lunedì 31 ottobre 2011

Malinconia


Albrecht Dürer, Melencolia I, 1514.
La malinconìa è un sentimento che provoca una tristezza costante.
Detta anche melanconia (o melancolia) è uno stato d'animo e non una lieve forma di depressione.
La parola deriva dal latino melancholia, che a sua volta trae origine dal greco melancholía, composto di mélas, mélanos (nero), e cholé (bile), quindi bile nera[1], uno dei quattro umori dalle cui combinazioni dipendono, secondo la medicina greca e romana, il carattere e gli stati d'animo delle persone.
Gli antichi Greci, da Ippocrate in poi, ritenevano infatti che i caratteri umani e, di conseguenza, i loro comportamenti, fossero frutto della varia combinazione dei quattro umori base, ovvero bile nera, bile gialla, flegma ed infine il sangue (umore rosso).
Questi "umori", ovvero liquidi (dal greco ygrós, "umido, bagnato"), proprio in conseguenza delle credenze antiche, significano "stati d'animo" e da essi derivano etimologicamente il carattere "melanconico", quello "flegmatico" (flemmatico), quello "sanguigno" ed infine il "collerico". Di per sé quindi ciascuno dei quattro umori non costituiva una malattia ma un loro squilibrio poteva però esserne la causa fino a degenerare nella morte.
Il significato di "umore nero" non era da ricollegare al senso moderno di rabbia o stizza, ma piuttosto al "dolce oblio", una leggera venatura di tristezza che pervadeva il carattere, rendendolo profondo ed orientato alla pace ed all'introspezione. Ancora oggi riconosciamo agli artisti un carattere prevalentemente melanconico, proprio per questo capace di cogliere gli aspetti della vita che sfuggono ai più audaci ed irruenti.
Il carattere melancolico era inoltre abbinato al clima freddo e secco, l'autunno, ed il suo elemento era la terra. D'altronde gli antichi popoli indoeuropei abbinavano ai quattro umori i cicli del creato, come l'alternarsi delle stagioni.
E' necessario notare che la medicina ippocratica è perdurata in Europa fino al XIX secolo, mentre la "moderna" teoria di Carl Gustav Jung sui caratteri e sui temperamenti è dei primi anni del XX secolo.
Francesco Hayez, Pensiero Malinconico 1842

La malinconia è una sorta di tristezza di fondo, a volte inconsapevole, che porta un soggetto al vivere passivamente, senza prendere iniziative, adattandosi agli avvenimenti esterni con la convinzione che non lo riguardino o che in essi non possa avervi un ruolo determinante. 
Si potrebbe definire come il desiderio, in fondo all'anima, di una cosa,di una persona mai conosciuta o di un amore che non si è mai avuto, ma di cui si sente dolorosamente la mancanza o per raggiungere i quali non ci si sente all'altezza. La malinconia si manifesta in espressioni del viso e in atteggiamenti indolenti che caratterizzano spesso l'intera esistenza di un individuo.
In psicoanalisi la malinconia assume il significato di lutto, principalmente quando questo riguarda un oggetto investito narcisisticamente, cioè quando riguarda un investimento pulsionale su un oggetto che può essere ricondotto a caratteristiche o attributi propri della persona. Per cui nella perdita della melanconia è l'Io a sentirsi svuotato e non la realtà esterna, come avviene nel lutto. La parte dell'Io identificata con l'oggetto perduto va incontro a scissione e s'instaura una dinamica interna che genera collera per questa perdita che il Super-Io non accetta e si sfoga attaccando l'Io.
Questo determina le autoaccuse tipiche della melanconia (wikipedia).


LA MALINCONIA

Malinconia
la vita mia
struggi terribilmente;
e non v'è al mondo, non c'è al mondo niente
che mi divaghi.

Niente, o una sola
casa. Figliola,
quella per me saresti.
S'apre una porta; in tue succinte vesti
entri, e mi smaghi.

Piccola tanto,
fugace incanto
di primavera. I biondi
riccioli molti nel berretto ascondi,
altri ne ostenti.

