mercoledì 31 dicembre 2008
Per un anno che se ne va
giovedì 25 dicembre 2008
Happy Xmas!
And what have you done
Another year over
And a new one just begun
And so this is Xmas
I hope you have fun
The near and the dear one
The old and the young
A very Merry Xmas
And a happy New Year
Let's hope it's a good one
Without any fear
And so this is Xmas
For weak and for strong
For rich and the poor ones
The world is so wrong
And so happy Xmas
For black and for white
For yellow and red ones
Let's stop all the fight
A very Merry Xmas
And a happy New Year
Let's hope it's a good one
Without any fear
And so this is Xmas
And what have we done
Another year over
A new one just begun
And so happy Xmas
We hope you have fun
The near and the dear one
The old and the young
A very Merry Xmas
And a happy New Year
Let's hope it's a good one
Without any fear
War is over, if you want it
War is over now
Happy Xmas
John Lennon
mercoledì 24 dicembre 2008
Un papà
Al papà basta una carezza, sia essa data o ricevuta, basta una carezza.
Against all Odds
How can I just let you walk away, just let you leave without a trace. When I stand here taking every breath with you, ooh. You're the only one who really knew me at all. How can you just walk away from me, when all I can do is watch you leave. Cos we've shared the laughter and the pain and even shared the tears. You're the only one who really knew me at all. So take a look at me now, oh there's just an empty space. And there's nothing left here to remind me, just the memory of your face. Ooh take a look at me now, well there's just an empty space. And you coming back to me is against all odds and that's what I've got to face. I wish I could just make you turn around, turn around and see me cry. There's so much I need to say to you, so many reasons why. You're the only one who really knew me at all. So take a look at me now, well there's just an empty space. And there's nothing left here to remind me, just the memory of your face. Now take a look at me now, cos there's just an empty space. But to wait for you, is all I can do and that's what I've got to face. Take a good look at me now, cos I'll still be standing here. And you coming back to me is against all odds. It's the chance I've gotta take. Take a look at me now
Una bellissima canzone in un periodo denso di cose e passioni. Il film non è stato un granchè (oltretutto era un remake) ma mi ricordo ancora il bellissimo manifesto pubblicitario che ritraeva una scena girata a chichen-Itza poi non inserita nel montaggio finale. Lei era, ovviamente, bellissima e sull'onda di un successo clamoroso. Tornando alla canzone credo che sia stata la responsabile del vero successo del film. Anche ad anni di distanza non ha perso il suo fascino e lo smalto...credo sia veramente cantabile e bella ed è un peccato che Phil Collins sia quasi scomparso dalle scene del pop.
martedì 23 dicembre 2008
Aerial Boundaries
Semplicemente unico!
Michael Hedges è morto giovane in un incidente stradale. Pubblicato da un'etichetta New Age ha saputo dare alla sua chitarra un sapore molto particolare. Questo è forse il suo pezzo più famoso e l'invito è quello ad un ascolto attento.
lunedì 22 dicembre 2008
Il maggiolone rosso
Tommy si svegliò prima del papà.
L’orologio coi numeri rossi diceva che era mattino. Eppure il cielo era ancora scuro, come di notte.
Lui conosceva i numeri, fin da piccolo. Glieli aveva insegnati il suo papà, mentre frequentava la scuola dei bimbi. Ora era grande, faceva la seconda elementare.
Ma la scuola dei bimbi Tommy se la ricordava bene. Si chiedeva ancora perché la chiamavano materna. Lui sul fatto che ci fosse là una mamma per chi era sprovvisto ci aveva un po’ contato. Da piccolo.
Invece ci aveva trovato solo signorine più o meno buone, che si chiamavano educatrici.
A papà piacevano le educatrici. E pure le maestre uniche, doppie e triple, titolari di cattedra o supplenti, a scavalco o a moduli, d’inglese, musica, ginnastica, religione e di sostegno e tutte le altre che giravano nella sua classe, durante il giorno. I loro nomi non se li ricordava nemmeno tutti.
Quando papà parlava con loro, a tratti sorrideva. A tratti invece si faceva serio, abbassava la voce e non si capiva che cosa bisbigliava.
Tommy temeva fossero i suoi segreti. Come la pipì che scappava di notte, che proprio non se ne accorgeva. O le unghie rosicchiate davanti alla tivù. O i piedi puzzolenti, quando teneva le scarpe da ginnastica per tutto il giorno. O i calzini dell’Uomo Ragno, quelli coi buchi. Che erano anche il motivo per cui non si toglieva le scarpe. D’altra parte il papà con il rammendo non ci sapeva fare. Poi, a lui, quei buchi piacevano. Da dentro la scarpa esplorava con il dito grosso. Immaginava che il pollicione fosse un feroce verme scavatore, uno di quelli enormi, coi denti acuminati, che dormono da mille milioni di bilioni e centoventi anni e sei nelle sabbie dei deserti. Un giorno arriva un petroliere scemo e li sveglia. E quelli sbucano fuori e si pappano vacche, cowboy e trivellatori. «Ecco» pensava Tommy «un giorno il mio alluce sbucherà e mangerà qualcuno. Zap! Del nemico resteranno solo le scarpe. E magari i calzini, se puzzano come i miei».
Non è che in giro ci fossero molti nemici. In realtà non c’era proprio nessuno.
Tommy e suo papà vivevano in una casa grande, su un piano, fuori dal paese. Tutt’attorno c’era un giardino bellissimo. Lì si stava bene, soprattutto d’estate. Il nonno aveva piantato dei pini, che con gli anni erano diventati immensi. Ed erano rimasti, anzi erano cresciuti ancora dopo che il nonno se n’era andato. I pini facevano ombra e lasciavano per terra tanti aghi che formavano un tappeto.
A volte sganciavano pigne pericolosissime, senza preavviso. A Tommy era capitato di beccarne una in testa, l’autunno passato, e non era stata un’esperienza piacevole. Aveva pianto, ma poco. Perché il papà gli aveva detto che gli uomini non piangono mai. Non si devono lamentare. Soprattutto quelli piccoli, come lui, con quelli grandi, come il papà. E che il dolore fortifica. E comunque piangere non fa sparire i bernoccoli. Né le sbucciature sulle ginocchia
Non aveva pianto più. Dalla botta autunnale, però, ogni volta che passava sotto i pini, guardava in alto. Pronto a scansare le bombe.
Con le pigne cadute costruiva castelli, proprio sopra gli aghi. Ogni pigna, una torre. Lì si aggiravano un sacco di formiche e immaginava che fossero guerrieri sul campo di battaglia, pronti a rifugiarsi tra le mura in caso di attacco.
