in cielo.
E non parlare di rovina
tu cuore –
fin che uno spigolo nero a strapiombo
spacchi l’azzurro
e una corda s’annodi all’anima
bianca
come le ossa del falco
che sul torrione più alto
regalmente ha voluto
morire.

8 settembre 1933
Antonia Pozzi

sopra di me,
in un posto che amo...
una roccia,
un masso enorme
dagli inizi del tempo...



Il masso erratico (dal latino erràre, vagare) o masso delle streghe (spesso indicati anche col nome di trovanti) è una grande roccia che è stata trasportata a fondovalle da un ghiacciaio.
Questi massi, dopo che il ghiacciaio si è ritirato, occupano un'insolita posizione in mezzo alla pianura; per questo, e anche a causa delle loro insolite dimensioni, diventano spesso meta di molti rocciatori e alpinisti. Nel XVIII secolo, i primi geologi che giungono nelle Alpi e sul massiccio del Giura sono attratti da questi enormi blocchi di granito posti in cima a colline o isolati in mezzo a pianure alluvionali. Li chiamarono blocchi erratici perché non ne conoscevano la provenienza. Horace-Bénédict de Saussure su questo tema affermava "Il granito non si forma in terra come i tartufi, e non cresce come i pini sulla roccia calcare". Molte furono le teorie avanzate per giustificarne la presenza. Jean-Étienne Guettard avanzò l'ipotesi nel 1762 che i massi che si trovavano sparsi nelle pianure europee del nord erano tutto quanto restava di antichi monti erosi. Ma rapidamente se ne dimostro l'origine alpina. Scoperta l'origine restava da scoprire che cosa li aveva trasportati così lontano dai loro luoghi di provenienza. Nel 1778, Jean-André De Luc avanza una teoria basata su possibili esplosioni che avrebbero proiettato lontano questi massi. De Saussure non aderì ad essa, ritenendola perlomeno fantasiosa, "non vi è alcun esempio di queste esplosioni e i blocchi si dovrebbero polverizzare nel loro impatto al suolo", impatto che, tra l'altro, non lasciava evidenze sotto di essi. De Saussure constatò che i blocchi si trovavano disseminati negli assi delle vallate alpine. Si pensò allora a un possibile trasporto per fiume: le rocce sarebbero state deposte da enormi alluvioni, provocate da straripamenti di laghi o da repentine fusioni di ghiacciai dovute a vulcani o altro. Christian Leopold von Buch ne calcolò persino la forza necessaria per spostarli fin sopra il Giura. Altri supposero un'origine marina: L'innalzamento della catena alpina sarebbe stato così repentino che le acque che vi si trovavano ai piedi avrebbero trascinato via i blocchi. Altri ritenevano invece responsabile di questi spostamenti la banchisa o gli iceberg che li avrebbero deposti in antichi mari che sommergevano la regione. Queste teorie hanno i loro vantaggi e le loro lacune, i loro difensori e i loro detrattori. Nessuna trovò larghi consensIn quell'epoca i ghiacciai alpini erano in piena espansione al punto da inquietare le autorità svizzere che temevano la distruzione di alcuni villaggi a causa del rapido avanzamento che ghiacci. Questo periodo viene infatti indicato come la ‘’Piccola era glaciale’’. Nel 1821, Ignaz Venetz, ingegnere svizzero, studiò i ghiacciai per comprenderne il funzionamento. Raccolse testimonianze sull'avanzamento degli stessi e constatò un fenomeno che prima non era stato valutato: sui ghiacciai giacevano importanti blocchi e materiale minuto e sul fronte degli stessi si formavano colline di detriti, poi indicate con il nome di morene che ne indicano il loro punto finale. La constatazione che queste morene esistevano anche molto più a valle di dove si trovavano allora, fece avanzare l’ipotesi, ora unanimemente riconosciuta valida, che il fenomeno dipendeva dagli avanzamenti e dalle ritirate delle lingue di ghiaccio in ere successive.
I massi erratici non sono perciò che le tracce di antiche morene che i ghiacciai hanno lasciato ritirandosi (da wikipedia).

