domenica 31 maggio 2015

Mano

Martin C. Escher, Drawing Hands 1948

La parola “mano” in italiano è usata in molti modi di dire ed espressioni. 
Eccone alcuni tra i più usati:
 
essere in buone mani,
restare con le mani in mano,
passare la mano,
avere le mani legate,
dare una mano, alla mano,
mano a mano,
mettere le mani addosso,
avere le mani bucate,
fare man bassa.
 


Questa mano

Questa mano che regge
il bicchiere di cristallo con l’orlo d’oro
in questo momento, ghiaccioli
e ambrato succo di ananas, questa
mano che ha fatto infinite cose
e inutili e inutilmente,
questa mano che era così flessibile
a tessere versi e colori
e che si è frantumato il polso
tanto esile un tempo, un nodoso groppo
ora, e lei tutta ombre e rugginose
macchie di vecchiezza, che sta scrivendo
ora, e fra poco sarà un granello
di cenere, e io che la guardo, dove sarò?

 Helle Busacca
Poesie scelte
 
 
come farei
senza questa mano?
mi culla e accarezza
come nessuno,
cosa farei senza?
 

La mano è la porzione più distale dell'arto superiore. In essa si distinguono il polso, che media la continuità della mano con l'avambraccio, il metacarpo, che ne costituisce la porzione più ampia, e le dita, la cui flessione e opposizione sul metacarpo conferisce alla mano l'abilità prensile, tipica dei primati, ominidi compresi.
 
La mano comprende cinque dita, comunemente dette:
pollice, dal latino pollex-pollicis.
indice, utilizzato durante azioni in cui si indica oggetti, persone o direzioni.
medio, il dito centrale, posto nel mezzo delle altre dita.
anulare, il dito sul quale si porta la fede nuziale.
mignolo, il dito più piccolo detto in latino digitus minimus.
 
In ambito scientifico e più prettamente anatomico si preferisce invece numerare le dita, assegnandole così un nome legato alla loro posizione. Si ha così che, in senso latero-mediale, il pollice è considerato primo dito, l'indice secondo dito, il medio terzo dito, l'anulare quarto dito ed il mignolo quinto dito (da Wikipedia).

sabato 30 maggio 2015

Il Giorno

 
un giorno come un altro,
il mio giorno,
la pioggia appena caduta,
il mattino che sorge;
un giorno come un altro,
il mio giorno,
rivedo lunghe pause
e lontani sguardi,
amori andati... 

venerdì 29 maggio 2015

Erba

Con il termine erba si indicano genericamente le piante basse con fusto verde e non legnoso. Solitamente sono piante annuali, ma non rare sono le specie biennali o perenni che, dopo l'appassimento della parte aerea, rinascono l'anno successivo grazie alla sopravvivenza della radice in stato quiescente durante la stagione sfavorevole.
In cucina si utilizzano le erbe aromatiche, un sottoinsieme delle piante aromatiche, di cui si utilizzano esclusivamente fusti o foglie.
In erboristeria si parla invece di erbe medicinali o erbe officinali per quelle piante che hanno proprietà curative e benefiche riconosciute dalla medicina.
Molte piante, per lo più erbacee, hanno poi ricevuto il nome volgare di "erba" accompagnato da un complemento che quasi sempre ne specifica le caratteristiche o l'impiego (da Wikipedia).      

Quando l'erba tenera appare    
 
Qan l'erba fresch' e·lh folha par
e la flors boton' el verjan,
e·l rossinhols autet e clar
leva sa votz e mou so chan,
joi a de lui, e joi ai de la flor
e joi de me e de midons major;
daus totas partz
sui de joi claus e sens,
mas sel es jois que totz autres jois vens.
 
 
 
indifesi steli
su prati di vento,
la pioggia,
il sole,
sdraiarsi, respirare... 
   
 
Quando l'erba tenera appare e la foglia,
il fiore sboccia sul ramo,
e l'usignolo alta e chiara
leva la sua voce e intona il suo canto,
gioia ho di lui e gioia ho del fiore,
gioia ho di me e più grande di Madonna,
da ogni parte sono dalla gioia chiuso e cinto,
ma questa è gioia che tutte le altre vince.
 
Bernard De Ventadorn

 

giovedì 28 maggio 2015

Pioggia di primavera (inoltrata)

Piogge di primavera

Mentre cammini, una nuvola si apre
all'improvviso, viene giù acqua.
La pioggia, però, finisce quasi subito.
Allora, camminando sul selciato
della città, si vedono le strade scintillare
sotto il sole.
 