Di attacchi gli armigeri rizzaculo ne subivano. Su più fronti.
Calavano merli affamati e anche il pettirosso. E c’erano in giro un paio di ricci che facevano razzia nel formicaio. Quando li incontrava, verso sera, Tommy li faceva arrotolare su se stessi, come palle spinose. «Farà più male un porcospino o una pigna?» si era chiesto. Ma il problema non sussisteva, avrebbe detto papà, dato che i ricci non avevano la minima vocazione al salto. Non si era mai visto che si arrampicassero sui pini per poi lanciarsi di sotto.
«In Natura non avvengono cose inutili, ricordatelo!». Papà riusciva a pronunciare Natura con la enne maiuscola. Tommy la sentiva proprio, quella enne.
Così, negli anni, la Natura per Tommy aveva assunto le fattezze di una signora gigantesca, un po’ in carne, decisamente antipatica e per niente interessata a lui e ai destini dei suoi simili. «Se ne sta lì nel suo trono di montagne e di muschio. Il massimo dell’attività è grattarsi, quando uno stambecco le fa solletico con le zampe o si lima le corna su qualche spuntone di roccia» pensava il bambino. «E la rimbambita non si accorge neanche che, invece di fare la loro vita tranquilli come le formiche negli aghi di pino, gli uomini le stanno minando il piedistallo. Crollerà, prima o poi, e ci schiaccerà tutti».
Questa riflessione catastrofica, all’inizio della seconda elementare, Tommy l’aveva espressa in una verifica scritta. Il titolo era: “Le gioie della natura”. E il suo svolgimento era stato, in sintesi: “Ci ha poco da gioire, la matrigna. Farebbe bene a guardarsi sotto i piedi”.
L’insegnante aveva fatto chiamare il papà.
Era stata una di quelle volte in cui papà aveva riso prima, poi aveva abbassato la voce. E la maestra Vittoria, quella con la gonna corta, gli aveva toccato il braccio, come a dirgli: «Su, coraggio! Ce la può fare».
Papà non l’aveva punito. Anche perché la storia della matrigna gliela aveva raccontata lui. Era un’idea di un suo amico, uno che scriveva, ma più morto del nonno, cioè morto da molto più tempo, da quello che aveva capito. Si chiamava Giacomo. E papà ci andava matto, per le sue poesie.
Dunque, visto che in qualche modo la pensata rimandava al mitico Giacomo, invece di una punizione Tommy aveva ricevuto un regalo.
Una meravigliosa macchinina rossa. Era un modello in miniatura di un vecchio maggiolone. Si potevano aprire le portiere e anche il cofano. Il volante si girava e si muovevano le ruote, tutte cromate. Così il paraurti, lucido lucido, e i fanali. Tommy la trovava bellissima. Faceva accomodare a bordo anche degli stecchi di legno. «Manichini per i crash test» aveva spiegato al papà, dopo un impressionante documentario sui danni della guida senza cinture, che entrambi si erano sorbiti, passivamente, una domenica dopo pranzo.
Tommy giocava con il maggiolone ogni giorno, in giardino, per lo più. Gli piaceva far correre l’auto sulle dune di aghi di pino. Quando avvistava le pigne fortezza, rimaste lì dal gioco precedente, faceva commentare all’ipotetico guidatore: «Voilà, les chateaux de la Loire!» Anche quella frase era l’eredità di un documentario televisivo. Fascia tardo-pomeridiana, quando quelli che non si muovono dalla loro poltrona viaggiano attraverso il video, in posti lontanissimi. Senza sapori, però, senza odori se non quello di minestra, che arriva dalla cucina.
Anche quel pomeriggio, Tommy era stato fuori con la macchina. Ma a un certo punto, non ci aveva visto più. Perché i giorni si stavano accorciando e il freddo si faceva sentire, pungente.
Il papà l’aveva chiamato con un tono bellicoso. E il bambino era corso verso la casa, lasciando il maggiolone fuori, sul vialetto.
Poi era venuta l’ora di cena. Tommy aveva mangiato, ma di malavoglia. Sentiva qualche brivido, però non l’aveva detto a papà. Al momento della nanna, si era schiantato sul suo letto grande e si era addormentato di colpo, stanco per le ore di gioco, all’aria aperta.
Adesso che era sveglio, si sentiva ancora strano. «Magari sono malato» pensò, mentre scostava le coperte coi piedi e si alzava per andare in bagno. Il pavimento era gelato, sotto i piedi nudi. Dalle fessure nella tapparella, filtrava un insolito chiarore. E c’era un gran silenzio. Si avvicinò alla finestra, per guardare fuori.
Neve! Durante la notte era caduta un sacco di neve. Aveva coperto il prato, i pini erano come vestiti, con un cappotto pesante e bianco. Il vialetto non si distingueva nemmeno.
«Il vialetto!» esclamò Tommy, realizzando all’istante che la sera prima ci aveva dimenticato il maggiolone.
Indossò i vestiti, le calze dell’Uomo Ragno e anche un altro paio belle grosse, sopra, per non sentir freddo con gli stivali di gomma. Si mise due felpe, infilandosele nei pantaloni, per coprire la pancia.
Poi giacca, cappello e fuori, socchiudendo la porta di casa senza far rumore.
Faceva freddo davvero e la luce era fioca. Più che dal cielo, grigio, sembrava arrivare dalla neve attorno. La superficie era compatta, senza segni. «Mi sa che il gatto dei vicini non è venuto a fare il suo giro, stamattina».
Ma non voleva distrarsi con le orme degli animali. L’obiettivo era ritrovare la sua macchinina.
Avanzò qualche passo, a fatica, con gli stivali che affondavano e la neve che ci si infilava dentro. «Sarà sotto la collina» ipotizzò. Tommy si fermò un attimo, davanti al dosso che gli si parava davanti. «Ma qui non c’è mai stata una collina!».
Era alta circa un paio di metri, tondeggiante. Provò ad affondarci una mano, senza guanto. Sotto c’era qualcosa di duro e freddo.
Tolse un po’ di neve. Apparve una superficie rossa, lucida. Tommy si diede da fare. In pochi minuti, aveva liberato una fiancata e un finestrino. Ora capiva di cosa si trattava e non riusciva a trattenere l’entusiasmo: un maggiolone rosso, simile al suo. Ma grande grande. Un’auto vera!
Riuscì ad aprire la maniglia e salì a bordo. I lunotti erano ancora coperti di bianco.
