sabato 31 gennaio 2015

I giorni della merla

I tre giorni della merla sono, secondo la tradizione, gli ultimi tre giorni di gennaio: 29, 30 e 31 oppure gli ultimi due giorni di gennaio e il primo di febbraio.
 
Sempre secondo la tradizione sarebbero i tre giorni più freddi dell'anno.

 Sempre secondo la leggenda, se i giorni della merla sono freddi, la primavera sarà mite; se invece sono caldi, la primavera arriverà in ritardo.

Come in tutte le leggende, esiste un fondo di verità:
nel calendario romano il mese di gennaio durava solo ventinove giorni. 
 
 Ecco di seguito due versioni della celebre leggenda sulla tradizione dei giorni della merla intercalate da una semplice poesia (dalla rete).
 
giorni della merla
Prima versione:

Tanto, tanto tempo fa a Milano ci fu un inverno molto rigido.
La neve scendeva dal cielo e copriva tutta la città, le strade, i giardini.
Sotto la grondaia di un palazzo in Porta Nuova c’era il nido di una famigliola di merli, che a quel tempo avevano le piume bianche come la neve.

C’era la mamma merla, il papà merlo e tre piccoli uccellini, nati dopo l’estate.
La famigliola soffriva il freddo e stentava a trovare qualche briciola di pane per sfamarsi, perché le poche briciole che cadevano in terra dalle tavole degli uomini venivano subito ricoperte dalla neve che scendeva dal cielo.
Dopo qualche giorno il papà merlo prese una decisione e disse alla moglie: “Qui non si trova nulla da mangiare, se continua così moriremo tutti di fame e di freddo.

Ho un’idea, ti aiuterò a spostare il nido sul tetto del palazzo, a fianco a quel camino, così mentre aspettate il mio ritorno non avrete freddo. Io parto e vado a cercare il cibo dove la neve non è ancora arrivata”.
E così fu fatto: il nido fu messo vicino al camino e il papà partì.

La mamma e i piccoli uccellini stavano tutto il giorno nel nido, scaldandosi tra loro e anche grazie al fumo che usciva tutto il giorno dal camino.
Dopo tre giorni il papà tornò a casa e quasi non riuscì più a riconoscere la sua famiglia! Il fumo nero che usciva dal camino aveva colorato di nero tutte le piume degli uccellini!
Per fortuna da quel giorno l’inverno divenne meno rigido e i merli riuscirono a trovare cibo sufficiente per arrivare alla primavera.
Da quel giorno però tutti i merli nascono con le piume nere e, per ricordare la famigliola di merli bianchi divenuti neri, gli ultimi tre giorni del mese di gennaio sono detti “I tre giorni della merla”.



I giorni della merla

Nel grigio cielo
che offusca il sole
privo è il potere
innanzi all'infinito.

Merli accatastati
sopra pali della luce
osservano impavidi
il giorno furente.

Il vento sputa
il suo gelido alito.

Il freddo guaisce
come un cane bastonato.

e sui rami
nessuna foglia.

Col vin Brulé
invano si tenta
di riscaldare il cuore
tra le membra di ghiaccio.

Ma stretti han chiuso
i giorni della Merla
nel loro gelido abbraccio.

  
Stefano Rossi
 
 
giorni della merla
Seconda versione:

Una merla dal bellissimo piumaggio bianco, era sempre strapazzata da gennaio, mese freddo e scuro, che non aspettava altro che lei uscisse dal nido in cerca di cibo, per scatenare freddo e gelo.
Stufa delle continue persecuzioni, un anno la merla fece provviste che bastassero per un mese intero e poi si rinchiuse nel suo nido.

Rimase lì, al riparo, per tutto il mese di gennaio, che all’epoca durava ventotto giorni.
Giunti all’ultimo giorno del mese, la merla, credendo di aver ingannato il perfido gennaio, sgusciò fuori dal nido e si mise a cantare per prenderlo in giro.
Gennaio, furioso, se ne risentì e chiese tre giorni in prestito a febbraio.

