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L'ombra è l'opposto del sole, ma si nutre di esso.
Un cielo grigio non genera ombre: nessun contrasto, nessun pensiero.


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domenica 13 maggio 2007

Racconto: "Il dolore e l'ombra sul fiume"

Tornava ancora, quando veniva Novembre, al posto dei cigni, dove il fiume si fa largo e silenzioso prima di mutarsi in rapi­da, dove i cigni sembrano ridere della morte.

Bertacchi provava sensazioni strane. Non riusciva nemmeno più a capire se il fiume gli dava le stesse impressioni di una volta. Così se ne stava zitto a guardare l'acqua e giocava a perdersi con lo sguardo nella corrente. Il fiume lo invitava a pen­sare, ma lui non si sentiva un grande pensatore, così se ne stava con aria assorta a perdere tempo, senza sapersi decidere.

Avrebbe voluto che questa solitudine sapesse gridare, e soffriva per questo, ma se ne stava zitto, perché non lo avrebbe saputo spiegare bene, e poi chi lo avrebbe ascoltato.

Non è nemmeno vero che il dolore tiene svegli. Anzi, in mol­ti casi nar­cotiz­za. Gli veniva sonno, e sentiva di aver buttato via un'altra giornata. Gli veniva un po' da ridere, ma non per qualcosa in particolare. Così, tanto per ridacchiare del più e del meno.

La luce se ne andava lenta come il fiume, accanto all'isola del salice piangente. Il crepuscolo dura poco, come l'autunno.

Guardava le foglie rosse, gialle, verdi e marroni che un tem­po erano state sue. Adesso tutto gli sembrava sconosciuto. Come quando torni da visitatore nella casa che era tua. Avrebbe preferito maledire se stesso piuttosto che riassag­giare quella sensazione ri­corren­te, che ora diversamente dal passato sa­peva ir­rimediabile.

Adesso si sentiva in prestito, senza poterlo più dire a nessuno. Tantomeno a se stes­so. Ogni tanto gli veniva in mente qualcosa, ma se lo teneva per sé, fino a dimenticar­lo, alla fine. E aveva il vago sospetto di farlo apposta, anche se, a pensarci bene, gli sembrava un'idea cretina. D'altra, parte, si disse, se avesse avuto un'idea intelligente avrebbe piantato un casino. Invece niente, perciò se ne stava lì come un fesso.

Già, il mondo deve girare in qualche modo, lo dicono tutti. Buttava i sassi nell'acqua cercando inutilmente di ripercorrere all'indietro il filo del ricordo. Ma era la sensazione ciò che non funzionava più, e le idee si screpolava­no come le labbra, al vento di quella spietata consapevolezza. Anche parlare è diventato fal­so, non ti cre­dono più, non ci credono più.

Si sentiva sbagliato, perché nonostante tutto sapeva di ave­re la testa vuota e di non poter cercare appello, se non a que­sta muta riva che lo guar­dava con affettuosa malinconia. Ormai era chiaro, gli mancava l'ispirazio­ne.

Rientrò che la pioggia sottile veniva giù stancamente, per ricor­dargli fram­menti di disperazione passata. Segni dimenticati, che non si sarebbero mai ri­marginati nei so­gni eroici che andavano di moda quando tutti facevano finta di crederci.

Si fermò in strada prima di rincasare. Ormai era venuto buio, e con la luce se n'era andata una parte del dolore, quella che si fa più acuta con l'evidenza dei fatti, ri­schiarata dal giudizio dei giusti. Quelli che fanno tutto alla luce del sole, che rien­trano per cena. Al buio, si sentiva più al sicuro.

Henry Miller fa bene a dire che scrive per mettere ordine, e forse sa met­tere or­dine anche il vecchio liutaio Bottari, con il quale si era fermato a par­lare fino all'ora di pranzo. Già, qui i boschi li tagliano tutti. I tedeschi invece li metto­no tutti in fila, gli alberi. Se no, che tedeschi sarebbero.

L'incuria degli italiani verso i boschi diventava l'incu­ria della realtà a chi al­tri dare la colpa, oramai? verso tutte le cose belle e delicate che i primi freddi autun­nali gli facevano desiderare con maggiore malinconia.

Solo la curiosità mentale lo appagava, lo faceva vivere. Lo attiravano i concetti, il sottile tessuto di illusione generato dalle parole. Non sapeva conservare una vera fe­deltà alle idee, una volta che esse avevano cessato di esercitare su di lui una sug­ge­stione. Ormai era tutt'uno con quelle sue anticaglie: roba che passa. Con le parole lui non ci sapeva giocare poi tanto, ma i suoi oggetti gli dicevano tutto, pensavano per lui, anche quando il fracasso dell'Apecar gli rintronava la testa fino a farlo sentire scemo.

Le vicende inventate possono dare più appagamento di quelle vere, per­ché ciò che conta non è la realtà o la plausibilità, ma il sottile gioco della mente che intreccia, combina, ordina e disordina, dando vita non ad una realtà fittizia, bensì ad una co­stru­zione fatta per l'intelligenza, per stimolare il nuovo. Come le sculture del Donini. Lui sì che se ne intendeva. Grande, il Donini.

Se la disperazione rimaneva sotto controllo, allora poteva andare. Il do­lore di­ventava una storia da raccontare, e la vita continuava. Ma se la soglia cedeva, allora irrompeva l'assurdo, l'esistenza quotidiana prendeva il soprav­vento, e niente più s'im­pigliava tra le dita a suggerire sottovoce un senso per cui continuare a soffrire e sen­tirsi grande.