Il bambino guardò il cruscotto. Una chiave d’argento era già inserita nella serratura. La girò.
L’auto si avviò borbottando. Tommy alzò una leva e il tergicristallo spazzò, in un colpo, la neve dai vetri davanti. Quella sul fianco destro si stava piano piano sgretolando e scivolava verso il basso, per le vibrazioni del motore in folle.
«E adesso? Sono piccolo per guidare. Com’è che fa, papà?».
Appoggiò la mano sul cambio. Il pomello si spostò, da solo, in avanti.
L’auto si stava muovendo, lentamente. Emerse dalla neve e arrancò sul vialetto. «Meglio di un Suv» esclamò Tommy, appoggiando le mani con fiducia sul volante. Era gelido, ma si scaldò subito.
La macchina procedeva lungo il vialetto senza fatica. La leva delle marce si spostava da sola: seconda, terza. L’andatura era lenta, senza scossoni, verso il cancello di uscita. Era aperto. Il maggiolone lo infilò, sicuro.
A Tommy sembrava di viaggiare sulla superficie della neve. Lui impugnava il volante, l’auto procedeva in autonomia, in quarta, assecondando le minime pressioni delle dita.
«Voglio far vedere questa meraviglia ai miei amici!». Bastò dirlo, perché il mezzo accelerasse leggermente e dalla via secondaria su cui stava procedendo s’immettesse in una strada più grande. Non c’era in giro nessuno. Sembrava che la nevicata avesse trattenuto tutti gli abitanti della zona nelle loro case. E quelli che passavano di solito, diretti altrove, avevano scelto vie più battute, percorse dagli spazzaneve.
Al bivio successivo, il maggiolone svoltò di nuovo in una via laterale.
“Qui abita Jos!”. Il bimbo riconobbe la cascina decrepita dove viveva il suo amico senegalese e la sua famiglia. Jos aveva tre fratelli e una sorella, più grandi, che lavoravano già. Lui invece andava a scuola con Tommy. E stava bene, diceva, perché dove c’era lavoro per tutti c’era da mangiare anche per lui, che era un bambino. In Italia i piccoli andavano a scuola. E non lavoravano. Almeno, non molto. Lui si sentiva italiano e lo parlava bene, l’italiano. Molto meglio di tutti i suoi parenti. Il suo impegno era l’aiuto al papà, la sera, per i mestieri di casa. Non nel senso di pulire. A quelli pensavano soprattutto la mamma e la sorella. Erano i lavori di manutenzione quelli di loro competenza. La costruzione era davvero malconcia, per questo l’avevano affittata a loro a un prezzo abbordabile. Così, quasi ogni giorno, lui e il papà dovevano smontare un tubo o metter mano alle tegole, che il vento e la pioggia spostavano regolarmente. Jo era svelto e agile. Le arrampicate sul tetto erano uno scherzo per lui, anche se sapeva che la mamma stava in pensiero. Così cercava di essere prudente.
Il problema delle tegole era noto anche agli amici di Jos. E fu il primo pensiero per Tommy, quando avvistò la casa, praticamente sepolta sotto una coltre bianca. «Come farà a sistemare il tetto? Avranno la neve in casa, di sicuro».
Ma il pensiero fu allontanato dall’arrivo del bambino. Uscì dalla porta sbracciandosi, per salutare l’amico. Lo stupore gli spalancava gli occhi e un sorriso da orecchio a orecchio. Si avvicinò al maggiolone a balzelloni, sollevando stivali di almeno tre numeri più larghi del suo piede.
«Tommy! Che meraviglia! E’ tua? Me la fai guidare?».
«Sali!». Tommy aprì la portiera e l’amico sedette, sbattendo prima gli stivali, tacco contro tacco, per non portare a bordo un quintale di neve con i piedi»
«Non posso fartela guidare. Sei un bambino!» disse Tommy.
«Ma anche tu sei un bambino». L’osservazione di Jos era pertinente. In effetti, considerò Tommy tra sé e sé, neppure lui avrebbe potuto guidare.
«Ma non è che guido proprio io. E’ lei che mi capisce alla perfezione. E fa quasi tutto da sola».
«Cavolo!». Il nuovo arrivato si guardava attorno estasiato. Toccava delicatamente il cruscotto, i vetri, le maniglie alzafinestrini. «Dove si va?» chiese al conducente.
«Mi sa che la scuola è sepolta dalla neve. E le maestre di sicuro non la trovano più».
«Niente maestre, niente scuola» concluse il senegalese. «Potremmo passare a prendere le gemelle».
Il discorso bambine era delicato. A Jos piacevano molto, perché le bambine italiane potevano fare un sacco di cose in più rispetto a quelle del suo paese. Sua sorella portava il velo già da un paio d’anni. Mentre le ragazze grandi, le compagne dei suoi fratelli quando andavano alle medie, il velo non se lo sarebbero mai messo. Anzi, mettevano fuori la pancia e certe curve che non si poteva non notarle. Le compagne di Jos e Tommy erano ancora bambine, ma qualcuna già si vestiva come le ragazzine delle medie. Poi, a volte, si dimenticavano dei pantaloni griffati e si rotolavano per terra con gli amici in mischie furiose.
Tutto questo era successo da quando il papà di Tommy, alla sua festa di compleanno, aveva insegnato a tutti i principi del rugby.
A sorpresa, le più temibili giocatrici si erano rivelate proprio le gemelle. Avanzavano come panzer e guai a chi cercava di portar via loro il pallone. Giocare con loro era uno spasso. A parte il dente scheggiato di Federico, quello di terza, che non sapeva a cosa andava incontro quando le aveva apostrofate con un «Belle bambine, dove avete lasciato le Wings?».
Erano state le ultime parole che aveva detto per un bel po’. Labbro gonfio e appuntamento urgente con il dentista, causa planata di muso sul prato. Il placcaggio era stato da manuale. Tommy e Jos non ricordavano mai se fosse stata Manuela o Daniela. Erano praticamente identiche, a un primo sguardo. Bionde, con folti capelli crespi, a caschetto. E occhi celesti. Ma a osservarle bene per qualche tempo, e di tempo a scuola ce n’era parecchio, si potevano distinguere. Manuela era più dolce e quando sorrideva strizzava gli occhi, che brillavano tutti. Daniela era più tosta. Il viso le si induriva e aggrottava la fronte, quando la facevano arrabbiare o davano fastidio a sua sorella. Erano molto simpatiche, entrambe. L’importante era stare in squadra con loro, non averle di fronte, tra le fila dei nemici.