Avutoli in dono, scatenò bufere di neve, vento, gelo, pioggia.
La merla si nascose allora in un camino e vi restò ben nascosta aspettando che la bufera passasse.
Trascorsi i tre giorni e finita la bufera, la merla uscì dal camino, ma a causa della fuliggine, il suo bel piumaggio candido si era tutto annerito.
Così essa rimase per sempre con le piume nere e da quel giorno tutti i merli nascono di colore scuro.
 

venerdì 30 gennaio 2015

Androne e poesia

Ami gli androni delle case antiche
giacché se chiudi gli occhi ascolti l'acqua
stregata dalla fionda secolare.
Ami i balocchi che rischiano
chiarori di baci le guance imitanti
pietà infantili le questue.
 
Marina Pizzi
Acquerugiole
 
 
 
acqua che diventa neve,
neve che si posa e copre,
i baci sono lontani,
anche quelli più casti...
 
 
andróne
 sostantivo maschile
[dal lat. andron -onis «passaggio», gr. ἀνδρών -νος «appartamento degli uomini», der. di ἀνρ ἀνδρός «uomo»].
– Vocabolario TRECCANI .

1. Presso gli antichi Greci, in senso lato, la parte della casa riservata ai soli uomini (sinon. quindi di andronìtis
); in partic., nei poemi omerici, la grande sala principale della casa greca, e più tardi, la sala dei banchetti.

 
2. In Roma antica, corridoio di disimpegno fra gli ambienti di riunione degli uomini e le stanze delle donne, e di accesso agli appartamenti degli ospiti.
 
3. Nell’architettura moderna, ambiente di passaggio dal portone d’ingresso della casa alle scale e al cortile.
 
4. Nell’architettura militare, il passaggio sotto il parapetto che mette in comunicazione il piano della fortezza con il fossato.

giovedì 29 gennaio 2015

Da una mela poetica a un quadro famoso


Michelangelo Merisi da Caravaggio
"Canestra di frutta"
1599 - olio su tela
Pinacoteca Ambrosiana - Milano
Ora tutto si quieta,
tutto raggiunge il buio.

Non parlavo che al cappotto disteso
al cestino con ancora una mela
ai miti oggetti legati

a un abbandono fuori di noi
eppure noi, dentro la notte

inascoltati.

Antonella Anedda

Residenze invernali


 
parlo alle cose, con la mente,
non aspetto risposte
ma riempio tasche riposte
di tanto pensare irrequieto...
 
 
Canestra di frutta
(nota anche con il nome antico di "Fiscella")
è un dipinto a olio su tela di 31x47 cm realizzato nel 1599 dal pittore italiano Michelangelo Merisi detto il "Caravaggio" (1571-1610) e oggi conservato nella Pinacoteca Ambrosiana di Milano.

 
La Canestra di frutta è stata anche
raffigurata sulla banconota da 100.000 lire
emessa in Italia dal 1994 al 1998
L'opera mostra un canestro definito con precisione analitica e quasi fiamminga negli incastri del vimini, all'interno del quale sono frutti e foglie di ogni genere. La natura morta è assunta a soggetto protagonista, tanto quanto lo sarebbe stato un eroe della mitologia in un quadro di storia.
Il canestro sporge impercettibilmente in avanti nel suo tangibile realismo tridimensionale (che si contrappone allo sfondo bidimensionale), come fosse in una situazione precaria, creando un colpo d'occhio che attrae lo spettatore moderno nell'immediato: questa tendenza, così come la presentazione di frutti bacati o intaccati dalle malattie, simboleggia la "vanitas" dell'esistenza umana, ovvero il richiamo alla caducità della vita, un bene effimero destinato a svanire nel tempo.
Si tratta in realtà di un sipario decontestualizzato, quasi sottratto dal suo reale contesto naturale; anche il realismo è soltanto apparente, poiché sono rappresentati insieme frutti di stagioni diverse. Il cesto di vimini è rappresentato come se si trovasse in alto rispetto allo sguardo di un ipotetico spettatore, come se fosse posto su di una mensola da cui dà l'impressione di sporgere lievemente. La scelta di questo taglio permette alla composizione di far emergere la natura morta attraverso l'uso di uno sfondo chiaro, uniforme e luminoso; la luce sembra provenire da una fonte naturale e svela le gradazioni di colore che differenziano gli acini verdi in primo piano e quelli già molto maturi nel grappolo posto dietro la mela bacata (che simboleggia la precarietà delle cose e il trascorrere del tempo), creando un effetto illusionistico di tridimensionalità dell'immagine.
La frutta stessa quindi diventa la protagonista del quadro ed acquista un significato quantomeno ambiguo: all'apparenza è fresca e fragrante ma, facendo attenzione, comincia in realtà a marcire, a rinsecchirsi e di conseguenza a rovinarsi fino aa arrivare a deteriorarsi completamente.
L'artista paragona così la brevità della giovinezza e dell'esistenza umana al ciclo della maturazione della frutta e dei fiori.
I frutti sono tutti legati alla simbologia cristologica, a presagire la passione di Gesù Cristo.
Le nature morte erano originariamente due: una legata al culto mariano ed una legata a Cristo.
Tuttavia la figura del cesto trova nel Cantico dei Cantici il suo modello ispiratore ed è simbolo della sposa, ossia della Chiesa: il suo sporgere in avanti verso lo spettatore è un segno di offerta di sé nei confronti dell'umanità. (da Wikipedia). 