Gustave Flaubert
 
 









poi torna il sole,
vero, tutto cambia,
il freddo diventa colore
e le madide foglie
riprendono vigore... 
 

mercoledì 27 maggio 2015

Amarsi


Bisogna amarsi meno,
bisogna lasciare al tempo
l'ingorda gioia d'insegnare
che l'amore non è ricevere,

né dare,
ma lasciarsi prendere,
affondare.
 
Giovanni Testori
 
 
amarsi meno,
forse, non so,
io mi amo quando posso
e come posso...
 
 

Dopo l'accettazione di se stessi, il benessere psicologico deriva dal grado di amore che si ha per se stessi.
Ma più nello specifico cosa vuol dire amare se stessi?
Amare se stessi vuol dire sentire nel profondo di avere a cuore se stessi, le proprie emozioni, il proprio benessere fisico ed emotivo.

Cos'è che determina quanto si ama se stessi?
Primariamente le emozioni che si sono vissute ed esperite nell'infanzia con i genitori. Se si è sentito dire spesso con emozione "Ti voglio bene", se si è stati abbracciati, coccolati e rassicurati, se il clima famigliare era sereno; tutti questi sono fattori che porteranno a sentire di amare se stessi in età adulta.
Quando invece per motivi diversi non si è stati rassicurati e non si è sentito l'amore e l'espressione dello stesso da parte dei genitori, questo porterà ad avere delle difficoltà ad amare tutte le parti di sé (dalla rete).

martedì 26 maggio 2015

Riflesso polissilabo

I meandri che più dell'altro illividiscono l'anima
e quanto è nelle sere di peste nella cosciente rottura
del sangue protrarre questo mare di porfido
alle stagioni passive violetto il naso di Gogol
all'apparire sul ponte dello sgretolato mistero.
Quasi lucida la povertà e un gesto polisillabo
a imprigionare le tende che sul verde bagnato
hanno bisogno di vento.


Francesco Rivera
L'orefice
 
 
 polisìllabo
aggettivo e sostantivo maschile
[dal latino tardo polysyllăbus, greco πολυσύλλαβος, comp. di πολυ- «poli-» e συλλαβ «sillaba»] – TRECCANI -

1. aggettivo: Che è composto di più sillabe: nome polissillabo; parole polisillabe.
2. sostantivo maschile: Parola (cioè, unità lessicale) costituita di più sillabe, in contrapposizione a monosillabo;

con significato più particolare, parola formata di più di quattro sillabe
(in quanto i bisillabi, trisillabi, quadrisillabi sono indicati con il loro nome specifico).
 
 
ceselli di cose andate,
quadri con polvere
oggetti lasciati negli angoli
tesori da riscoprire...

domenica 24 maggio 2015

Tendine

Tendine
 
Finestre appena aperte
e colorate tendine, coi fiori,
cuori tenuti in disparte
cercano perduti amori.
Nel fumo di un fuoco
rivedo le cose disperse,
rinnovo il tacito gioco
le rive, le anime terse.
 
Anonimo
del XX° Secolo
poesie ritrovate
 
 
Le tende a vetro rappresentano il giusto compromesso tra design e costo, sono moderne e lineari allo stesso tempo economiche e facili da istallare. Sono utilizzabili per tutte le tipologie di infissi che e sono l'ideale quando sono situati in posizioni particolari che non permettono il raccoglimento delle tende ai lati. Infatti la tenda vetro è da fissare al telaio in modo che non svolazzi o rimanga impigliata nella porta o nella finestra.
Vi sono molte tipologie di tende a vetro:-Tende a rullo - Tende a stuoia - Tende a pacchetto - Tende alla veneziana - Tende alla Francese - Tende a vetro Classica (dalla rete).
 
 

sabato 23 maggio 2015

Riflesso adamantino

a-da-man-tì-no

Significato: Di diamante, simile al diamante.
Quindi anche trasparente, cristallino, duro, nitido, integerrimo.
dal latino: adamans diamante.
E' probabilmente incrocio, dal greco, di a-damao indomabile e dia(phanès) trasparente.
È una parola che dà attributi molto vari.

Il diamante è sia inscalfibile sia freddo, sia trasparente sia duro.

Una coscienza può essere adamantina, una morale, una carriera, il cielo può essere adamantino - nelle mattine d'inverno.