Ma giovinezza,
torbida ebbrezza,
passa, passa l'amore.
Restan sì tristi nel dolente cuore,
presentimenti.

Malinconia,
la vita mia
amò lieta una cosa,
sempre: la Morte. Or quasi è dolorosa,
ch'altro non spero.

Quando non s'ama
più, non si chiama
lei la liberatrice;
e nel dolore non fa più felice
il suo pensiero.

Io non sapevo
questo; ora bevo
l'ultimo sorso amaro

dell'esperienza. Oh quanto è mai più caro
il pensier della morte,

al giovanetto,
che a un primo affetto
cangia colore e trema.
Non ama il vecchio la tomba: suprema
crudeltà della sorte.


Umberto Saba

domenica 30 ottobre 2011


Marianne Moore (Kirkwood, Missouri 1887 - New York 1972) fu molto legata alla madre, abbandonata dal padre malato di nervi.
Bibliotecaria, collaborò a riviste.
Tradusse le Favole di La Fontaine. Pubblicata in Italia da [Guanda, Rusconi, poi] Adelphi e Rizzoli (Unicorni di mare e di terra). [prima Rizzoli, poi Adelphi]


Che cosa sono gli anni

Che cos'è la nostra innocenza,
che cosa la nostra colpa? Tutti
sono nudi, nessuno è salvo. E donde
viene il coraggio: la domanda senza risposta,
l'intrepido dubbio, -
che chiama senza voce, ascolta senza udire -

che nell'avversità, perfino nella morte,
ad altri dà coraggio
e nella sua sconfitta sprona
l'anima a farsi forte? Vede
profondo ed è contento chi
accede alla mortalità
e nella sua prigionia ti leva
sopra se stesso, come
fa il mare dentro una voragine,
che combatte per essere libero
e benché respinto

trova nella sua resa
la sua sopravvivenza.
Così colui che sente fortemente
si comporta. L'uccello stesso,
che è cresciuto cantando, tempra
la sua forma e la innalza. È prigioniero,
ma il suo cantare vigoroso dice:
misera cosa è la soddisfazione,

e come pura e nobile è la gioia.
Questo è mortalità,
questo è eternità.

Marianne Moore
da Le poesie, a cura di Lina Angeletti e Gilberto Forti, Adelphi



Perché nelle poesie di Marianne Moore si parla tanto di animali?
Perché l'autore si ostina a descrivere il loro corpo, come sono fatti, come si muovono?
Perché decifra e trascrive il messaggio muto che viene emesso dal loro modo di essere?
Marianne Moore ha una convinzione (o possiamo chiamarla fede?): che nella forma fisica, nel corpo animale, che è «stile di vita» e modo di essere dettato dalla Natura (o da Dio), sia depositata una saggezza, un senso della realtà immediata e cosmica che noi non possediamo o che in noi è labile.
Quando Marianne Moore si sprofonda nella contemplazione di un animale, tutte le sue facoltà più forti e più sottili si risvegliano, si animano.
Le sue frasi e i suoi versi (versi molto prossimi alla prosa), tutto il suo linguaggio virtuale, assopito nei depositi della memoria, entra con trionfale destrezza nel cerchio di luce dell'esistere.
E le sue poesie si allungano e si contraggono come forme viventi.
Anche quando deve dichiarare le proprie idee sulla poesia, ecco che Marianne Moore pensa a un animale.
Per esempio a una lumaca lodata in un breve componimento per la sua capacità di contrarsi, di ridurre con sagace modestia le proprie dimensioni: il che è fondamentale per uno scrittore, se è vero che «la concisione è la prima grazia dello stile».
Senso della misura e rispetto del limite, perché niente di vivo e di reale può accedere all'esistenza e può essere percepito se non dentro quel preciso limite di spazio che lo accoglie e che è suo: la poesia non è altro che questo.
E in questo il suo valore è elementare, sfida ogni dichiarazione di ostilità e disinteresse.
In un prezioso epigramma di morale poetica intitolato Poesia, leggiamo: «Neanche a me piace. - A leggerla, però, con totale disprezzo, vi si scopre, - dopo tutto, uno spazio per l'autentico».
La poesia nasce piuttosto da un non crederci che da una fede a priori.
È alla vita della mente, alla sua cura, che Marianne Moore prima di ogni altra cosa si interessa.
Il linguaggio della poesia è vita della mente, è esercizio e igiene della mente che si protende verso il mondo, verso la vita esterna, la sua varietà piena di meraviglia.
Per questo il linguaggio della poesia di Marianne Moore è dotato di una forza così sobria, è animato da una così fisica moralità, la moralità delle bestie, che vivono elaborando e perfezionando con eroica perseveranza e intelligenza la forma corporea migliore per essere quello che sono.
La forma delle poesie di Marianne Moore è anch'essa colma di arguzia e di vitalità: sovrappone l'attitudine descrittiva e la riflessione, fonde il vedere e il ricordare, la ricerca di una verità enunciabile in stile aforistico e il gusto del puro esercizio dei sensi.
Ogni verità, prima di essere pensabile deve essere visibile.
È dalla visione attenta, dalla descrizione precisa che si sviluppa un pensiero integro.
E questa integrità non è altro che la nuda onestà dei corpi, il
loro essere mortali. Accedere all'eternità, come viene detto in questa poesia, è accedere alla mortalità. Innocenza, colpa, coraggio hanno senso solo nella lotta con il limite e nell'accettazionedel limite.
La sconfitta «sprona l'anima a farsi forte», arrendersi è saper sopravvivere.
Questo è l'eroismo della forza che sa levarsi sopra se stessa: come quella dell'uccello, che ha bisogno della più abile e tenace energia per cantare e vedere (Panorama, 1991).