mercoledì 28 gennaio 2015

Registare

Registrazione

divento attenta solo quando ti allontani
allora varo la registrazione fonografica
dei meandri e pieghe sudate
nel gesticolio iperteso del passato
da fotografare nel contatore acceso
acceso e invadente l'orecchio
che palpa il cuore con competenza convinto
lo appenderò al chiodo non appena è vacanza
dal costume secolare della mancanza
e il fianco sarà infantile e leggero.

Nadia Campana
Verso la mente
 
 
 
annotare con costanza,
ogni cosa, tutto
in un quaderno di ricordi
in un libro di frammenti...
 
 

registrare verbo transitivo [der. di registro]. – TRECCANI
1.
a. Scrivere, notare nel registro, in un libro o quaderno apposito, un avvenimento o una azione, di cui si vuole o si deve tener memoria; in partic., annotare su schede o registri un fatto contabile: r. una partita nel dare o nell’avere; r. un pagamento, una riscossione; il magazziniere registrò la merce uscita dal magazzino durante la settimana; ha l’abitudine di r. nel taccuino gli acquisti fatti nella giornata. In varie situazioni previste dalla legge ufficiale: r. la nascita, il matrimonio, la morte di una persona nei registri dello stato civile, nei libri parrocchiali; r. un veicolo, un aeromobile, ecc., iscriverlo negli appositi registri secondo un numero d’ordine (matricola) affinché gli atti relativi acquistino piena validità giuridica; r. o far r. un contratto presso l’Ufficio del Registro; r. un atto, un provvedimento, un decreto, e, con riferimento partic. alla Corte dei conti, r. con riserva un provvedimento del governo, prenderne atto, pur avendolo considerato illegittimo, perché possa diventare esecutivo ma sotto la responsabilità politica del governo (v. anche, per questi sign. e usi, registrazione e registro).
b. Tenere memoria, ricordare e tramandare per scritto: ogni giorno registra nel suo diario i suoi pensieri e i suoi sentimenti; la cronaca registra un succedersi di rapine; e, con intonazione più solenne, la storia registra le grandi imprese. Per estens., prendere nota mentalmente (in tono più o meno enfatico): ha registrato nella memoria i nomi dei suoi nemici. Con ulteriore estens., spec. nella forma impers., rilevare l’avverarsi di un fatto, di un evento: nell’ultimo decennio si è registrato in Italia un forte calo demografico; il traffico è intenso ma finora non si registrano gravi ingorghi sulle autostrade. c. Accogliere, definire o tradurre, un elemento lessicale e il suo uso in un’opera lessicografica: una parola che non è registrata in nessun vocabolario; un buon vocabolario deve r., con ogni voce, i suoi usi e costrutti; un dizionario che registra soprattutto termini economici; una raccolta concepita per r. i neologismi.

2. Nel linguaggio scient. e tecn., in relazione a un certo fenomeno o a una data grandezza, eseguire la registrazione del fenomeno o della grandezza in questione (v. registrazione): i sismografi hanno registrato una forte scossa sismica; l’elettrocardiografo, o l’elettrocardiogramma, non registra alcunché di anormale; apparati, apparecchi, strumenti per r. la temperatura, l’umidità dell’aria, la forza del vento, la quota. In partic., riferito a suoni e voci e anche a immagini, rilevarli per poterli poi riprodurre in ogni momento: r. (su disco fonografico, su nastro magnetico, ecc.) una canzone, un concerto; r. una conversazione, un’intervista, un discorso politico; r. una rappresentazione teatrale, uno spettacolo, un dibattito, un programma televisivo, per riascoltarli e rivederli, e soprattutto per trasmetterli per radio o per televisione.