È bello soffermarsi anche su "diamante" in sé: tante ricche persone ne comprano in quantità, senza rendersi conto che il diamante è un'entità antica, che da miliardi di anni osserva il mondo - e che lo potranno anche comprare col denaro, ma manterrà comunque il distacco cristallino di chi non ha padroni (dalla rete).
 
come sempre,
adamantino e solo;
nel contesto rinnego,
ascolto parole nel vento;
confuso mi sporgo,
osservo, rivedo...
 
 
Adamantino è un termine usato per indicare le qualità tipiche del diamante, in particolare la durezza e la purezza ma spesso trasportate anche sulle qualità morali di una persona come la fermezza, l'integrità o la irreprensibilità. La parola deriva dal termine latino adamantinus o adamas che veniva usate per indicare appunto il diamante. Un sinonimo può essere anche diamantino anch'esso usato per indicare oggetti splendidi o fulgidi. Virgilio nell'Eneide descrive Tartaro come il posto infernale dove gli dei avevano imprigionati i Titani. L'ingresso era sorvegliato dall'Idra e protetto da colonne adamantine.
Per adamantino si intendeva un materiale talmente duro che niente poteva tagliarlo (Wikipedia).

venerdì 22 maggio 2015

Vespa crabro

Il calabrone (vespa crabro) è uno dei Vespidi più caratteristici delle nostre regioni.
E' riconoscibile per le grosse dimensioni e per la tinta rossiccia della parte anteriore del corpo.
Gli occhi sono molto grandi e con una particolare forma a "c", il peduncolo addominale è breve, alcune macchie rosse ornano la testa, mentre il resto del corpo è nero, giallo e rosso.
La femmina può raggiungere i cinque centimetri di lunghezza, mentre maschio e operaie misurano 2-2,5 cm.
Le femmine fecondate trascorrono l'inverno in condizioni di metabolismo rallentato, nascoste nei tronchi o nel terreno, producendo anche glicerolo, che agisce da "antigelo".
Quando esce dal lungo letargo invernale, la femmina fecondata del calabrone va alla ricerca di un luogo adatto alla costruzione del nido, che può essere sospeso oppure nascosto in una cavità, con l'apertura delle celle rivolta verso il basso.
A volte può approfittare di un alveare vuoto.
Il materiale usato per la costruzione è spesso la corteccia ancora verde e tenera di varie piante (spesso dei frassini giovani), che l'insetto impasta con la saliva e, prendendolo tra le zampe, lo applica levigandolo a lungo con le mandibole; durante la costruzione, che è molto rapida, si reca spesso al più vicino specchio d'acqua per bere abbondantemente.
Quando il nido è pronto la femmina del calabrone depone le uova, uno in ogni cella, introducendovi l'addome.
Dopo cinque giorni ne escono le larve, che rimangono fissate al fondo della cella con l'estremità posteriore del corpo.
La madre le nutre dapprima con nettare, poi con alimenti più sostanziosi: come gli altri vespidi piomba sulla preda, l'atterra e le spezza ali e zampe; poi mastica il torace della preda, ricco di proteine per la presenza dei muscoli del volo, afferra la pallottola con le mandibole e la porta alla prole. Dopo nove giorni la larva si trasforma in ninfa, e dopo altre due settimane compare una giovane operaia, sterile (dalla rete). 
Tra gli insetti di cui si deve temere la puntura, c'è certamente il calabrone, si tratta del più grosso Vespide europeo per dimensione, il suo aspetto lo fa spesso scambiare erroneamente per un ape, perché la sua colorazione a righe gialle e nere è simile. Facendo una passeggiata in campagna o in montagna è facile imbattersi in questo insetto che, tendenzialmente, non è aggressivo verso l'uomo ma che, se disturbato, può attaccarlo pungendolo. Se si viene punti da un calabrone, l'insetto inietta una piccola quantità di veleno, se si tratta di una singola puntura, per quanto doloroso non si dovrebbero avere grossi problemi a meno che non si scateni una pericolosa reazione anafilattica. Bisogna preoccuparsi un po' di più se vengono punti i bambini e se le punture sono più di una.
Se sfortunatamente vi capita di essere punti da un calabrone, per prima cosa non fatevi prendere dal panico. Sicuramente si tratta di un'esperienza un po' dolorosa, ma se non sorgono particolari problemi dovuti ad allergie personali, non c'è molto di cui doversi preoccupare. Per prima cosa dovete pensare ad estrarre il pungiglione del calabrone dal punto in cui è avvenuta la puntura, per farlo utilizzate una pinzetta, nel caso sia più in profondità potete aiutarvi adoperando un coltellino o un oggetto appuntito come un ago, naturalmente non prima di averli accuratamente sterilizzati.
Per sterilizzare un ago, ad esempio, vi basterà passare su una fiamma la punta dell'ago, non appena si sarà raffreddato potrete utilizzare l'ago per tentare di estrarre il pungiglione.
Una volta estratto dovrete disinfettare la zona passandoci sopra un batuffolo di cotone bagnato con del disinfettante o con dell'alcol. Non strofinate la zona della puntura, farlo farebbe in modo che il veleno entri più facilmente in circolo.
Se avvertite molto bruciore e gonfiore, potrete trovare sollievo nel far scorrere sulla zona della puntura dell'acqua fredda o mettendoci sopra un cubetto di ghiaccio. Per ultimo, stendete uno strato di pomata adatta per le punture di insetti, questo vi dovrebbe dare un ulteriore sollievo dal prurito.
Se notate, comunque, a distanza di tempo, che il dolore ed il gonfiore non accenna ad attenuarsi, la cosa migliore da fare è recarsi dal tuo medico ed esporgli il problema (dalla rete).