sabato 29 ottobre 2011

Poesia con riflesso

La frazione di Fiumaretta di Ameglia appartiene al comune di Ameglia, in provincia di La Spezia, nella regione Liguria.
La frazione di Fiumaretta di Ameglia dista 3,03 chilometri dal medesimo comune di Ameglia cui essa appartiene.
Del comune di Ameglia fanno parte anche le frazioni di Bocca di Magra (2,62 km), Fiumaretta (3,04 km), Monte Marcello (2,38 km).
Il numero in parentesi che segue ciascuna frazione indica la distanza in chilometri tra la stessa frazione e il comune di Ameglia.
La frazione di Fiumaretta di Ameglia sorge a 2 metri sul livello del mare.
Nella frazione di Fiumaretta di Ameglia risiedono 816 abitanti.



La pioggia è caduta tutto un giorno

La pioggia è caduta tutto un giorno.
Oh, vieni tra gli alberi madidi.
Le foglie giacciono fitte sul viale
Dei ricordi.

Nel viale dei ricordi sosteremo
Un poco e poi ci lasceremo.
Vieni, amore, dove io possa parlarti
Intimamente.

James Joyce


e nel ricordo affiora
un lontano gesto di consuetidine,
una mano tesa al saluto
verso un treno che parte;
miriadi di emozioni soccombono
al lento, graduale, presente
soffocate dal fango e dai sassi
le mani che scavano pena...



venerdì 28 ottobre 2011


a completare l'ultimo video postato
non poteva mancare il link
che Disney aveva fatto tra il pezzo
di M. Mussorgsky e questa bellissima
Ave Maria di Franz Schubert
(compose una canzone, "Ellens Gesang III: Hymne an die Jungfrau", come parte di sette lied tratti da un poema di Walter Scott, in cui la protagonista invoca la Vergine Maria: questa melodia divenne poi famosa con il testo latino dell'Ave Maria).
Così ve la propongo, senza commenti...


