La Fonte Aretusa è uno specchio d'acqua nell'isola di Ortigia, nella parte più antica della città siciliana di Siracusa, luogo di incontro tra realtà e leggenda, uno dei più bei monumenti di Siracusa e della Sicilia. La sua origine è lo sviluppo di uno dei tanti sfoghi della falda freatica che si trova nel siracusano, la falda che alimenta anche il fiume Ciane sul lato opposto del porto. Presenta una forma circolare doppia, con all'interno una struttura circolare, ovvero un doppio cerchio concentrico.
Nella fonte Aretusa infatti è ambientata la leggenda di Aretusa e Alfeo, uno dei miti più affascinanti di Siracusa:
La leggenda narra di Aretusa, una delle bellissime ninfe di Artemide che, per sfuggire all'amore del cacciatore Alfeo, fu trasformata dalla dea in una bella fonte.
Ma Alfeo la riconobbe lo stesso e, prendendo a sua volta le sembianze d'un fiume, mescolò felicemente le proprie acque con quelle dell'amata ninfa Aretusa (con buona pace della bella e capricciosa dea Artemide).
Il fascino visivo di una fonte d'acqua dolce che giunge per via sotterranea sino all'isola per poi riversare le sue acque in mare, ha certamente affascinato molti poeti e scrittori come: Pindaro, Mosco, Ovidio, Virgilio, D'Annunzio, da John Milton nel Licida e da Alexander Pope nel Dunciad; raccontata dagli storici: Timeo, Pausania, Diodoro Siculo, Strabone, Cicerone; raffigurata dai monetieri siracusani Cimone ed Eveneto; musicata dal compositore polacco Karol Szymanowski (dai "Miti per violino e Pianoforte opera 30", brano che potete ascoltare in fondo al post).
La tradizione, raccolta da Pausania, vuole che Archia, prima di partire per fondare la colonia, interpellasse l'oracolo di Delfi che così gli rispose: "Un'isoletta, Ortigia, in mezzo al fosco mare ne sta, di contro alla Trinacria, ove la bocca sgorga dell'Alfeo, mista alla polla d'Aretusa bella". Anche Orazio Nelson rimase incantato dalla fonte, e quando sostò a Siracusa nel giugno del 1798, prima di affrontare Napoleone ad Abukir scrisse: "Grazie ai vostri sforzi noi ci siamo riforniti di viveri ed acqua, e sicuramente avendo attinto alla Fonte Aretusa, la vittoria non ci può mancare." La fonte Aretusa è ad oggi il cuore di Ortigia, luogo di ritrovo e passeggio più volte sottratto al rischio di prosciugamento. Svariati terremoti nei secoli hanno minacciato il secolare afflusso di acqua, sino a pochi anni fa quando la siccità e forse persino i lavori di costruzione del terzo ponte, hanno ridotto la portata di acqua alla fonte mettendo a rischio la salute del papiro, che cresce all'interno della pozza. Il papireto di Siracusa, e quello del Fiume Fiumefreddo, sono gli unici papireti d'Europa (da Wikipedia).
Battista lorenzi, "Alfeo e aretusa", 1568 |
Aretusa
Cerere madre, ora che la figlia
vede serena, chiede a te, Aretusa,
il perché della fuga, e come avvenne
che diventassi fonte. Tutte insieme
si fermano le onde, dalle quali
emerge la Divina, con il capo
grondante d’acqua: strizza con la mano
la chioma smeraldina, quindi narra
l’amore antico, in Elide, del fiume:
"Fra le Ninfe che vivono in Acaia
vissi Ninfa bravissima. Nessuna
sceglieva i gioghi con maggiore cura
o stendeva le reti con più arte.
Mi dicevano bella, pur se forte,
pure se non curavo la bellezza,
né gioivo alle lodi del mio viso.
Ciò di cui gode ogni altra, mi era, invece,
motivo di rossore, ché il piacere
mi sembrava delitto. Ritornavo
dalla selva Stinfalide, già stanca.
Fu d’estate, ricordo: la fatica
raddoppiava il calore. Trovo un fiume
che scorre silenzioso, senza gorghi,
dall’acqua trasparente fino al letto,
al punto che si possono contare,
dall’alto, i sassolini ad uno ad uno.
L’onda talmente calma sembrerebbe
immobile alla vista. Nei declivi
salici bianchi e pioppi, alimentati
naturalmente, davano alle sponde
l’ombra nata con loro in quelle rive.