Il calabrone 

   Questo ispido villoso calabrone
   l'ho trovato ubriaco fradicio
   di polline e di rugiada,
   nella campana di un fiore arancione.
Zampettava qua e là, ronzando
   per uscire, ma non trovava più la strada.

Lo tirai fuori, ed ora è lì, che vola
in un raggio di sole tutto d'oro,
come un ubriacone che s'alza dal
marciapiede
e s'incammina malsicuro,
borbottando.
 
Corrado Govoni 
 

 
Soltanto un battito
ala stremata si ferma
un fiore la accoglie,
una mano,
un dolore improvviso...

giovedì 21 maggio 2015

Una poesia perduta di Ippolito Nievo

          
forse, nel mattino,
ecco che si rompe i silenzio,
battito d'ali, fronda nel vento;
immoto stupore, ogni volta...

 
«Siamo perfettamente d’accordo con Lei per rapporto alla Beatrice Cenci del Guerrazzi; ma l’autore è proscritto, e i suoi versi, d’altronde bellissimi, nel nostro Giornale, sembrerebbero per avventura più presto una satira contro l’autore, che una critica dell’opera.» Con queste parole il sig. Klink il 24 novembre 1854 rifiutava la pubblicazione sulla prestigiosa rivista triestina «Letture di famiglia» di una poesia di Ippolito Nievo, ispirata a Beatrice Cenci, truculento romanzo storico di Francesco Domenico Guerrazzi (1804-1873). Nievo propose la stessa poesia a Camillo Giussani (1825-1907) che era editore e direttore il giornale «L’Alchimista friulano». La pubblicazione era prevista nel numero del 10 dicembre 1854; ma il giornale fu censurato e sostituito con un altro, ridotto, che portava questa dicitura: «Il foglio d’oggi era già stampato, ma per circostanze indipendenti dalla sua volontà la Redazione non poté pubblicarlo: supplisce pertanto col presente mezzo foglio di stampa». Al posto della poesia di Nievo fu pubblicata Avemaria della sera, scritta dall’abate Leandro Tallandini. Il manoscritto della poesia Beatrice Cenci non fu restituito, oppure per altri motivi andò perduto (smarrimento postale? censura?) e di questa poesia di Nievo non si conosce neppure il titolo esatto.
Della censura, Nievo si lamentava sovente. Scriveva, il 20 ottobre 1858, da Regoledo a Livia di Colloredo Altieri: «Mi chiede di nuove pubblicazioni che possano interessare? Mio Dio! Le migliori ci sono proibite, come le opere postume di Lamennais, la Fides di Guerrazzi, il Mario di Niccolini, e l’Epistolario del Giusti che uscirà fra poco da Lemonier. Se può beccare qualche d’una fra queste, beata lei!…»          
A gennaio 1849 Ippolito Nievo raggiunge la Toscana, passando per Ferrara e per Bologna. Si ferma prima a Firenze, poi va a Pisa.
Mancano documenti, ma sembra che sia stato anche a Livorno e lì abbia preso parte ai moti, ispirati da Francesco Domenico Guerrazzi, con cui il 10 e 11 maggio 1849 si tentò di impedire il ritorno via mare del Granduca di Toscana, sostenuto dalle armi austriache. Di questa sua presenza a Livorno, Nievo forse testimonia nei seguenti versi della sua poesia Il Mare. Episodi, pubblicata nell’opuscolo Versi, del 1855:
               
E anch’io meschino trovator di rime
Né miei più fanciulleschi anni, quand’era
Nuovo a tutto il pensiero, e la speranza
Vece tenea della lontana fede
Ond’oggi faccio schermo alle presenti
Viltadi, anch’io sulle deserte arene
Del Tirreno discesi, e popolai
De’ miei sogni quell’onde, ove le prime
Fenicie prore arditamente in traccia
Correvan di nuova terra.
 