«La fabbrica del pane è vicina. Passiamo a chiamarle» propose Tommy.
Daniela e Manuela erano le figlie del padrone del panificio industriale, che dava lavoro anche al papà e ai fratelli di Jos. Il padre delle gemelle aveva anche una villa da qualche parte, sul lago. Ma siccome si alzava alle quattro per le prime infornate, preferiva vivere nell’appartamento sopra la fabbrica, con moglie e figlie.
«Le mie pagnottelle» le chiamava con affetto. Alle bimbe il soprannome piaceva quando lo usava il loro papà. Un po’ meno quando correva sulle bocche dei compagni di classe. A quel punto partivano i pugni. Sempre di bocca in bocca, ma meno lievi delle parole.
Jos e Tommy evitavano gli appellativi da forno. Le loro amiche erano Dani e Manu. Punto. E a loro andava bene così.
«Daniiii! Manuu!» Gridarono forte, sporgendosi dai finestrini del maggiolone, quando arrivarono davanti al capannone industriale. L’edificio sembrava chiuso, come se nessuno fosse al lavoro.
Le bambine si affacciarono da una finestra in alto e fecero ciao. Daniela zittì i saluti rumorosi, con il dito davanti alla bocca.
Da lì a poco, aiutandosi l’una l’altra, fecero scorrere il portellone dell’ingresso e sgusciarono fuori.
Loro calzavano i doposci. Manuela verdi, Daniela rossi. Il rosa non era contemplato nel loro guardaroba.
Tommy si divertì un sacco per le loro espressioni, mentre giravano attorno al maggiolone, osservandolo in tutti i dettagli. «A bordo, dai, che si va a fare a palle di neve!».
Le bambine non se lo fecero dire due volte. Si sistemarono dietro e investirono il conducente di domande. «Come funziona? Ma chi è stato? Da dove arriva? E tuo padre?»
Tommy non rispose, buttandola su un coro da stadio che aveva imparato dagli amici di papà. Le parole non erano proprio identiche, ma la musica era facile e in pochi minuti tutti lo seguirono, dimenticando la curiosità.
Finito l’inno, Daniela estrasse dalla tasca una grossa pagnotta. «È con l’uva. Un po’ per uno». I bambini gradirono e addentarono con entusiasmo il pezzo che la gemella passava loro. Nessuno si curò delle briciole, che cadevano sui sedili, salvo Manuela che raccolse le più grosse.
«Che fai?» chiese Tommy. «Non sono per me» si giustificò lei. Fece cenno di estrarre anche lei qualcosa dalla tasca.
«Che pane hai tu?» Jos era curioso. Conosceva a memoria tutte le varietà del panificio, perché papà portava a casa le novità e le michette avanzate. Ma aveva ancora appetito.
Manuela protese quello che aveva nascosto.
Non era una pagnotta. Era Gruccia, la tartaruga delle gemelle. L’animale, insonnolito, aprì un occhio e la bocca antica. «Non potevo mica lasciarla fuori, ieri sera. Faceva così freddo!»
I bambini risero, mentre Gruccia mordicchiava le molliche. Ma a Tommy venne uno strano pensiero: se il suo modellino era diventato quell’auto meravigliosa e grande, sotto la neve, che cosa sarebbe successo alla tartaruga? Le gemelle forse si sarebbero ritrovate un mostro preistorico alto tre metri. Tipo il triceratopo del museo. Bella lì, nell’aiuola dietro il panificio. Pronta a cibarsi di un paio di operai del Ghana o di un camion di filoncini raffermi. L’idea gli fece un po’ paura e preferì non condividerla con gli amici. Gruccia, piccola come al solito, viaggiava con loro. E non avrebbe mangiato nessuno.
Il maggiolone correva sulla strada deserta. Lasciava due scie dietro di sé, come quelle di una slitta.
Ma i bambini non le vedevano. Le facce incollate ai finestrini, osservavano la campagna che conoscevano così bene e che sembrava diversa, immensa e selvaggia, i capannoni che di solito spuntavano ovunque se ne stavano acquattati sotto la neve, quasi gradevoli, sotto tutto quel biancore.
«Arriviamo in riva al canale». Era un campo grande, dove si poteva correre e giocare. Il loro posto preferito quando lanciavano il boomerang. Poteva volare lontano, senza impigliarsi nei tralicci o negli alberi. E si vedeva bene dove cadeva, anche quando l’erba era alta.
Quando furono di fronte al campo, il maggiolone si arrestò. I bambini scesero, eccitati e cominciarono a sgroppare come cavalli o caprette. Poi volarono le prime palle e fu un conflitto senza regole e senza rispetto. Si rincorrevano attorno al maggiolone, cercando di ripararsi, ma in breve furono tutti bagnati fino alle mutande.
A quel punto, cominciarono ad arrotolare due grosse sfere di neve e le sovrapposero. Poi ci appoggiarono piedoni e braccia.
«Non abbiamo neanche una carota per il naso e un cappello da mettergli in testa». Manuela valutava il pupazzo con espressione critica. Gli altri concordavano. Non era un granché.
«Io ho un po’ freddo» disse Tommy. «Vado in macchina». Gli altri lo seguirono, allettati dall’idea del calduccio che si era creato nell’abitacolo. Gruccia si era rintanata nel suo guscio.
In pochi minuti, i vetri si appannarono del tutto, per il fiato dei bambini.
Tommy tolse con la mano la condensa dal lunotto. Il cielo era sempre scuro. «Ma non dovrebbe spuntare il sole?»
«Se è nuvolo, il sole non si vede». L’osservazione di Daniela non lo convinse.
«Sì, ma almeno un po’ di luce si dovrebbe vedere. Qui sembra notte».
I quattro fissavano il cielo, nella speranza di scorgere un raggio attraverso la spessa coltre di nubi.
Invece ricominciò a nevicare. Larghi fiocchi, fittissimi.
«Mi sa che è meglio tornare». Non c’era traccia di piagnucolio nella voce di Manuela. Le sue parole sembrarono molto sagge. Forse perché tutti avevano le mutande e le calze zuppe. Forse perché le mani si erano fatte prima gelate, poi bollenti e ora ricominciavano a raffreddarsi. E nessuno di loro si era ricordato di fare colazione, prima di uscire. La pagnotta di Daniela era bell’e digerita.
Il maggiolone si riavviò senza che Tommy girasse la chiave. Fece una perfetta inversione a “u” nel campo innevato, dove le tracce della battaglia erano già state cancellate dai nuovi fiocchi e l’abbozzo di pupazzo stava perdendo i suoi connotati.