3. Mettere a punto un meccanismo o una macchina, uno strumento o un apparato, perché funzioni perfettamente o nel modo voluto: r. un orologio, perché dia l’ora esatta; r. un organo meccanico, in modo da correggere piccoli difetti, o da modificare le prestazioni entro ristretti limiti (r. le punterie di un motore, la frizione o i freni di un automezzo); r. un organo, accordarne o cambiarne i registri. Con uso estens. e fig., poco com., armonizzare, affiatare gruppi o insiemi: nella squadra di calcio nazionale i varî reparti non sono ancora ben registrati.

◆ Part. pass. registrato, anche come agg.: bene mobile registrato, il bene mobile che è iscritto in appositi registri pubblici, nei quali devono essere trascritti gli atti giuridici che attribuiscono, modificano o trasferiscono, diritti reali concernenti detti beni mobili; marchio registrato (v. marchio); nell’uso radiofonico e televisivo, trasmissione (e rappresentazione, musica, conversazione, ecc.) registrata, per essere trasmessa «in differita», in contrapp. a quella trasmessa direttamente (detta trasmissione in diretta).

martedì 27 gennaio 2015

Blando

 
blàn-do
Significato: Mite, con effetti moderati; dolce, carezzevole
dal latino blandus.
 
Temperato, mite, dolce: il notturno zeffiro B. sui flutti spira (Foscolo); una b. punizione; maniere b.; fuoco b., luce b.; un purgante b., che non ha azione drastica.

 ◆ Avv. blandaménte, in modo blando, o con azione blanda, cioè mite, delicata, leggera.
 

Una parola il cui significato risiede nel suo stesso suono; infatti il blandus latino ha un'origine espressiva, onomatopeica.
Il blando è il dolce, nella sostanza e negli effetti: è blando il rovescio che appena inumidisce i prati, blando il medicinale delicato, senza effetti collaterali, blande le parole di critica dell'osservatore soddisfatto.

"il notturno zeffiro B. sui flutti spira (Foscolo)"
 
Da questa parola deriva il verbo blandire, col significato di lusingare, addolcire - si possono blandire gli animi intemperanti, e le persone arroganti -, e il sostantivo blandizia, col significato di carezza o allettamento - si può parlare delle blandizie dell'infermiera o delle blandizie della vacanza ben goduta.  
E forse è proprio l'immagine della carezza a rappresentare il nocciolo di questo fascio di parole, un fascio elevato, gradevole, che dota di connotati nobili dei significati già forti di un'intrinseca piacevolezza (dalla rete).
 
Blande Carezze
 
In blandi accenni d'affetto
carezze percorrono visi;
la mia mano si spinge a cercare
nascoste promesse di oblio.
In blandi segni del tempo
invisi alla voglia di dare
costretti dagli anni
vaghiamo perduti...