Tornato al potere il Granduca, Ippolito Nievo progetta di imbarcarsi per la Corsica, di lì raggiungere Civitavecchia e puntare quindi su Roma, per dare il suo contributo alla difesa della morente Repubblica Romana; ma un vecchio amico di famiglia lo dissuade, dicendogli che è tanto giovane (ha da pochi mesi compiuto diciotto anni) e che in futuro non gli mancherà loccasione di battersi per una Italia unita.           
Francesco Domenico Guerrazzi, che per un anno aveva dominato con pugno dittatoriale la Toscana, all’interno di un triunvirato, fu processato e condannato a quindici anni di reclusione.
Ebbe poi la pena commutata con l’esilio in Corsica. Si fermò a Bastia ed abitò in una villa arrampicata in cima ad un colle, contornata da ulivi, non lontana da una antica e diroccata torre genovese. Di lì poteva godere un panorama immenso e intravedere, forse, la costa della perduta Toscana. In questa villa, che chiamò “Bellacanzone”, perchè lì arrivava il lungo respiro del mare, portò a termine il romanzo Beatrice Cenci che, pubblicato nel 1853, subì violenti attacchi, soprattutto da parte degli ambienti clericali più retrogradi. Nella ristampa Guerrazzi aggiunse una prefazione con documenti inediti che provavano la veridicità dei fatti da lui narrati.
Rimase in Corsica tre anni, dal 1853 al 1856. Dalla villa “Bellacanzone” fuggì una notte e s’imbarcò su un vecchio veliero che aveva gettato l’ancora al pontile di legno della spiaggia di Toga, presso Bastia.
In questa villa, alla fine dell’Ottocento si trasferì con la famiglia il pioniere inglese in Corsica Arthur Castell Southwell (1857-1910) che era agente marittimo e dei Lloyd, commerciante di cedri canditi e di acido gallico, proprietario di miniere in Corsica e vice-console onorario inglese di Bastia. Sua figlia Edith Southwell (1888-1936), interprete raffinata dell’anima profonda dell’isola, nel 1933 pubblicò i Canti popolari corsi. Dopo il 1920 Edith abitò a “Bellacanzone” solo nei mesi estivi poiché, avendo sposato il pittore, incisore e ceramista italiano Guido Colucci (1877-1949), nella restante parte dell’anno risiedeva a Firenze o a Roma. Pubblichiamo un’immagine un po’ sfocata di questa villa superba, tratta da una cartolina degli anni Trenta che rappresenta la spiaggia di Toga e la verde collina di Minelli.
Beatrice Cenci dalla rete

mercoledì 20 maggio 2015

Riflesso

 
anime intorno
collimano densi banchi di nebbie
poi vagano sole e perdute
come carovane fantasma...
 
Anonimo
del XX° Secolo
Frammenti ritrovati
 
 

martedì 19 maggio 2015

Rimpiattino

rimpiattino s. m. [der. di rimpiattare].
 – Nell’espressione fare, giocare a r., gioco di fanciulli, uno dei quali deve ricercare gli altri che si sono nascosti e catturarli simbolicamente raggiungendo per primo la tana (o casa) ogni volta che ne trova uno; il primo giocatore catturato prende il posto del cacciatore al termine della caccia se l’ultimo dei suoi compagni, raggiungendo la tana prima del cacciatore, non riesce a liberarli tutti; lo svolgimento del gioco può presentare alcune varianti. Fuori di Toscana, si dice più spesso nascondino o nascondarella.
 
 
Rimpiattino
 
Effimere stasi di vento,
nel tempo di un gesto
ritrovo perdute cose.
Nascoste in un niente
stanno le mie ragioni,
quelle vere, quelle pure.
 
