ritornare, quante volte, sempre,
nei luoghi amati un tempo, ora vuoti;
Ecco la casa antica, ecco il terrazzo.
càssero d’una nave a cui volgea
prospera allora e lieta la fortuna.
Ero ragazzo,
e di lí m’affacciavo a rimirare,
con una vaga idea
del mondo e della vita, a lungo il mare
e questa dolce luna
che, come allora, un palpito v’accende
d’innumeri faville ed un solingo
grillo ne la scogliera
desta, il cui canto vince il borboglío
continuo di tutta la riviera.
Ricordo che ogni sera,
non certo questo, un altro grillo, il mio
fantastico e ramingo
spirito richiamava a questa pace
un borgo addormentato innanzi al mare,
dopo il fragore assiduo del giorno,
del traffico vorace
del molo là fitto di navi e lungo
la spiaggia irta di zolfo accatastato.
E sentivo il conforto
che doveva venire a quelle navi
dal lor sicuro placido soggiorno
nell’amplesso del porto;
che lontano da tutto e da me stesso
teneami allora un’ansia smaniosa
d’ignota attesa, e incerta
mi sembrava e precaria ogni cosa.
Oh tu che stavi lí quasi ogni sera
curvo su la ringhiera
di quel terrazzo, guarda qui, su questo
balconcino modesto
della casa vicina, e ascolta il suono
della mia voce. Non la riconosci?
Io son qua. Chi sono?
Son questa mia tristezza, ancora in piedi,
e affaticata e rotta i sogni tuoi?
e tu, caro ragazzo, tu che vuoi?
tu che guardi costà la luna e il porto,
un’ombra sei, sei morto,
sei forse un cencio appeso
all’antica ringhiera del terrazzo,
e di te morto in me ben sento il peso.
Cresciuto è il borgo e son compiute ormai
le due nuove scogliere,
braccia protese alle lontane genti
di tutte le bandiere.
Quando su queste desolate ardenti
sabbie sorgean poche e modeste case,
e in mezzo al viavai
di tanti carri, dalla torre antica
usciano alla fatica
i galeotti rasi, trascinando
con stridor lungo la catena a schiera;
e un banditore all’alba, ogni mattina,
fiero nel volto, cotto
dal sole, alzava a le mascelle vaste
la man villosa e con stentorea voce
tre volte, urlava il bando:
«O uomini di mare,
venite a lavorare alla marina!»;
e accorrean tutti, scamiciati e scalzi,
alle stadere, presso le cataste
di zolfo e, curvi sotto
il giallo incarco stridulo, nel mare
entravano, vociando, in fila, e poi
cariche andavano a vela oltre il porto
le spigonare
(vita e fatiche di selvaggi eroi);
avea mio padre, avventuroso e accorto
mercante, amica la fortuna, e quante
venian di Francia navi
e navi d’Inghilterra,
tutte per lui se ne partiano gravi
di zolfo o per Levante
o verso Gibilterra.
Cangiò fortuna. Ed ora la ricchezza
altrui, di chi gli fu minore, sembra
un’ingiuria al caduto,
per quanto vecchio, adatto ancor di membra,
il traffico cresciuto
con torva angoscia egli da lungi spia,
mentre la mamma mia,
che fu sempre signora,
pallida e curva nella poverta’
solo per lui s’accora;
guarda la casa accanto
dall’aereo terrazzo, ove felice
visse la famigliuola,
ma serra in cuore il pianto;
e sconsolata e sola
neppur tra se con un sospiro dice:
«Quando stavamo là…».
Porto Empedocle, Settembre 1910
Luigi Pirandello
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