Ave Maria, gratia plena,
Dominus tecum,
benedicta tu in mulieribus,
et benedictus fructus ventris tui, Iesus.
Sancta Maria, mater Dei,
ora pro nobis peccatoribus,
nunc et in hora mortis nostrae.
Ave, o Maria, piena di grazia,
il Signore è con te.
Tu sei benedetta fra le donne  
e benedetto è il frutto del tuo seno,
Gesù.
Santa Maria, Madre di Dio,
prega per noi peccatori,
adesso e nell'ora della nostra morte.
Amen.

giovedì 27 ottobre 2011

Poesia

CREDO IN TE ANIMA MIA

Credo in te, anima mia,
l’altro che io sono non deve umiliarsi di fronte a te,
e tu non devi umiliarti di fronte a lui.
Ozia con me sull’erba,
libera la tua gola da ogni impedimento,
né parole, né musica o rima voglio,
né consuetudini né discorsi,
neppure i migliori, soltanto la tua calma voce bivalve,
il suo mormorio mi piace.
Penso a come una volta giacemmo,
un trasparente mattino d’estate,
come tu posasti la tua testa
di per traverso sul mio fianco
ti voltasti dolcemente verso di me,
e apristi la camicia sul mio petto,
e tuffasti la tua lingua sino al mio cuore snudato,
e ti stendesti sino a sentire la mia barba,
ti stendesti sino a prendere i miei piedi.
Veloce si alzò in me
e si diffuse intorno a me la pace e la conoscenza
che va oltre ogni argomento terreno,
io conosco che la mano di Dio è la promessa della mia,
e io conosco che lo spirito di Dio
è il fratello del mio,
e che tutti gli uomini mai venuti alla luce
sono miei fratelli e le donne sorelle ed amanti,
e che il fasciame della creazione è amore,
e che infinite sono le foglie rigide o languenti nei campi,
e le formiche brune nelle piccole tane sotto di loro,
e le incrostazioni muschiose del corroso recinto,
pietre ammucchiate, sambuco, verbasco ed elleboro.

Walt Whitman

mercoledì 26 ottobre 2011

Riflesso e poesia


scivola, su perfetta tela, il sogno
di pioggia autunnale che lascia
nella pozza riflessa la luna
ed un freddo consueto si pone
e disegna rugiade mattutine;
è così che mi vedo,
nell'intreccio del ragno a seguire
le mille devianze notturne...



La prima pioggia

Scendon le gocce della prima pioggia
che sui selciati ancor timida batte,
mentre settembre lietamente sfoggia
l'ardore delle sue bacche scarlatte.
E le foglie chiacchierine
parlano dell'autunno che ritorna
e che sotto la pioggia fine fine
di pampini e di bacche agile s'adorna.

M. Moretti 


martedì 25 ottobre 2011

Il passare del tempo, il ricordo dei remoti giorni e la consapevolezza della precarietà della condizione dell'uomo, quasi foglia morta in balia del vento, sono i temi di questa lirica.
Ma tutto ciò è detto con quell'abbandono malinconico, con quella languida leggerezza di toni e soprattutto con quella fluida musicalità, le caratteristiche di fondo della poesia di Verlaine (scuola.net)

 
Canzone d'autunno

I singhiozzi lunghi
dei violini
d'autunno
mi feriscono il cuore
con languore
monotono.

Ansimante
e smorto, quando
l'ora rintocca,
io mi ricordo
dei giorni antichi
e piango;

e me ne vado
nel vento ostile
che mi trascina
di qua e di là
come la foglia
morta.