Anonimo
del XX° secolo
poesie ritrovate
 
 

lunedì 18 maggio 2015

Piccolo aiuto


Aiutami, Amore. Ancora questa volta.
Perché la mia fronte non è immacolata
e la tua carne è luminosa
come la carne dell'Angelo
che nella lotta notturna mi ha sciancato
aiutami.
Lasciami sedere accanto a te. Offrimi
di quell'uva in cui macchiai le dita.


Valeria Rossella
Il luminaio
 
 
con un piccolo aiuto,
quasi sempre basta,
a volte non serve,
a volte non arriva...
 
 
Un piccolo aiuto
 
Non so da dove arrivi
Con chi adesso vivi
Però sei una bella sorpresa per me
Non so che cosa hai in mente
Non so se c'è un assente
Pero tu resta per un pó

Perchè io ho bisogno di un piccolo aiuto
E lo sai nel mio letto c'è un posto per te
Dormi pure se ti va
E riposati quanto vuoi
Ho bisogno di serenità
E di un piccolo aiuto.

Io e te due vite strane
E un mare di troppe grane
Io e te di nuovo qui
Io e te.

Se vuoi io ti preparo
Un caffè un pó leggero
Così puoi dormire se lo vuoi

Perchè io ho bisogno di un piccolo aiuto
E lo sai nel mio letto c'è un posto per te
Non parlare se non ti va
E riposati quanto vuoi
Ho bisogno di serenità
E di un piccolo aiuto

Io ho bisogno del tuo aiuto
E lo sai nel mio letto c'è un posto per te
Questa volta come vedi
Non mi reggo più nemmeno in piedi
Ho bisogno di serenità
E di un piccolo aiuto.
 
Zucchero
 

domenica 17 maggio 2015

Domeniche, di Jules Laforgue


Dimanches

  

   
Oh ! ce piano, ce cher piano,
Qui jamais, jamais ne s’arrête,
Oh ! ce piano qui geint là-haut
Et qui s’entête sur ma tête !  

Ce sont de sinistres polkas,
Et des romances pour concierge,
Des exercices délicats,
Et La Prière d’une vierge ! 

Fuir ? où aller, par ce printemps ?
Dehors, dimanche, rien à faire....
Et rien à fair’ non plus dedans....
Oh ! rien à faire sur la Terre !.... 

Ohé, jeune fille au piano !
Je sais que vous n’avez point d’âme !
Puis pas donner dans le panneau
De la nostalgie de vos gammes.... 

Fatals bouquets du Souvenir,
Folles légendes décaties,
Assez ! assez ! vous vois venir,
Et mon âme est bientôt partie.... 

Vrai, un Dimanche sous ciel gris,
Et je ne fais plus rien qui vaille,
Et le moindre orgu’ de Barbari
(Le pauvre !) m’empoigne aux entrailles ! 

Et alors, je me sens trop fou !
Marié, je tuerais la bouche
De ma mie ! et, à deux genoux,
Je lui dirais ces mots bien louches : 

« Mon cœur est trop, ah trop central !
Et toi, tu n’es que chair humaine ;
Tu ne vas donc pas trouver mal
Que je te fasse de la peine ! »


 
 
domenica tra soli,
un pizzico di sole
lo stomaco in subbuglio
e un caffè caldo

 


Domeniche
 
Oh, questo pianoforte, il caro piano
che non s'arresta, non s'arresta mai,
oh! questo piano che lamenta in alto
e che s'intesta sopra la mia testa!
 
Vi sono dentro le sinistre polke
e le romanze da portineria,
fini esercizi
                       e il Prego d'una vergine!
 
Fuggire? dove in questa primavera?
Nulla da fare fuori, la domenica...
E più nulla da fare a casa mia...
Oh! nulla v'è da fare sulla terra!...
 
Ehilà, ragazza assisa avanti al piano!
Io lo so bene che non tieni un'anima!
Mai più cadere dentro la tua rete
di nostalgia che tendi con le scale...
 
Fiori fatali uniti dal Ricordo,
leggende folli ormai tutte sfiorite,
basta! mi basta! vi sento venire
e la mia vita è prossima a partire...
 
È vero, una domenica dal cielo
grigio, e non faccio più nulla di bene,
e l'infimo organetto barbaresco
(il poveretto!) m'afferra alle viscere!
 
E allora troppo folle io mi sento!
E se fossi sposato, ucciderei
la bocca all'amorosa e le direi
inginocchiato le parole ambigue:
 
"Il mio cuore mi è troppo troppo cèntrico!
e tu sei frale nella carne umana;
e allora non pensare che sia male
se ti dò delle pene!"
 
Jules Laforgue