Finibus terrae
Vorrei essere fieno sul finire del giorno
portato alla deriva
fra campi di tabacco e ulivi, su un carro
che arriva in un paese dopo il tramonto
in un’aria di gomma scura.
Angeli pterodattili sorvolano
quello stretto cunicolo in cui il giorno
vacilla: è un’ora
che è peggio solo morire, e sola luce
è accesa in piazza una sala da barba.
Il fanale d’un camion,
scopa d’apocalisse, va scoprendo
crolli di donne in fuga
nel vano delle porte e tornerà
il bianco per un attimo a brillare
della calce, regina arsa e concreta
in questi umili luoghi dove termini, Italia, in poca rissa
d’acque ai piedi d’un faro.
È qui che i salentini dopo morti
fanno ritorno
col cappello in testa.
Vittorio Bodini
da "La luna dei Borboni e altre poesie"
di Alberto Selvaggi
LECCE -
Non sai neppure come ci sei finito.
Qualcosa
evidentemente ti ha portato qui.
È il sentiero dell’esperienza. Leuca
non è soltanto una località turistica glamour, è sbagliato quanto è
scritto sulle guide e nelle enciclopedie.
E' la fine del mondo, estremità
della terra che si fa penisola, e pertanto devi scegliere, sopra alle
scalinate infinite che guardano due mari, Adriatico e Ionio, che si
rimescolano nel perenne conflitto.
Scegliere se vivere o morire...
...- Leuca –
nessuno nel regno la chiama Santa Maria di Leuca – è un
fazzoletto nelle proprietà di Castrignano del Capo, comune col quale
persiste un «dialogo aperto».
Lo scirocco la imbeve, è cinta da ville
erette come corni nell’immaginifico: la Mellacqua turrita, San Giovanni,
Meridiana, Episcopo.
Le «bagnarole» di legno per i sollazzi estivi le
hanno distrutte i decenni e giusto qualche superstite in muratura
ricorda che le signore possedevano ognuna una fetta di mare esclusiva.
Le grotte no, tutte lì, sempre lì culle di reperti paleolitici,
iscrizioni greche, latine, come occhi di mare splendenti, a stravolgere
nelle orbite allucinogene i parametri dei colori fissati da Goethe.
C’è
quella detta del Diavolo perché ruggisce, il terzetto fantasmagorico
delle Cazzafri, e la Bambino coi resti preistorici di un elefante e di
un rinoceronte, e i Giganti, e la Presepe, e quando il sole agonizza
nell’orizzonte tutte fanno a gara per berne i barbagli che dilagano come
sangue per vampiri della scogliera.
Più all’interno c’è la Torre
dell’Omo morto a guardare l’arrivo dei turchi e dei saraceni, con lo
scalo antico dei pescatori ai piedi.
E lassù, a 48,60 metri, 102 dal
livello marino, c’è un tizio che si chiama Antonio Maggio, il guardiano
del faro, intento a guardare gli uomini che approdano all’estremo di
questo lembo di terra, per rendersi conto che è il punto da cui tutto
incominci.
(dalla rete)
(dalla rete)
alla deriva, da sempre, anche adesso,
questo beccheggiare nel mare della vita;
go riposto fiducia negli altri, in me,
ora provo dolore, profondo, dentro...
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