Paul Verlaine






lunedì 24 ottobre 2011

Pupe e poesia

crisalide di nimphalidae
La pupa (più diffusamente denominata crisalide nel solo ambito dei Lepidotteri) è uno stadio che si manifesta nel corso dello sviluppo postembrionale degli Insetti olometaboli e che precede lo stadio di adulto. Lo stadio di pupa è talvolta confuso con quello di ninfa, in realtà proprio delle metamorfosi incomplete, tuttavia gli Autori usano spesso l'aggettivo ninfale per fare riferimento anche alla pupaLa pupa deriva dall'ultima muta larvale. Essendo le larve degli olometaboli completamente differenti nella morfologia, nella dieta alimentare, nell'ambiente in cui vivono, il passaggio dallo stadio giovanile a quello adulto è alquanto impegnativo, perciò lo stadio di pupa si svolge in uno stato di quiescenza, talvolta protetto all'interno di involucri di varia natura.
La pupa si presenta abbastanza simile all'adulto perché vi si riconoscono gli elementi morfologici tipici dell'adulto (suddivisione in capo, torace e addome, presenza delle appendici quali le antenne, l'apparato boccale, le zampe, le ali). La profonda differenza risiede tuttavia nel modo in cui sono articolate le appendici e, soprattutto, nello stato di quiescenza della pupa, che perciò è immobile e non si nutre.
La distinzione fondamentale è fra pupa exarata e obtecta. La pupa exarata ha le appendici libere rispetto al corpo in quanto singolarmente rivestite da una cuticola propria. La pupa obtecta ha invece le appendici evidenti ma saldate al corpo in quanto il tutto è rivestito da un'unica cuticola. Lo sfarfallamento dell'adulto provoca la distruzione in più frammenti dell'involucro pupale nel caso delle pupe exarate, mentre nelle pupe obtecte l'adulto fuoriesce da una sola apertura lasciando l'involucro pupale quasi integro.
Le pupe exarate si distinguono in dectiche e adectiche. La differenza consiste nell'articolazione delle mandibole: le pupe dectiche, tipiche degli olometaboli primitivi, hanno mandibole articolate che usano per praticare il foro di sfarfallamento nel bozzolo; le pupe adectiche hanno invece mandibole non articolate e, quindi, immobili.
 cleopatra crisalide
Le pupe obtecte sono presenti in gran parte dei principali ordini di insetti olometaboli (Lepidotteri, Coleotteri e Imenotteri, oltre ai Ditteri Ortorrafi). La cuticola di queste pupe è piuttosto rigida e la fuoriuscita dell'adulto la lascia pressoché integra. Le mandibole non sono presenti oppure non sono articolate.
In base alla presenza o meno di un involucro di protezione le pupe si distinguono in anoiche, emioiche e evoiche.
Le pupe anoiche sono completamente prive di protezione. Si trovano libere nel substrato (ad esempio sotto la superficie del terreno) oppure fissate in vario modo a determinati supporti. Questo caso si riscontra spesso nelle crisalidi anoiche dei Lepidotteri: la crisalide è legata ad un supporto (es. lo stelo di una pianta) con un filo di seta che la cinge oppure è sospesa per mezzo di uncini (detti cremaster) ad un intreccio di fili sericei che avvolge il supporto.
Le pupe emioiche utilizzano l'exuvia dell'ultimo stadio larvale per proteggersi parzialmente.
Le pupe evoiche utilizzano dei rivestimenti protettivi veri e propri, che hanno il compito di preservare l'insetto dall'evaporazione. L'involucro, detto bozzolo, è costruito dalla larva utilizzando secreti di diversa natura, spesso la seta. Un involucro particolare è il pupario dei Ditteri Ciclorrafi: in questo caso l'involucro, della forma di un ellissoide, è prodotto da una trasformazione biochimica dell'exuvia dell'ultimo stadio larvale (da wikipedia).

