mercoledì 17 aprile 2019

Morte e poesia


Che io apprenda tutto fin dalla morte,
ma non chiamatemi con un nome né con l’uso delle cose,
cucchiaio, biancheria, penna,
biancheria intensa con la respirazione dentro,
e la tua mano sanguina nella mia,
brilla tutta se un po’ della mia mano sanguina e brilla,
nel tocco tra gli occhi,
nella bocca,
nella riscrittura di ogni cosa già scritta nelle interlinee
delle cose,
fiat cantus! e si faccia il canto sdrucciolo che regola la terra,
il canto a due voci,
l’inesauribile,
il quanto si lavora perché la notte appaia,
e di notte si veda la luce che scompare sul tavolo,
chiamami col tuo nome, scambiami,
toccami
sulla bocca senza idioma,
già non ti sei mai chiamata,
già sei pronta,
già sei tutta.


Herberto Helder
da "La macchina lirica"
traduzione di Giulia Lanciani
 
Gli storici delle religioni e gli etnologi hanno quasi sempre ritenuto che la morte di un individuo sia, soprattutto nelle culture arcaiche e primitive, un “fatto sociale”, un avvenimento che determina una crisi, non soltanto nel gruppo familiare, ma anche in quello più ampio della stirpe, della discendenza, del clan, della tribù; e che per questo le strutture sociali reagiscono alla morte attraverso una serie di mezzi mitici e rituali che inducono gli individui a vivere la morte secondo i paradigmi offerti dalla società (dalla rete).

arriverà temo, tra un po',
spero di fare ancora tante cose
in un susseguirsi di lente volute come
il fumo di un fuoco quando si spegne...
 

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