Nei peggiori momenti di tradimento e di disgusto, tutto aveva sempre con­ti­nuato a restare chiaro, la prospettiva era netta come una lama che tagliava senza pietà, ma che dava anche la forza, l'indignazione, la tenera ingenuità che gli sconfitti attribui­scono ai giovani.

Ma ora, trattenendo con lo sguardo gli attimi congelati, sa­peva che la condanna è lì che ti aspetta, nel punto dove credi di essere arrivato da qual­che parte, quando la felicità ti porge la falsa promessa di non dover più continuare a procedere dolorosa­mente.

La felicità è una brutta bestia, Bertacchi.

Chissà chi gliel'aveva detto, forse il Nerelli mentre s'infilzava le dita con gli ami. Le frasi intelligenti fanno incazzare anche di più. Ma non era colpa del Luigi: era lui fesso, a prendersela.

Finché non hai paura del dolore lo conosci, e ti fa male, sì, ma poco. Nel mo­mento in cui lo tradisci con la scusa di met­terti a costruire il tuo futuro, allora smetti di imparare, e non c'è medico che ti possa imporre di restare in vita. Ma come fai a restare lì come un pirla, in attesa della pennellata risolutiva del tuo capolavoro, se in realtà stai imbiancando la cucina del Cipolli?

I più fortunati (la maggioranza) ci si trovano bene. I dannati no, restano col dolore dell'arto fantasma, si disperano perché non rie­scono più a pian­gere, non riescono più a sentirsi imbecilli quando gli altri non capi­scono: perché gli altri devono capire, e poi hanno ragione loro. E un rigattiere, come tutti, deve saper essere comprensibi­le.


La sera di Natale fu ammainata la bandiera delle chimere. Era la definiti­va sconfitta dei sognatori. Che non avevano più la forza né la voglia di sputare in faccia ai ciarlatani benpensan­ti, ai quali niente era mai fregato dei sogni, che non c'entrano niente con i dibattiti sulla fine del comunismo.

Il Bertacchi in quelle illusioni ci aveva creduto forse meno degli altri, ma quella sera sentì l'impulso di salutare con il pugno chiuso, in piedi davanti al televisore, con la voglia di piangere se solo avesse ancora avuto lacrime. Abbiamo avuto tor­to, e forse ci è sempre piaciuto stare dalla parte sbagliata. La cosa che fa più rabbia è vedere quei gufi ben pasciuti che adesso godono come ma­iali e possono esclamare trionfanti "noi l'ave­vamo detto".

Nel magazzino aveva trovato una bandiera rossa di quelle belle, con la falce e il martello dorati sulla punta. Semplicemente strepitosa, si sentiva quasi Peppone. L'aveva rassettata e appesa al muro. Ma alla fine non gli fece l'impres­sione che si aspettava: ormai da tempo si era abituato a non sentire più nessuna im­pres­sione, a parte quelle fastidiose. Però gli piacque questa piccola provo­ca­zione senza spettatori. In quella sera di Natale se n'era an­data qualche altra chi­mera, ma ormai fare i conti era diventato noioso. Nel pomeriggio al bar aveva tentato di di­rlo al Nerelli, il quale però aveva risposto solo con una bestemmia. Era diffici­le capire se fosse una bestemmia di solidarietà o no: il Nerelli non aveva ancora imparato ad ac­cettare che a Natale non potesse andare a pescare invece di stare con i parenti. Il Bertacchi aveva tratto comunque da questa risposta un profondo insegnamento, che si meditò a lungo in silenzio davanti al prosecco. Il Nerelli, per niente soddisfat­to, ri­muginava su qualche remoto pensiero, o forse soltanto sui cagnotti ormai da buttare per colpa dei soliti nipoti pi­scialletto.

Andiamo a bere qualcosa diceva sempre così il Nerelli, quando aveva voglia di cambiare bar. Per il Bertacchi faceva lo stesso, così se ne andarono ciondolando, l'uno tossicchiandosi una sigaretta, l'altro barcollando in oscure meditazioni, delle quali perdeva continuamente il filo.

Al bar del Porto trovarono il Varini, anche lui incazzato perché alla gente si guastavano le antenne anche a Natale. Ma lui sapeva prendere tutto con una risata sommessa. Gli altri due gli dicevano banalità del tipo "l'hai volu­ta la bicicletta". Così il risentimento contro il destino di stemperava insieme al rosso del Campari nel bian­co, una barbarie ordita dal Luigi, da sempre subita dal Bertacchi. Tanto più che un Campari in tre col bian­co era veramente terribi­le. Però stasera era bello così, starsene con quei due senza l'as­sillo di aver qualcosa da dire.

Uscirono rinfrancati, tirando calci alla nebbia, compiacendo­si delle innocue vol­ga­rità che li tenevano allegri, proprio per l'irrimediabile mancanza di senso.

Ma poi, quando si tornava a casa era tutto finito, e da solo si chiedeva come mai non riusciva più a fare quella faccia feroce e bella, con quell'espres­sione da allegro ga­glioffo che tanto gli piaceva. Molto male affezionarsi a se stesso, recitare la parte. Ma quale parte. O mamma, lo stomaco.



Marco Laudiano

(Tutti i diritti riservati)

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