Crisalide

L' albero verde cupo
si stria di giallo tenero e s'ingromma.
Vibra nell'aria una pietà per l'avide
radici, per le tumide cortecce.
Son vostre queste piante
scarse che si rinnovano
all'alito d'Aprile, umide e liete.
Per me che vi contemplo da quest'ombra,
altro cespo riverdica, e voi siete.
Ogni attimo vi porta nuove fronde
e il suo sbigottimento avanza ogni altra
gioia fugace; viene a impetuose onde
la vita a questo estremo angolo d'orto.
Lo sguardo ora vi cade su le zolle;
una risacca di memorie giunge
al vostro cuore e quasi lo sommerge.
Lunge risuona un grido: ecco precipita
il tempo, spare con risucchi rapidi
tra i sassi, ogni ricordo è spento; ed io
dall'oscuro mio canto mi protendo
a codesto solare avvenimento.
Voi non pensate ciò che vi rapiva
come oggi, allora, il tacito compagno
che un meriggio lontano vi portava.
Siete voi la mia preda, che m'offrite
un'ora breve di tremore umano.
Perderne, non vorrei neppure un attimo:
è questa la mia parte, ogni altra è vana.
La mia ricchezza è questo sbattimento
che vi trapassa e il viso
in alto vi rivolge; questo lento
giro d'occhi che ormai sanno vedere.
Così va la certezza d'un momento
con uno sventolio di tende e di alberi
tra le case; ma l'ombra non dissolve
che vi reclama, opaca. M'apparite
allora, come me, nel limbo squallido
delle monche esistenze; e anche la vostra
rinascita è uno sterile segreto,
un prodigio fallito come tutti
quelli che ci fioriscono d'accanto.
E il flutto che si scopre oltre le sbarre
come ci parla a volte di salvezza;
come può sorgere agile
l'illusione, e sciogliere i suoi fumi.
Vanno a spire sul mare, ora si fondono
sull'orizzonte in foggia di golette.
Spicca una d'esse un volo senza rombo,
l'acque di piombo come alcione profugo
rade. Il sole s'immerge nelle nubi,
l'ora di febbre, trepida, si chiude.
Un glorioso affanno senza strepiti
ci batte in gola: nel meriggio afoso
spunta la barca di salvezza, è giunta:
vedila che sciaborda tra le secche,
esprime un suo burchiello che si volge
al docile frangente - e là ci attende.
Ah crisalide, com'è amara questa
tortura senza nome che ci volve
e ci porta lontani - e poi non restano
neppure le nostre orme sulla polvere;
e noi andremo innanzi senza smuovere
un sasso solo della gran muraglia;
e forse tutto è fisso, tutto è scritto,
e non vedremo sorgere per via
la libertà, il miracolo,
il fatto che non era necessario!
Nell'onda e nell'azzurro non è scia.
Sono mutati i segni della proda
dianzi raccolta come un dolce grembo.
Il silenzio ci chiude nel suo lembo
e le labbra non s'aprono per dire
il patto ch'io vorrei
stringere col destino: di scontare
la vostra gioia con la mia condanna.
È il voto che mi nasce ancora in petto,
poi finirà ogni moto. Penso allora
alle tacite offerte che sostengono
le case dei viventi; al cuore che abdica
perché rida un fanciullo inconsapevole;
al taglio netto che recide, al rogo
morente che s'avviva
d'un arido paletto, e ferve trepido.

Eugenio Montale


Claudio Caldana, Crisalide 3


domenica 23 ottobre 2011

Riflesso e serenata

Serenata Indiana

Nel primo dolce sonno della notte
mi risveglio dai sogni in cui tu appari,
quando sospira lievemente il vento
e splendono le stelle luminose:
mi risveglio dai sogni in cui tu appari,
e uno spirito allora mi ha condotto,
chissà come, vicino alla finestra
della tua camera, o dolcezza mia!
Le arie vagabonde illanguidiscono
lungo il ruscello oscuro e silenzioso,
i profumi del Champak svaniscono
come dolci pensieri in un sogno;
muore il lamento dell'usignolo sul cuore
della diletta, proprio come me
destinato a morire sul tuo,
o tu che sei la mia amata!
Oh, ti prego, sollevami dall'erba!
Muoio e mi sento debole e languido!
Oh, che il tuo amore piova in mille baci
sulle mie labbra e sulle smorte palpebre.
Ahimè, le guance sono fredde e pallide,
ed il mio cuore batte impetuoso e forte!
Oh, stringilo al tuo cuore nuovamente,
dove alla fine si dovrà spezzare!

Percy Bysshe Shelley


se è vero che siamo
vorrei dar posto a pensieri minimi,
quelli riposti e mai adoperati,
quelli più semplici;
i nativi americani
e la loro semplicità hanno usato
luna e sole e acqua dei fiumi,
hanno dato sguardi vasti
alle grandi praterie ed al bufalo;
hanno amato con umili gesti...
vorrei avere più avvezzo
ad usare il loro linguaggio,
sarei in pace, sereno col mondo
e sopratutto con me...

sabato 22 ottobre 2011

Una Notte sul Monte Calvo

ho ancora vivido il ricordo, da bambino,
e la paura che mi fece
questo cartone di Fantasia;
terrorizzato da suore e preti
(qualcuno bavosino a dir la verità)
vedevo l'Inferno dietro ogni cosa peccaminosa (o ritenuta tale)
che facevo o pensavo.
Per fortuna quegli anni sono stati meno impegnativi del possibile
e da adulto ho riapprezzato questo incredibile brano
di M. Mussorgsky che ora ho in varie revisioni/interpretazioni
più o meno rivisitate ma tutte comunque ascoltabilissime.
Ho trovato, girovagando nel web,
una bella descrizione (ricerca scolastica)
di alcuni ragazzi (delle superiori credo)
che riporto integralmente.
Resta da dire che
ora il diavolo mi fa meno paura
ma non si sà mai...