L’auto viaggiava con un borbottio costante, bonario. Come una ninna nanna. Tommy dovette svegliare le gemelle, quando arrivarono davanti alla fabbrica del pane. Insonnolite, raccolsero Gruccia e scesero, biascicando saluti. Quando aprirono e chiusero il portellone, non si udì alcun suono, come se tutto quel fioccare l’avesse attutito.
Il maggiolone si rimise in moto. Prima, seconda, terza e quarta. Tommy non appoggiava nemmeno più la mano sul pomello del cambio. La leva si muoveva da sola. E lui la osservava distrattamente, di tanto in tanto, come se fosse il movimento meccanico del tergicristalli.
Da lì a poco si ritrovarono davanti alla cascina di Jos. Il bambino scese e salutò senza parlare, con un cenno della mano e un sorriso. Arretrò in modo curioso, camminando all’indietro, fino alla porta di casa. Tommy ad un certo punto non lo distinse più, tanto fitta cadeva la neve.
«Voglio arrivare a casa» pensò. «Sono tanto stanco».
L’auto viaggiava. Il bimbo si assopì, cullato dal movimento. Quando aprì gli occhi, vide che erano arrivati. Il maggiolone si era avvicinato il più possibile all’ingresso della villetta. «Grazie» mormorò il bimbo. Poi girò la chiave e la estrasse. Il motore tacque.
Tommy percorse i pochi passi fino all’uscio, lo aprì e corse in camera sua. Lottò contro il sonno, mentre si toglieva gli abiti bagnati e s’infilava il pigiama.
Letto, nanna subito. Buio.
Sentì qualcuno toccargli la fronte. Era il papà.
Il giorno era arrivato, c’era più luce nella stanza.
«Sai che hai dormito tutto il giorno, ieri? Avevi un bel febbrone» gli disse il papà. «Non ti sei neanche accorto che ti facevo bere le medicine».
Tommy fece di no con la testa.
«Sono venuti i tuoi amici a trovarti. Sai, le gemelle. E Jos, quello nero».
Il papà si chinò ed estrasse un pacchetto, da sotto il letto. «Ti hanno portato un regalo, per Natale. E per augurarti di guarire presto».
Il bimbo aprì piano l’involto. C’era dentro una scatola di cartone. Ne sollevò il coperchio e sbirciò il contenuto.
Una palla di vetro. La estrasse delicatamente dalla confezione. Come in una bolla, vide una coccinella rossa, circondata da un gruppo di gnomi che facevano il girotondo. Erano immersi in un liquido trasparente.
«Agitala!» consigliò il papà.
Il bimbo la fece oscillare. All’interno cominciò a sollevarsi una tempesta di fiocchi bianchi. Sembrava davvero neve.
«Come fuori, papà».
L’uomo assentì. Anche lui era affascinato dalla palla. «Certo che le coccinelle se la passano brutta sotto la neve» mormorò, tra sé e sé. Poi sentenziò: «Natura matrigna!».
Il bimbo tacque. Si adagiò di nuovo tra le coperte, fissando la sfera. Il padre, credendolo assorto nel suo gioco, uscì dalla stanza in punta di piedi.
Appena fu solo, Tommy sollevò la sguardo dall’insetto e dagli gnomi e lo indirizzò alla finestra, da cui un candore innaturale invadeva la camera.
Di tanto in tanto, abbassava le palpebre, appesantite dalla stanchezza e dall’influenza.
Poi si raggomitolò su un fianco, stringendo la palla tra le dita. Il vetro non era più freddo. Liscio, perfetto: era un piacere tenerlo vicino e accarezzarlo, come un peluche.
«Altro che matrigna» borbottò il bimbo mentre, dolcemente, scivolava nel sonno. «Al mio maggiolone la neve piace un sacco. Fa diventare grandi».
Le dita si rilassarono e la palla scivolò verso il pavimento, cadendo sul mucchio dei vestiti. Non si ruppe, era robusta. La neve dentro mulinò per un po’ di tempo, poi si depositò.
Da una tasca dei pantaloni, per terra, qualcosa brillò.
Una piccolissima chiave d’argento.
Silvia Messa
15 dicembre 2008
domenica 21 dicembre 2008
DICEMBRE
scende la bella neve sonnolenta,
tutte le case ammanta come spettri;
di su, di giù, di qua, di là, s'avventa,
scende, risale, impetuosa, lenta,
alle finestre tamburella i vetri...
Turbina densa in fiocchi di bambagia,
imbianca i tetti ed i selciati lordi,
piomba dai rami curvi, in blocchi sordi...
Nel caminetto crepita la bragia...
mercoledì 17 dicembre 2008
I feel pretty good,
So I dropped in to the luxury of the Lord;
Fighting dragons and crossing swords
With the people against the hoards
Who came to conquer.
Seven o'clock in the morning,
Here it comes; I taste the warning,
And I'm so amazed I'm here today,
Seeing things so clear this way.
In the car on my way to Stonehenge.
I'm flying in Winchester Cathedral,
Sunlight pouring through the break of day.
Stumbled through the gate and into the chamber.
There's a lady setting flowers on the table, covered lace,
And a cleaner in the distance finds a cobweb on her face,
And a feeling deep inside of me
Tells me this can't be the place.
I'm flying in Winchester Cathedral;
All religion has to have its day.
Expressions on the face of the saviour
Made me say, I can't stay.
Open up the gates of the church
And let me out of here.
Too many people have lied in the name of Christ
For anyone to heed the call.
Too many people have died in the name of Christ
That I can't believe at all.
And now I'm standing on the grave of a soldier that died in 1799.
And the day he died, it was a birthday,
And I noticed it was mine.
And my head didn't know just who I was,
And I went spinning back in time.
And I am high upon the altar,
High upon the altar,
High!
I'm flying in Winchester Cathedral;
It's hard enough to drink the wine.
The air inside just hangs in illusion,
But, given time, I'll be fine.
I'll be fine.
Open up the gates of the curch and let me out of here.
Too many people have lied in the name of Christ
For anyone to heed the call.
So many people have died in the name of Christ
That I can't believe it all.
And now I'm standing on the grave of a soldier that died in 1799.
And the day he died, it was a birthday,
And I noticed it was mine.
And my head didn't know just who I was,
And I went spinning back in time.
And I am high upon the altar,
High upon the altar,
High!
Graham Nash, 1971
sabato 13 dicembre 2008
London Town
I think I can begin again.
Become again the man I was back when.
So I'm walking on your streets again,
feeling now as I did then,
I've since become a different man.