Anonimo
del XX° secolo
poesie ritrovate

domenica 25 gennaio 2015

Pietà

pietà sostantivo femminile. (ant. pietate, pietade)
[lat. piĕtas -atis (der. di pius «pio, pietoso»)]. – TRECCANI
1.
a. Sentimento di affettuoso dolore, di commossa e intensa partecipazione e di solidarietà che si prova nei confronti di chi soffre: L’altro piangëa; sì che di pietade Io venni men così com’io morisse (Dante); Ove sia chi per prova intenda amore, Spero trovar pietà, non che perdono (Petrarca); pietà fra gli uomini Il misero non trova (Leopardi); Dio, abbi pietà di me! (traduz. del lat. miserere mei, Deus: v. miserere); avere p. di sé stesso, commiserarsi; una persona che non ha p. o senza p., crudele, spietata; destare p.; muovere, muoversi a pietà. Comune la locuz. fare p., suscitare compassione, commiserazione: era ridotto in modo da far p.; anche, iperbolicamente, di cosa mal fatta o mal riuscita, o meschina, miserevole e sim.: un romanzo, uno spettacolo che fa p.; con soggetto di persona, suscitare un sentimento di superiore compatimento o disprezzo: per come ti sei comportato mi fai solo pietà. Per pietà!
esclamazione con cui si rivolge ad altri una preghiera, una supplica.
b. La disposizione a sentirsi solidali con chi soffre: affidarsi all’altrui p.; una persona piena di p.; pietade non è passione, anzi è una nobile disposizione d’animo, apparecchiata di ricevere amore, misericordia e altre caritative passioni (Dante).
2.
a. Nel linguaggio letter., con sign. più vicino a quello originario del lat. pietas, disposizione dell’animo a sentire affetto e devozione verso i genitori, verso la patria, verso Dio, e a operare di conseguenza, o, più in generale, rispetto reverenziale per ciò che è considerato sacro: la p. di Enea (v. pietas); p. di figlio; p. verso la patria; la p. per le memorie, per le tradizioni domestiche
. In partic., nella teologia morale, la virtù, considerata parte della giustizia, per cui si tributa il doveroso e conveniente ossequio e la debita reverenza ai congiunti per sangue, ai proprî concittadini e al proprio prossimo in generale.
b. Devozione religiosa: libri, pratiche di pietà
.

3.
Nell’iconografia cristiana, l’immagine, dipinta o scolpita, della Madonna che tiene in grembo Cristo morto: la Pietà di Giovanni Bellini (all’Accademia di Brera, Milano); la Pietà di Michelangelo (in S. Pietro, a Roma).
4.
In araldica, denominazione dei nati del pellicano, di solito tre, ch’esso nutre nel nido con il suo sangue aprendosi il petto con il becco.
 
Io ti grido pietà! Amore, sì, amore!
Misericorde amore che dona senza chiedere,
Racchiuso in un pensiero, saldo, sincero amore,
Che non è mascherato, che un'ombra non può ledere!
Dammi tutto di te - tutto - tutto - sii mia!
Le tue forme bellissime, dei tuoi baci l'incanto,
I tuoi occhi, le mani: dammi la fantasia
Che m'accende il tuo seno così tenero e bianco.
Dammi te stessa e l'anima: per pietà sii arrendevole,
Non lesinare un atomo se tu non vuoi che muoia,
O, continuando a vivere, ormai tuo miserevole
Schiavo, perda il palato della mia mente il gusto,
Dimentichi per sempre gli scopi della vita
E in quel dolore sterile l'ambizione infinita.
 
John Keats


Giovanni Dupré, Pietà, marmo, 1862-63,
Siena, Cimitero della Misericordia
amore, amore...
fregio di parola sul foglio
rinnovo il rito e la mano
compensa mancanze costanti... 
 
 
"La pietà è una delle più preziose facoltà dell'anima umana.
L'uomo, impietosendosi delle sofferenze di un essere vivente, dimentica se stesso e si immedesima nella situazione degli sventurati.
Con questo sentimento si sottrae al suo isolamento ed acquista la possibilità di congiungere la sua esistenza a quella degli altri esseri.
L'uomo, esercitando e sviluppando questa qualità che lo unisce agli altri, s'incammina verso una vita superpersonale, che eleva ad un livello più alto la sua coscienza e gli offre la maggiore felicità possibile.
Così, la pietà, mentre addolcisce le sofferenze degli altri, è giovevole ancor più a colui il quale la prova." (dalla rete) 
 

sabato 24 gennaio 2015

Vittoria Aganòor Pompili

Aganòor Pompilj... -li⟩, Vittoria.
Poetessa (Padova 1855 - Roma 1910);

di famiglia d'origine armena, sposò nel 1901 il deputato e giurista umbro Guido Pompilj, che alla morte di lei si uccise.
Ebbe a maestro G. Zanella, e poi, a guida letteraria, E. Nencioni, cui fu carissima.
La sua poesia, di uno spiritualismo che, pur risentendo di una certa atmosfera decadente, è testimonianza di un'autentica ansia di ricerca, toccò le sue note più alte nei toni elegiaco-amorosi della prima raccolta, Leggenda eterna (1900), che comprende anche i versi ispirati all'Aganòor dall'amicizia con D. Gnoli (v.).
Accenti poeticamente meno validi sono invece in Nuove Liriche (1908), che riflettono uno stato di vaga, e tardi conseguita, serenità (cfr. Poesie complete, post., a cura di L. Grilli, 1912, 3a ed. 1927; e Lettere a Domenico Gnoli, a cura di B. Marniti, 1967) (enciclopedia TRECCANI). 
 