Mi accosto al fiume e bagno solamente
la punta del mio piede, poi la gamba
sino al polpaccio. Quindi, non contenta,
mi slego la cintura, sciolgo i veli
e li appendo ad un salice ricurvo.
Mi immergo nuda. Mentre con le braccia
agito l’acqua, guizzo in mille giri,
mi tuffo e dopo emergo, all’improvviso
sento dal fondo come un mormorio.
Spaventata mi accosto dove l’orlo
è abbastanza vicino: ‘Dove corri?’
grida dall’onda Alfeo; quindi più roco:
‘Dove corri, Aretusa?’ Senza veli
fuggo, così com’ero, ché la veste
si trova all’altra riva. Quello brucia,
e m’insegue ostinato, ché gli sembro
facile preda, nuda come sono.
Quanto più corro tanto più m’insegue,
simile allo sparviero quando insegue
le timide colombe, e le colombe
fuggono con le piume trepidanti.
Mi spinsi sino a Psofo, ad Orcomeno,
sino a Cillene, al Menalo boscoso,
nell’Elide e nel gelido Erimanto.
Né mi raggiunse, ch’ero più veloce.
Ma cedono le forze: troppo a lungo
è durata la corsa. Quello invece
resiste alla fatica. Tuttavia
corro per le campagne e dove i boschi
sono più fitti; corro tra le rupi
e in mezzo ai sassi privi di sentieri.
Il sole è alle mie spalle: vedo un’ombra
che oltrepassa i miei piedi e che si allunga.
vede serena, chiede a te, Aretusa,
il perché della fuga, e come avvenne
che diventassi fonte. Tutte insieme
si fermano le onde, dalle quali
emerge la Divina, con il capo
grondante d’acqua: strizza con la mano
la chioma smeraldina, quindi narra
l’amore antico, in Elide, del fiume:
"Fra le Ninfe che vivono in Acaia
vissi Ninfa bravissima. Nessuna
sceglieva i gioghi con maggiore cura
o stendeva le reti con più arte.
Mi dicevano bella, pur se forte,
pure se non curavo la bellezza,
né gioivo alle lodi del mio viso.
Ciò di cui gode ogni altra, mi era, invece,
motivo di rossore, ché il piacere
mi sembrava delitto. Ritornavo
dalla selva Stinfalide, già stanca.
Fu d’estate, ricordo: la fatica
raddoppiava il calore. Trovo un fiume
che scorre silenzioso, senza gorghi,
dall’acqua trasparente fino al letto,
al punto che si possono contare,
dall’alto, i sassolini ad uno ad uno.
L’onda talmente calma sembrerebbe
immobile alla vista. Nei declivi
salici bianchi e pioppi, alimentati
naturalmente, davano alle sponde
l’ombra nata con loro in quelle rive.
Mi accosto al fiume e bagno solamente
la punta del mio piede, poi la gamba
sino al polpaccio. Quindi, non contenta,
mi slego la cintura, sciolgo i veli
e li appendo ad un salice ricurvo.
Gianfranco Bevilacqua, "Alfeo e Aretusa |
agito l’acqua, guizzo in mille giri,
mi tuffo e dopo emergo, all’improvviso
sento dal fondo come un mormorio.
Spaventata mi accosto dove l’orlo
è abbastanza vicino: ‘Dove corri?’
grida dall’onda Alfeo; quindi più roco:
‘Dove corri, Aretusa?’ Senza veli
fuggo, così com’ero, ché la veste
si trova all’altra riva. Quello brucia,
e m’insegue ostinato, ché gli sembro
facile preda, nuda come sono.
Quanto più corro tanto più m’insegue,
simile allo sparviero quando insegue
le timide colombe, e le colombe
fuggono con le piume trepidanti.
Mi spinsi sino a Psofo, ad Orcomeno,
sino a Cillene, al Menalo boscoso,
nell’Elide e nel gelido Erimanto.
Né mi raggiunse, ch’ero più veloce.
Ma cedono le forze: troppo a lungo
è durata la corsa. Quello invece
resiste alla fatica. Tuttavia
corro per le campagne e dove i boschi
sono più fitti; corro tra le rupi
e in mezzo ai sassi privi di sentieri.
Il sole è alle mie spalle: vedo un’ombra
che oltrepassa i miei piedi e che si allunga.