London Town, turn be around,
London Town, carry me back, oh,
London Town, lost and found,
and I feel like going back
I can remember lots of time and space,
if I lose the name, still I know the faces.
Time as come and left its traces.
London Town, turn be around,
London Town, carry me back,
oh, London Town, lost and found,
and I feel like going back.
When I grew too old and dull to rock 'n roll,
like to hold on tight to you, darling.
And when my fires have all burned out,
I'd like to think I can still think about
the things I used to sing about
When I was spending all my time alone.
By myself and on my own,
seldom seen and quite unknown.
London Town, turn be around,
London Town, carry me back,
oh, London Town, lost and found,
and I feel like going back.
Yes, I feel like going back
James Taylor Dad Loves His Work, 1981
mercoledì 10 dicembre 2008
lunedì 8 dicembre 2008
Quadri nella mia Vita
Le mura della fortezza racchiudono i colori del mercato ed il sapore del sale che deposita aromi e riflessi accecanti sulla sabbia dorata di questa regione bellissima. Bazille amava la sua terra di quell'amore che solo agli artisti è concesso e la pittura lo esprime l'amore concretizzandolo in colori pastello. "Bon Voyaje mon amì" sembrano dire le figure in plastica attesa ed un vago senso di ricordo pervade le tele e si espande nell'azzurro biancastro dei cieli ventosi dove qualche uccello veleggia trasportato dalle aeree correnti.
Ai posteri l'ardua sentenzia, io, la mia l'ho già emessa.
Jean Frédéric Bazille Montpellier, 6 dicembre 1841 – Beaune-la-Rolande, 28 novembre 1870, è stato un pittore francese.
Proveniente da una famiglia protestante agiata, si reca a Parigi a studiare medicina, facoltà che abbandona presto per dedicarsi, con la disapprovazione dei genitori, alla pittura, influenzato dalla pittura di Eugene Delacroix. Nel 1862 viene in contatto con Monet, Renoir e Sisley, i migliori membri del movimento impressionista, che aveva conosciuto frequentando lo studio del maestro Gleyre a Parigi. Le stanze dello studio di Bazille, situato a Batignolle, diventano ben presto punto di incontro per questi artisti. Il nome iniziale per gli impressionisti fu, appunto per questo, "Scuola di Batignolle".
Durante i suoi soggiorni annuali a Meric, sulle rive del Lez, presso la villa di famiglia, maturò il suo stile. Qui dipinse La robe Rose nel 1864, risultato della volontà di voler conciliare le tesi impressioniste con le regole della pittura classica. Nello stesso luogo, dipinge anche La vue de village: Castelnau, qualche anno più tardi. Quest'opera presenta una struttura molto simile a La robe Rose. La sua maggiore conquista a livello artistico fu quella di aver saputo fondere in un'unica immagine la figura umana con il paesaggio.
Bazille non si è mai sposato, e i suoi rapporti intimi con amici maschi hanno fatto supporre che fosse omosessuale, cosa che a quei tempi era molto criticata. [senza fonte] I programmi per la prima mostra impressionista indipendente furono interrotti dallo scoppio della guerra franco-prussiana nel 1870-1871. Bazille si arruola volontariamente nell'esercito in un reggimento di zuavi, contro le richieste degli amici pittori. Poco dopo, durante la sua prima battaglia al fronte a Beaune-la-Rolande, venne ucciso all'età di soli 29 anni.
Nella sua vita ha stretto amicizie con i migliori artisti del tempo, i quali divennero i più celebri del movimento impressionista, compresi Monet, Manet, Renoir, Sisley e Morisot.
domenica 7 dicembre 2008
Fior di neve
Dal cielo tutti gli Angeli
(U.Saba)
sabato 6 dicembre 2008
The Way It Is
Bruce HORNBSY & The Range
venerdì 5 dicembre 2008
Di alcuni riflessi negli occhi
Le luci della città lambivano con i loro bagliori le tenui pendici dei monti che sovrastavano lo scorrere del fiume.
Tony, seduto su un tronco sradicato da chissà quale tempesta, fissava un punto lontano nel vuoto.
Il lungo respiro tranquille, le mani appoggiate, il silenzio irreale del bosco, perfettamente si incorniciavano a creare una di quelle immagini che lui, sopra tutte le altre, preferiva.
- Ora si che sono veramente solo! - esclamò ad alta voce probabilmente per fare in modo che la sensazione evocata da quella considerazione non restasse relegata solo alla sua mente ma potesse espandersi per tutto il corpo.
Il risultato fu un brivido che gli fece accapponare le braccia nude.
Immediatamente le sue mani si mossero a massaggiare in modo vigoroso la pelle infreddolita per ridarle calore.
Sospirando distolse lo sguardo dalle stelle per buttarlo all'inseguimento di alcune lucciole che con il loro volo a luminosità intermittente avevano carpito la sua attenzione.
Gli animali notturni erano sempre riusciti ad affascinarlo al punto da fargli più volte perdere il senso del tempo e dello spazio.
- E' buffo! - disse ancora - è proprio buffo!
Le cose accadono in fretta.
Vanno e vengono con le loro costanti e noi le si aspetta bruciando l'attesa per non sentirla pesante!
Eppure eccomi qui.
Di nuovo coinvolto a sostenere il difficile e falso gioco delle parti.
Questione di scelte?
Faccende di cuore?
Tutte cose vere, a loro modo romantiche e grandi, ma pur sempre il frutto che ho colto con gioia dalla mia pianta e che qualcun altro ha mangiato, ovviamente mentre ero distratto.
Cristo!
Com'è difficile vivere!
Ciò detto si alzò di scatto e raccolto un sasso dal polveroso sentiero che scendeva a valle, lo scagliò con tutta la forza che riuscì ad imprimere al suo braccio.
La traiettoria si perse immediatamente nel buio ma dopo alcuni secondi a Tony parve di sentire il sordo rumore di un peso cadere a terra.
Ritto di fronte alla notte, mani in tasca, occhi chiusi nel capo reclinato all'indietro, il corpo di Tony ricercava al respiro, ora veloce ed agitato, un ritmo più dolce, più calmo.
Finalmente i suoi pensieri acquietarono i loro ansiosi percorsi ed in lui cessarono i brividi.
- E' inutile! - si lamentò rompendo il silenzio - anche a chiudere gli occhi non mi riesce di arrestare lo scorrere delle immagini.
Perchè non andate via?
Perchè non volete concedermi quella pace che anelo?
Cristo!
Con un gesto Tony cercò di cancellare dal suo sguardo sgranato il filmato impietoso del "flash-backs" degli ultimi avvenimenti.