E' nel mio sogno...
 
E' nel mio sogno un prato tutto verde
solitario, tra due
spalle di monte, e l'erba trema al soffio
dell'ombra.
Di là, nel sole, cantano,
ma il canto va lontano e poi si perde.

Più solitario resta
e più silenzioso,

nel mio sogno, quel prato tutto verde.
 
Vittoria Aganoor Pompili 

 

invece di venire penso,
risogno, risolvo, risiedo;
ecco un attimo pensato
e reso vivo e vero...

 
 
Nata a Padova da una nobile famiglia di origine armena, fu la settima figlia del conte Edoardo Aganoor e di Giuseppina Pacini.
Cresciuta in un ambiente familiare duro, dato il carattere mutevole e introverso del padre, Vittoria soffrì per tutta la sua vita di crisi depressive.
Istruita, per volere della madre, dal poeta Giacomo Zanella, manifestò fin da giovane una particolare propensione per le scrittura e per la poesia.

Troppo chiusa e timida, però, mantenne i suoi scritti segreti per lungo tempo. Estremamente garbata e piacevole all'esterno, nascose sempre il suo carattere tormentato e depressivo, che le causò una lunga dipendenza emotiva dalla sua famiglia. 
Dopo aver sacrificato gran parte della sua vita, nella cura della madre e della sorella invalide, alla morte della prima, si sposò con il nobile Guido Pompilj, uomo misantropo e difficile, che amò perdutamente Vittoria, che egli vedeva come il suo unico conforto in un mondo di debolezza e corruzione.

Dopo le nozze, Vittoria cambiò il suo atteggiamento verso la vita, e pubblicò il suo primo libro di poesie, Leggenda eterna (1900), che fu accolto con grande entusiasmo dalla critica.
Il successo incoraggiò la scrittrice a dare luce ad un secondo libro di poesie, questa volta dedicate al marito, Nuove liriche (1908).
Il 9 Aprile del 1910, però, mentre la vita stava sorridendo al massimo a Vittoria, poco più che cinquantenne, ella si spense di cancro.

Il dolore provocato dalla sua scomparsa portò il marito a togliersi immediatamente la vita; egli si sparò poche ore dopo.
Il gesto di Guido Pompilj conferì un'aura romantica al loro matrimonio e pose le poesie di Vittoria in ottica del tutto nuova, favorendone la divulgazione.
Vittoria Aganoor, che per tutta la vita aveva sfuggito la notorietà, era destinata a diventare famosa a causa della sua tragica morte (dalla rete).

Discendente da una nobile famiglia di origini armene trasferitasi in Persia e poi in Europa, Vittoria Aganoor nasce a Padova il 26 maggio 1855.
Da Padova la famiglia Aganoor si trasferisce a Venezia in un palazzo gotico al Ponte dei Greci.
Vittoria, insieme alle quattro sorelle, cresce nell’agiatezza tra le magiche atmosfere della città dei dogi.
Dai suoi maestri, Andrea Maffei e Giacomo Zanella, riceve una formazione letteraria di impronta classicista.
La rivista "La Donna” [5 novembre 1905] ci descrive Vittoria come una fanciulla dai grandi occhi scuri e dalla figura piena di grazia, che riunisce in sé i doni più preziosi delle due razze: l’orientale e l’occidentale.
Nel 1876 gli Aganoor si trasferiscono a Napoli.
Qui Vittoria conosce il letterato Enrico Nencioni grazie al quale si apre alla grande poesia moderna, italiana e straniera.
La sua fama di poetessa incomincia a diffondersi e le sue liriche sono sempre più spesso pubblicate dalle maggiori riviste dell’epoca. Ritornata a Venezia nel 1890, per anni la vita di Vittoria scorre tranquilla, divisa tra l’amore per la poesia e l’assistenza alla madre malata.
Frequenti sono i soggiorni nella villa di Basalghelle, vicino Treviso, e a Tarcento nel castello della sorella Elena.
Solo nel 1900, poco dopo la morte della madre, Vittoria pubblica la sua prima raccolta "Leggenda eterna”.
Nel 1901, dopo un breve fidanzamento, sposa a Napoli il deputato Guido Pompilj e si trasferisce a Perugia presso il palazzo Conestabile, in piazza Danti.
La signorilità di Vittoria, quel suo fascino così particolare, retaggio forse delle sue origini orientali, conquistano subito l’ambiente provinciale perugino.
Agli impegni mondani e salottieri della città, spesso, la poetessa dimostra di gradire maggiormente la quiete della casa di Monte del Lago.
La notte del 7 maggio 1910, Vittoria Aganoor muore dopo un intervento nella clinica "Villa Pampersi” a Roma.
Dalle numerose dediche riportate sui libri appartenuti a Vittoria Aganoor, si ha la misura della sua intensa partecipazione alla vita letteraria dell’epoca e dell’alta considerazione di cui godeva tra i maggiori scrittori italiani (dalla rete).