martedì 10 giugno 2014

Incertezza tra poesia e riflesso

incertezza /intʃer'tets:a/ s. f. [der. di incerto].
- 1. a. [di persona, l'essere incerto: mostra sempre i. quando deve prendere una decisione] ≈ esitazione, indecisione, (non com.) indeterminatezza, indeterminazione, insicurezza, irresolutezza, tentennamento, titubanza. ‖ perplessità. ↔ certezza, decisione, determinazione, risolutezza, sicurezza. b. [di una informazione e sim., l'essere incerto, l'avere dubbio fondamento: i. di una notizia] ≈ dubbiosità, insicurezza. ↑ improbabilità, inattendibilità, infondatezza, inverosimiglianza. ↔ certezza, fondatezza, sicurezza. ↓ attendibilità, plausibilità, probabilità, verosimiglianza. c. [mancanza di certezza per quanto riguarda gli esiti di una cosa: l'i. della situazione] ≈ fluidità, imponderabilità, imprevedibilità. ↑ aleatorietà, pericolosità, rischiosità. ↔ prevedibilità.
- 2. a. [stato d'animo dubbioso: restare, vivere nell'i.] ≈ dubbio, insicurezza. ↔ certezza, sicurezza. b. [atto, modo d'agire incerto, anche al plur.: ha risposto con qualche i.] ≈ esitazione, indecisione, tentennamento.
- 3. [nello scrivere, mancanza di proprietà, di stile: i. di stile] ≈ imprecisione, improprietà, insicurezza. ↔ padronanza, precisione, proprietà, sicurezza.
- 4. (fis.) [di una rilevazione e sim., l'essere impreciso: i. di una misurazione] ≈ inaccuratezza. ↑ erroneità, imprecisione, inesattezza. ↔ accuratezza, esattezza, precisione. [ESITARE].
TRECCANI


Incertezze

Pure, ancora di qualche trafittura
tremavo, a guisa di convalescente
ch'ogni indizio del suo male impaura.
Non ben certa di me, trepidamente,
il mio silenzio intimo ascoltando,
mi premevo sul cuor le mani intente.
M'indagai, mi scrutai, mi dolsi, e quando
m'avvidi in qual tenacità d'affanno
esasperavo un dubitar sì blando,
scossi da me l'antico e il nuovo danno
e balzai, folle di desii fugaci,
incontro al riso d'ogni bell'inganno,
gli risi coi notturni occhi : - Mi piaci !

Amalia Guglielminetti



le mille insicurezze,
i dubbi,
le attese e le domande;
come dire...
un lato della vita...