Il tentativo fallito di elevare la soglia del dolore che accompagnava il ricordo si stemperava con malinconica dolcezza nella frescura di quella notte di primavera avanzata.
Tony strinse con forza gli occhi e dalle sue palpebre calde lacrime, ad inumidire l'arsura delle labbra socchiuse, scivolarono tristi.
Il nodo in gola lo costrinse ad alcuni singhiozzi.
Ristette immobile in mezzo al sentiero per alcuni minuti.
Il tocco di un refolo d'aria lo riportò dov'era e, da dov'era, riprese il cammino.
La lunga passeggiata sembrò nuovamente portare serenità nelle visioni di Tony.
Quel posto gli era amico, non lo aggrediva mai nè lo faceva sentire a disagio.
Ormai era da tempo che le comunicazioni sociali, così come lui le andava chiamando, non davano più i risultati che si attendeva.
Tutto ciò non aveva fatto altro che accrescere un'errata dimensionalità e dimensionamento del suo personaggio.
Le crisi di sconforto che, ogni tanto, inevitabilmente sopravvenivano falsando il suo modo di osservare la prospettiva, ottica e vedibile insomma, non gli lasciavano il necessario spazio di tempo perchè le potesse assorbire senza accusarne i pesanti contraccolpi che, puntualmente, lo stordivano e confondevano togliendogli il fiato.
Comunque in quel posto, vicino a quel fiume e a quei boschi, tutto gli pareva più sopportabile ed egli, appena ne aveva la possibilità materiale, vi si rifugiava a riflettere buttandosi dietro alle spalle le migliaia di piccole angosce cittadine che, a parer suo, gli inquinavano i già pressanti problemi ingigantendoli smisuratamente.
Le ultime delusioni, gli amici, una donna vissuta con un'intensità superiore alle sue stesse aspettative, lo stress e la tensione irriducibile del suo rapportarsi con il tempo, lo avevano costretto, coi denti stretti, a fuggire in quell'oasi di pace in cui, a fatica, aveva ricostruito una propria verginità fatta di ricordi piacevoli o assolutamente inoffensivi.
Ora era lì, impegnato in una non difficile discesa per raggiungere il riposo notturno.
La stanza sapeva di buono ed il whisky scendeva leggero mentre il suono di una canzone riempiva il silenzio.
- La musica è la vera costante! - disse Tony mentre giocherellava tranquillamente con il suo bicchiere.
- Da quando riesco a risalire con la memoria la ritrovo sempre.
Per me è come una donna fedele, l'unica forse di cui non abbia mai avuto timore.
Mi culla e mi accarezza proiettandomi in sensazioni, colori, visioni indescrivibili.
La musica per me non è ricordo, è evocazione pura!
Il suono continuava ritmando le ore ed il contenuto della bottiglia andava visibilmente calando.
Tony, nel bersi un'altra sconfitta, considerava i riflessi visivi che come le sequenze di un filmato montato senza logica, gli balenavano, come rivelazioni, improvvisi davanti agli occhi.
L'alba lo colse mentre, seduto sul dondolo, fumava la prima sigaretta dopo tanto tempo; sulle ginocchia la colorata macchia rosata di una lettera leggermente sgualcita.
RIO BO
dai tetti aguzzi,
un verde praticello,
un esiguo ruscello: Rio Bo,
un vigile cipresso.
Microscopico paese, è vero,
paese da nulla, ma però...
c'è sempre di sopra una stella,
una grande magnifica stella,
che a un dipresso...
occhieggia con la
punta del cipresso di Rio Bo.
Una stella innamorata?
Chi sa
se nemmeno ce l'ha
una grande città.
Aldo Palazzeschi
martedì 18 novembre 2008
A Sense of Wonder
No before, after, yes, after before
We were shining our light into the days of blooming wonder
In the eternal presence, in the presence of the flame
Didn't I come to bring you a sense of wonder?
Didn't I come to lift your fiery vision bright?
Didn't I come to bring you a sense of wonder----- in the flame?
On and on and on, we kept singing our song
Thru Newtonards and Comber, Gransha and the Ballystockart Road
With Spike and Boffyflow, I said I would describe the leaves for Samuel & Felicity
Rich, red, browney, half burnt orange and green
Didn't I come to bring you a sense of wonder?
Didn't I come to lift your fiery vision bright?
Didn't I come to bring you a sense of wonder----- in the flame?
It's easy to describe the leaves in the Autumn
And it's oh so easy in the Spring
But down through January and February
It's a very different thing
On and on and on, through the winter of our discontent
When the wind blows up the collar and the ears are frostbitten too
I said I could describe the leaves and what it means to you and me
You may call my love Sophia, but I call my love philosopy
Didn't I come to bring you a sense of wonder?
Didn't I come to lift your fiery vision bright?
Didn't I come to bring you a sense of wonder----- in the flame?
Didn't I come to bring you a sense of wonder?
Didn't I come to lift your fiery vision bright?
Didn't I come to bring you a sense of wonder----- in the flame?
Van MORRISON, A Sense of Wonder, 1985
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Sense of wonder è un'espressione inglese usata per indicare la tipica sensazione di meraviglia che viene volutamente ricercata nelle opere di narrativa fantascientifica, specialmente in relazione all'"età d'oro" della fantascienza degli anni quaranta e cinquanta del Novecento.
Il sense of wonder è una reazione emotiva che ha il lettore quando si confronta, cerca di capire o viene messo di fronte ad un concetto assolutamente nuovo e non esistente necessario per recepire delle nuove informazioni. Può essere associato all'azione di cambio di paradigma, atto tipico della fantascienza per cui si accetta una tecnologia futuribile e le sue basi per poter proseguire la comprensione dell'opera o di parte di essa.
Il sense of wonder non richiede la completa comprensione della situazione che lo causa.
Come molti termini fantascientifici non ha una traduzione correntemente usata in italiano. L'espressione viene spesso usata in correlazione con la sospensione della realtà o la più letteraria volontaria sospensione dell'incredulità di cui parlava il poeta Coleridge.
Il colore viola esiste
Morbida nell’iride
di quest’autunno tardo e mite
la curva dei miei fianchi
ondeggia al viola
al viola
al viola.
Il colore viola esiste.
quintessenza di quello che rosa e blu
possono solo immaginare.
Un’aspirazione d’indaco
una corruzione di porpora
come il sangue che scorre lento
in vene antiche.
Viola è pur sempre vita
anche nell’angolo del dolore
dove brilla rubino di donne e uomini.
