lunedì 9 marzo 2020

Matteo Olivero

Matteo Olivero
"Primi raggi"
Lo chiamavano “il pittore della neve”, un’espressione riduttiva perché Matteo Olivero è piuttosto un pittore della luce, avendo fatto della ricerca luministica la ragione della sua arte. Certo la neve è presente in molti dei suoi quadri: la montagna rappresenterà per tutta la vita il suo rifugio perché in montagna sono le sue radici.

Del mattino
 
Un vetro s'è fatto acciecante
Una ragazza lava i panni e canta
Uno stornello giovane sorge puro ed è un rito
Gridi d'uccelli sono nel mattino
Rinasci come l'erba senza ricordi.
1938

Aldo Capasso
 
vigore del giorno, il mattino, oggi
è aria irreale, immota, forse ammorbata;
siamo preda di istanti che passano lenti
scanditi dal numero dei rimasti indietro...

Matteo Olivero nasce a Pra Rotondo, frazione di Acceglio, il 15 giugno 1879. Il padre muore quando lui ha 9 anni. Matteo si trasferisce con la madre prima a Dronero, poi a Cuneo.
La vendita del podere di famiglia gli consente di frequentare l’Accademia di Belle Arti a Torino, dove si diploma e la sua arte sboccia.
Le sue tele sono scorci folgoranti, paesaggi di ineffabile bellezza, caratterizzati da riverberi e controluce intensi.
Nel 1900 visita l’Esposizione Universale di Parigi.
Matteo Olivero
"E maledice al giorno che rimena il servaggio"
(1904-1905)
Scopre il divisionismo e l’arte di Segantini. 
Stringe rapporti con lo scultore Auguste Rodin. Due anni dopo, alla Quadriennale di Torino, incontra per la prima volta Pellizza da Volpedo, e nasce una scintilla artistica che durerà nel tempo.
«In quanto a talento, Olivero non aveva nulla da invidiare né a Pellizza né a Segantini» spiega Musiari. «Aveva un rapporto con la luce molto particolare.
I suoi paesaggi, i suoi tramonti, le sue distese innevate hanno fatto di lui il pittore della montagna per eccellenza».
Ma Olivero è uomo schivo, che non regge la competizione professionale della grande città.
Si trasferisce a Saluzzo con la madre, a cui è legato da un rapporto esclusivo, che gli limita le relazioni e gli inibisce i rapporti con l’altro sesso.
Esiste solo lei: la sua mecenate, la sua musa, la sua modella.
Quando nel 1930 la donna muore, la depressione latente esplode.
La situazione impietosisce Luigi Burgo, proprietario delle omonime cartiere, collezionista e da tempo suo grande estimatore.
L’ingegnere ristruttura per lui un rustico a Verzuolo, che l’artista usa come studio.
Ma senza sua madre non riesce più a creare, e nemmeno a vivere.
Sceglierà la soluzione più dolorosa e veloce, come Pellizza da Volpedo 25 anni prima.
La mattina del 28 aprile 1932 scavalca l’abbaino del suo studio e si lascia cadere nel vuoto.
Sul suo cavalletto una tela destinata a rimanere incompiuta, un angolo fiorito in un prato verde.
Titolo dell’opera: «Serenità».
La sua ultima contraddizione.
Timido e guascone, semplice e raffinato, determinato e fragile.
Matteo Olivero è stato artista di grande talento e straordinarie contraddizioni. Ha vissuto gli anni della maturità nel ’900, ma è rimasto sempre un uomo dell’800.
Ha frequentato i salotti parigini ma non si è mai staccato dalla sua terra d’origine, la Val Maira, nel cuneese.
Per tutta la vita ha inseguito la luce - che nelle sue tele ha cercato di catturare, imbrigliare, scorporare in mille colori - ma ha finito i suoi giorni inghiottito dal male oscuro.(Fabrizio Accattino - dalla rete).
 

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