lunedì 9 giugno 2014

Come il gatto giunse in Islanda

Leggenda islandese


In una catapecchia sprofondata tra le canne sulla riva del lago, vivevano un uomo e una donna molto vecchi assieme al loro figlio Fortunato. La loro abitazione, se così si poteva chiamare, era priva di tutto, salvo due sgangherati sedili, una ciotola unta e un ferro per rovistare nel fuoco.
- Nemmeno un maialepotrebbe viverci! - sentenziavano sbrigative le compari del villaggio quando passavano di lì. E quando attraversavano la piazza del paese si ristoravano la vista col perfetto lindore delle loro casette.
In realtà nessuno sospettava quanto fosse ricco il vecchio della catapecchia, nessuno sapeva del sacco di corone d’oro gelosamente custodite sotto il pagliericcio; e quando morì nessuno avrebbe potuto immaginare che avesse preferito patire la fame per tutta la vita piuttosto che separarsi da una sola delle sue amate monete. Di lì a poco morì anche la vecchia, e il giovane Fortunato si trovò solo al mondo. Mentre sbarazzava l’unica stanza della sua triste dimora urtò col piede nel sacco d’oro e, pensando che contenesse pietre, stava per buttarlo nel lago, quando da una scucitura occhieggiò luccicante una monetina. Sciolse lesto il legaccio che chiudeva
l’imboccatura e d’improvviso seppe d’essere diventato ricco.
Fortunato era un ragazzo semplice, che non vuol dire sciocco, e afferrò subito l’idea di come ora sarebbe cambiata la sua vita. Sorrise tra sé e sé, si ravvivò i capelli, cercò di dare un aspetto ai suoi misteri stracci e si avviò verso il paese. Non aveva fatto metà della strada, e costeggiava ancora il lago, quando sentì un fischio venire dal canneto.
- Qualcuno mi ha chiamato? - chiese fermandosi e girando la testa. Ma non ottenne risposta e già riprendeva il cammino quando di nuovo gli parve che il fischio si ripetesse. - Se qualcuno mi cerca, è bene che si sbrighi! - disse a voce alta fermandosi di nuovo. - Perché questa mattina ho una fretta indiavolata e tra poco nessuno mi vedrà piú da queste parti. Saltò fuori allora un buffo omino, non piú alto di un palmo, vestito tutto di verde come le foglie e con un campanellino d’argento appeso al berretto. - Fortunato, dimmi, se non mi fai del male, ti dirò ciò che ora ti dico? - fu lo strampalato esordio del folletto del lago, perché proprio di un folletto si trattava. - Perché mai dovrei? non ci penso nemmeno - rispose Fortunato un po’ stupido. e infatti non gli era mai passato per il cervello di fare del male a qualcuno, figuriamoci a un folletto. - Sappi allora che quel denaro è stato rubato ai troll, i crudeli giganti delle montagne - disse la minuscola creatura. - Si tratta di oro pericoloso e malvagio. Liberatene subito, oppure donalo ai poveri. Solo nelle loro mani può diventare buono. Tieni invece per te la monetina che hai visto per prima. È l’unica che sia stata guadagnata onestamente.
Ciò detto il folletto sparì tra le canne.
Restato solo, Fortunato non ci pensò su nemmeno una volta e giunto al paese distribuì nottetempo tutto il denaro tra le case piú povere.
La mattina seguente il giovane fischiettava tra i campi felice di essersi liberato tanto in fretta di un così grande pericolo. Aveva una sola moneta in tasca, non era un gran che, ma sempre meglio di niente. Non sapeva neppure dove dirigere i propri passi, ma non per questo perdeva il buon umore. Così imboccò il primo sentiero che lo portava nel bosco.
Era un bel po’ che camminava e cominciava a sentire appetito. Camminò ancora e ancora e l’appetito diventò fame. Il sole scendeva quando vide una casa.
Bussò e una donna aprì l’uscio invitandolo ad entrare. Nella cucina erano riuniti attorno alla tavola il marito, i figli e la vecchia nonna. Gli fecero posto e aggiunsero un piatto. Nessuno fece domande e tutti mangiarono.
Quando fu sazio Fortunato cominciò a guardarsi intorno e vide con sorpresa un animale acciambellato vicino alle braci del cammino, assai diverso da tutti quelli che aveva visto fino ad allora. Aveva il pelo del colore delle castagne mature, lievemente striato, e non era molto grande, ma gli occhi erano larghi, a volte ovali a volte rotondi, e brillavano come specchi profondi. Cantava in una maniera assai strana e sommessa, che si udiva soltanto a stargli vicino.
- Qual è il nome di questa strana creatura? - chiese allora. - L’ha portata un marinaio d’oltremare e ha detto che laggiú la chiamano gatto - risposero quelli. - vorrei comperarlo, se me lo vendete, e non costa troppo e mi farebbe compagnia. -
Gli chiesero una monetina d’oro, e lui fu molto felice di poterlo acquistare.
La mattina seguente si prese il gatto, lo avvolse nel suo povero mantello, si assicurò che fosse comodo e riprese fischiettando il cammino nel bosco. Di lì a poco il bosco finì e si aprì un’ampia campagna lavorata con cura, qua e là punteggiata di tetti rossi delle fattorie. Ancora piú lontano si alzavano le bianche torri del re visibili anche a grande distanza.
Fortunato pensò che lì forse avrebbe potuto trovare lavoro e si diresse alla reggia, chiedendo udienza al sovrano. Mentre attendeva nella grande sala a pianterreno si meravigliò che tutte le persone che vedeva, donne e bambini, vecchi, paggi, guardie o cavalieri camminassero impugnando delle lunghe bacchette con le quali percuotevano distrattamente il pavimento. Quando invece sedevano, davano prima un gran botto sul sedile prescelto, ma poi restavano sospettosi e inquieti, anche se in giro non si vedeva nessuno. A volte spiavano sotto i tavoli, o dietro le tende. Peraltro nessuno, tranne lui, sembrava stupirsi di quell’insolito comportamento. Intanto gli fu detto di andare nella sala da pranzo reale, dove il re lo invitava a mangiare con la sua corte.
Entrando nella sala, il giovane vide con stupore una folla di piccole bestiole scure che correvano dappertutto sul pavimento e sul tavolo. Erano così sfacciate da rubare pezzi di cibo anche al re; e gli altri commensali non si trovavano meglio. Tra un boccone e l’altro tutti cercavano inutilmente di allontanarle colpendole con le loro bacchette. Quando fu seduto, Fortunato chiese alla nobildonna che gli sedeva a lato: - che specie di animale è questo?
- qui li chiamiamo topi - rispose la donna, mentre tentava di allontanarne uno particolarmente interessato al suo piatto. - Sono anni che hanno invaso la corte e il paese e la nostra vita sono diventati impossibili. Il re ha promesso sua figlia in sposa a colui che sarà capace di sterminarli, ma fin ora nessuno ci è riuscito. -
In quel punto si vide un’ombra sfrecciare nell’aria. Il gatto era balzato sulla tavola e dopo morsi e zampate, un bel numero di topi giaceva morto. Ancora un balzo, e ancora altri topi a pancia all’insú. Allora ci fu un grandinio di zampette e la massa brulicante e scura fuggì per porte e finestre fuori della sala.
Il re e la sua corte restarono stupefatti e poi, naturalmente, fecero grandi feste al loro liberatore, il gatto, che non avevano mai visto, e al suo proprietario Fortunato che ebbe la mano della figlia al re. (dalla rete)