Un attimo solo
fiotto, guizzo
idea di quel che sta dentro.
Fiume sulla mano della madre
nervatura di foglia
albero di noce custode tra mondi
radice di genziana, sacro
esile segno d’esistenza.
Il colore viola esiste.
Dignitosa essenza di velluto
uva gonfia, fiore scorollato
sull’erba ancor verde.
Scrivo di colori, di sangue
e vita
da porpora a viola
quietamente trascorre
a ritmo di milonga.
18 novembre 2008
Per mia madre, per mia nonna
venerdì 14 novembre 2008
Nulla di ciò che accade e non ha volto
Nulla di ciò che accade e non ha volto
e nulla che precipiti puro, immune da traccia,
percettibile solo alla pietà
come te mi significa la morte.
Il vento ricco oscilla corrugato
sui vetri, finge estatiche presenze
e un oriente bianco s'esala
nei quadrivi di febbre lastricati.
Dalla pioggia alle candide schiarite
si levano allo sguardo variopinto
blocchi d'aria in festevoli distanze.
Apparire e sparire è una chimera.
E' questa l'ora tua, è l'ora di quei re
sismici il cui trono è il movimento,
insensibili se non al freddo di morte
che lasciano nel sangue all'improvviso.
Loro sede fulminea è qualche specchio
assorto nella sera, ivi s'incontrano,
ivi si riconoscono in un battito.
Sei certa ed ingannevole, è vano ch'io ti cerchi,
ti persegua di là dai fortilizi,
dalle guglie riflesse negli asfalti,
nei luoghi ove l'amore non può giungere
né la dimenticanza di se stessi.
Da "Poesie sparse", Mario Luzi
martedì 11 novembre 2008
Distratta da laghi come miraggi
Distratta da laghi
come miraggi
dal crinale
l’orizzonte non ha limiti.
I fantasmi hanno l’evidenza
di terre e isole senza nome.
L’acqua riflette frammenti di luce
e col trascorrere di ore
e pensieri e segni
si vapora in nebbia diffusa
in nubi sfilate dove il sole
s’avvolge e affonda
nel torpore della sera.
Tutte le strade portano al crepuscolo
a mete impreviste
ad altri luoghi, laghi, paesi
dai nomi mitici, liquidi e alchemici
dove approda la vista, il passo
l’errore benigno.
E noi.
Piegate alla notte
dalla stessa energia silenziosa
che flette le betulle
l’erba dei pascoli
le nostre vite.
Quella che dà alla luna
tutto il suo peso di pietra gravida
e il suo candore.
Civate, Eupilio
lunedì 3 novembre 2008
Malia
Come nel fondo di un pozzo
incantato da un'antica malia
il tuo sguardo cattura il mio.
Scuro, come il lato buio della luna.
Nero, mi attira in te.
I miei pensieri sono cuccioli
confidenti nell’abisso delle tue pupille
in quelle scintille accese da un dio
o da un angelo ribelle.
L’anima si abbandona
al flusso del tuo io
a quel vortice che la tua voce
induce al tuo pensiero,
le tue parole alle tue labbra
al fiato, all’eco profonda della tua mente.
Come risacca nella grotta
di un demone oceanico
il sacrificio si accende e mi consuma.
Con il corpo e l’anima mi allontano
da correnti gelide sospinta all’autunno.
Ma in te, nell’ombra cupa
fra le tue ciglia, nel bagliore di te
io sono. E resto.
venerdì 17 ottobre 2008
Convenzionalmente vengono identificati tre tipi di crepuscolo: il crepuscolo civile, il crepuscolo nautico e il crepuscolo astronomico." da Wikipedia
giovedì 16 ottobre 2008
Marionette
“Vede, Signora,
io sua figlia l’ho sempre amata.
Arrivavo ogni mattina con in tasca
pesci vivi, oroscopi e poesie.
Ma la sua bambina aveva nel corpo
lune insanguinate,
l’impronta infangata di uno stivale.
Il suo odio fermentava con la frutta in cantina.
Il suo odio cresceva e cresceva,
strangolava la casa
Vede, Signora,
sono nato in una valle di fantasmi.
Un paese di morti dove quando fa buio
le divise dei soldati marciano vuote lungo le strade.
E ogni notte la sua bionda bambina mi chiedeva di morire,
ogni notte lasciava un cadavere di cenere sul letto.
Un uomo ha in bocca la fame mai sazia dei lupi.
Ha sempre bisogno di mordere,
di succhiare il sapore selvatico.
E il mio sperma impazziva nei lombi,
la nutrivo ogni notte con le gocce dei miei sogni.
Non l’ho cercata, lo giuro.
Mi ha trovato seguendo un’orbita errata di stelle.
Nuotando e nuotando contro corrente.
Allargava i suoi occhi nel buio,
fiutava il mio odore col ventre.
La chiamai dalla riva.
Era un luccio gigante,
una cornucopia di luce nella marea del mattino.
Guizzò nell’aria: aveva un feto nell’iride dell’occhio,
si dibatteva con furia contro l’uncino del mio sesso.
Vede, signora,
ero un baco senza pupille
lei mi chiuse le palpebre con dita sudate,
mi avvolse con un filo di bava
nel suo bozzolo bianco.
E a casa la sua bambina bella cadeva fra i narcisi.
Si rompeva in mille pezzi,
pura e dolorosa come un grido.
Un crack fra le mie mani, così.
La vita le usciva da un fianco,
il sangue tornava alla terra.
Io non centro, lo giuro.
Fece tutto da sola.”
Marionette è una poesia di Ted Hughes. Poeta inglese, amò e sposò Sylvia Plath. La tradiva, si separarono.
Sylvia, fragile poetessa di vetro, si suicidò a Londra nel 1963.
Esce oggi un Meridiano dell'opera di Hughes
mercoledì 1 ottobre 2008
Quel cielo grande
Quel cielo grande
e nuvole attorno.
E la costiera, così definita
che fa male
e bene insieme
agli occhi e al cuore.
Un volo lento
di corvo
attraverso la breva.
Le mie fiabe qui
non hanno parole
ma voce d’acque
e pensieri assopiti nel sole.
E i lamponi e i fichi
rubati come un rito
e il tramonto brumoso
a sciogliersi in bocca.
Qui il tempo ha un senso
leggero, significa
vita e giorno compiuto.
Non quello scivolare
del mattino
tardo al chiarore
fino a una sera estranea
prematura opaca
dove vortica il nulla
di fari auto stanchezza.
Il fluire stanco
senza forza che non sia
rabbia silenziosa
e versi imperfetti.