Una notte sul Monte Calvo
(poema sinfonico) 1867

Il Monte Calvo è il Monte Triglav, un rilievo presso Kiev nella Russia meridionale.
Qui, secondo la mitologia slava, si riuniscono gli spiriti maligni per adorare il diavolo nella notte di Valpurga, l'equivalente di Halloween dei paesi anglosassoni.
Mussorgskij aveva composto una prima stesura per pianoforte e orchestra di Una notte sul Monte Calvo nel 1860, poi l'aveva riscritta nel 1868, nel 1871 e nel 1875.
L'opera non fu mai rappresentata durante la vita del musicista.  
L'arrangiamento di Rimskji-Korsakov fu lo stesso registrato da Leopold Stokowski nel 1939 per Fantasia.
Nella nuova colonna sonora digitalizzata nel 1982, per Fantasia Irwin Kostal registrò l'orchestrazione più aggressiva secondo la versione di Mussorgskij,.
Il “programma” di questo poema scientifico, della durata di circa dieci minuti, è chiaramente indicato dallo steso autore:
1) Apparizioni degli spiriti dell’oscurità seguiti da quello di Satana
2) Il sabba delle streghe
3) L’alba
Una visione demoniaca, come si può intuire, pervade un po’ tutta la partitura e la musica si distende in un’atmosfera di calma (ma piene di mistero) solo verso la fine.
La geniale orchestrazione porta l’impronta di un altro grande compositore russo, Nikolaj Rimskij Korsatov, che dopo la morte dell’autore revisionò in un solo tempo l’intero lavoro.
Nell’opera si immagina che il giovane protagonista, di nome Gritzko, la notte prima di riuscire ad ottenere, dopo tante peripezie, la mano della ragazza che ama, si ubriachi, cade addormentato e sogni.
Sogna di assistere al raduno delle streghe e di demoni che si svolge, secondo le credenze popolari, ogni anno nella notte di San Giovanni (24 giugno) sul Monte Calvo, una sommità nelle vicinanze della città sovietica di Kiev.
Diavoli e streghe si rincontrano così con Satana in persona, che qui ha nome di Cernobog.
Proprio perché si trattò di maligni esseri soprannaturali, Mussorgskij fa loro intonare anche alcune parole senza senso, come facessero parte di un linguaggio a noi sconosciuto. 
 
La composizione di Mussorgskij venne inserita nella colonna sonora del famoso film di animazione di Walt Disney Fantasia del 1940.
Per chiudere il programma, Disney volle riprendere uno dei suoi temi più classici: lo scontro tra il bene e il male. Lo celebrò nel contrasto tra notte e giorno dove la notte è dominata da un gigantesco demone che si circonda di creature diaboliche e anime di defunti.
Lo schema musicale e le immagini animate evocano il sabba delle streghe.
Dalla cima del Monte Calvo, Satana (Chernobog), il signore del male e della morte, spalanca le grandi ali e raccoglie intorno a sé le creature diaboliche: streghe, demoni, vampiri e gli scheletri dei cadaveri sepolti in terreno sconsacrato.
Danzano scatenati, mentre Sua Maestà Satanica li afferra a manciate e li scaraventa nel cratere infuocato che si apre nelle viscere della montagna.
Prova un piacere perverso nel trasformare alcuni di questi demoni in animali, prima di darli alla fiamma, e sta per afferrare altri con cui dilettarsi, quando le campane che annunciano il mattino riportano gli spettri nelle tombe, gli spiriti cattivi in città e un impaurito Chernobog nelle viscere del Monte Calvo (dalle rete, www.griffini.lo.it/laScuola/prodotti/Streghe/musica/montecalvo).