venerdì 23 gennaio 2015

Bruno Lauzi


In quanto ad occhi belli?
Alfonso Gatto!
Per musicalità?
Beh, Cardarelli!
Per essere così, cari signori,
darei fuori da matto...
invece, resta un fatto:
dentro, son come sono
di presenza.
Ben poca cosa.
E in quanto a intelligenza,
fin troppo spesso brilla.
Per assenza.

 
Bruno Lauzi
I mari interni

 
dentro di noi,
musica in noi;
fiumi i silenzi
oceani le angosce...
 
Bruno Lauzi, nato all'Asmara nel 1937 ma cresciuto a Genova, fa parte con Umberto Bindi, Gino Paoli e Luigi Tenco della cosiddetta scuola genovese dei cantautori. Conosce e diventa amico di Tenco tra i banchi di scuola. I due iniziano a scrivere canzoni contemporaneamente sotto la guida di Gianfranco Reverberi e di Giorgio Calabrese. Nella seconda parte degli anni Cinquanta si trasferisce a Varese, dove collabora con Piero Chiara. Scopre la canzone francese di Brassens, Brel, Aznavour e scrive Il poeta.  Abbandona la Facoltà di Legge a due esami dalla laurea perché ormai assorbito dall’attività artistica. Compone il classico Ritornerai raggiungendo il primo grande successo di pubblico. A Milano frequenta l'ambiente artistico di quegli anni, i Gufi, Enzo Jannacci e lavora al Derby, locale di cabaret assieme a Cochi e Renato, Felice Andreasi e Lino Toffolo. Alla fine degli anni Sessanta Bruno Lauzi conosce e diventa amico di Lucio Battisti, entra a far parte della Numero Uno. E penso a te, L'aquila e Amore caro, amore bello, sono i brani firmati Battisti-Mogol che permettono a Lauzi di raggiungere la vetta della classifica. Si afferma oltre che come interprete anche come autore con le canzoni Lo straniero (George Moustaki), Quanto t’amo (Johnnny Holliday), L’appuntamento (Ornella Vanoni), Piccolo uomo (Mia Martini). Entra in contatto con artisti internazionali quali Vinicius De Moraes , Toquinho, Petula Clark, Dionne Warwick,Tony Bennet, Peter Ustinov, Gabriel Garcia Marquez ,Serge Reggiani. Tutti ricorderanno le sue canzoni per bambini La tartaruga, e Johnny Bassotto. Tiene a battesimo Edoardo Bennato, Roberto Vecchioni, i Gatti di Vicolo Miracoli e porta al successo Onda su onda il brano di un suo avvocato, un “certo” Paolo Conte. Seguiranno sempre di Conte Genova per noi e Bartali, Incide Angeli con Lucio Dalla, Naviganti con Ivano Fossati, Maria dei parafulmini con Ron ed il figlio Maurizio. Nel 1989 al Festival di Sanremo il brano Almeno tu nell'universo scritto con Maurizio Fabrizio e interpretato da Mia Martini vince il Premio della critica. Proficua anche la sua attività di scrittore: I mari interni edito da Crocetti Editore e Riapprodi edito da Rangoni Editore, riuniti ora con il titolo Versi facili per le Edizioni Marittime dello stesso Lauzi, il secondo volume di poesie Esercizi di sguardo, Poesie contromano, sempre per Edizioni Marittime. Il suo non-romanzo Il caso del pompelmo levigato è pubblicato nei Tascabili Bompiani (dalla rete)