Stremata dalla fuga prego infine:
‘Aiutami, Diana; mi ha raggiunto!
Sono la tua guerriera; già mi offristi
di reggere con l’arco le tue frecce
chiuse nella faretra’. La Divina
ode, si impietosisce, poi raccoglie
le nuvole dal cielo e le riversa
a coprire il mio capo, mentre il fiume
cerca e ricerca, invano, dove il luogo
si copre di caligine; poi gira
attorno a quella nube, e per due volte
sfiora, senza saperlo, giusto il punto
dove sono celata. E per due volte:
‘Aretusa!’ mi grida ‘O tu, Aretusa!’
Misera! Con qual animo sopporto
tanta paura? Come l’agnellino
che sente i lupi fremere affamati
dietro il recinto? O come quella lepre
che, acquattata tra i rovi, sente i cani
fiutare ostili e, timida, non osa
muovere un pelo? Quello non demorde
e, non vedendo al suolo alcuna traccia
di piede umano, guarda quella nube
e riguarda quel luogo. Sento il corpo
grondante di sudore: gocce azzurre
scendono sul terreno, dove io vado;
la chioma è tutta rorida: veloce,
più veloce del dire e raccontare,
mi cambio in acqua. Pure trasformata
riconosce nell’onda la diletta
e lascia il corpo umano, ritornando
quel fiume ch’era prima, poi che vuole
fondere le sue acque con le mie.
Ma Delia infranse il suolo: trascinata
per le oscure caverne, giunsi a Ortigia
che ha il nome della Diva a me più cara.
Questa mi spinse in alto, a respirare
l’aria del mondo". Sino a qui Aretusa.
Cerere, la feconda, sotto il carro
aggioga due serpenti e ne costringe
la bocca con i freni; quindi vola
tra cielo e terra, dirigendo il carro
nella città Tritonia. Poi ne scende
e lo affida a Trittòlemo: gli ingiunge
di riversare sulla terra incolta
parte delle sementi a lui affidate
e parte invece spargere nel suolo
da rivangare dopo lunga sosta.
‘Aiutami, Diana; mi ha raggiunto!
Sono la tua guerriera; già mi offristi
di reggere con l’arco le tue frecce
chiuse nella faretra’. La Divina
ode, si impietosisce, poi raccoglie
le nuvole dal cielo e le riversa
a coprire il mio capo, mentre il fiume
cerca e ricerca, invano, dove il luogo
si copre di caligine; poi gira
attorno a quella nube, e per due volte
sfiora, senza saperlo, giusto il punto
dove sono celata. E per due volte:
Antoine Waterloo (Lille 1609 – Utrecht 1690) Alfeo e Aretusa |
Misera! Con qual animo sopporto
tanta paura? Come l’agnellino
che sente i lupi fremere affamati
dietro il recinto? O come quella lepre
che, acquattata tra i rovi, sente i cani
fiutare ostili e, timida, non osa
muovere un pelo? Quello non demorde
e, non vedendo al suolo alcuna traccia
di piede umano, guarda quella nube
e riguarda quel luogo. Sento il corpo
grondante di sudore: gocce azzurre
scendono sul terreno, dove io vado;
la chioma è tutta rorida: veloce,
più veloce del dire e raccontare,
mi cambio in acqua. Pure trasformata
riconosce nell’onda la diletta
e lascia il corpo umano, ritornando
quel fiume ch’era prima, poi che vuole
fondere le sue acque con le mie.
Ma Delia infranse il suolo: trascinata
per le oscure caverne, giunsi a Ortigia
che ha il nome della Diva a me più cara.
Questa mi spinse in alto, a respirare
l’aria del mondo". Sino a qui Aretusa.
Cerere, la feconda, sotto il carro
aggioga due serpenti e ne costringe
la bocca con i freni; quindi vola
tra cielo e terra, dirigendo il carro
nella città Tritonia. Poi ne scende
e lo affida a Trittòlemo: gli ingiunge
di riversare sulla terra incolta
parte delle sementi a lui affidate
e parte invece spargere nel suolo
da rivangare dopo lunga sosta.
Ovidio
Metamorfosi
Metamorfosi
Karol Szymanowski
"Fontana d'Aretusa"
tu fonte, io fiume,
"Fontana d'Aretusa"
tu fonte, io fiume,
ti unisci al mio scorrere lento,
come argentina cascata lambisci
io scorro tu cadi e insieme ci uniamo...
Gujil
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