martedì 22 maggio 2007

Idea per un Racconto: "Dissolvenza"

(bozza da sviluppare, in progress)

Mi sto dissolvendo.
Non so in quale altro modo definire ciò che mi sta succedendo.
E' cominciato qualche mese fa. O forse di più, non so.
Inizialmente non ci facevo nemmeno caso: ho cominciato a rifletterci dopo.
La consuetudine quotidiana porta l'indifferenza: si parla e ci si ascolta in modo distratto e superficiale. Rientri a casa e quasi non se ne accorgono; continuano tutti ad occuparsi delle proprie faccende, senza nemmeno alzare la testa. La normalità.
Non so perché, ho cominciato a rendermi conto in modo più acuto di questo disinteresse apparentemente usuale.
Facendoci caso, notavo in modo sempre più frequente che per strada, in casa, a scuola, sempre più spesso nessuno faceva caso a me.
Per strada, direte voi, è normale. A scuola è normale: colleghi frastornati e studenti annoiati non ti danno retta, è ovvio.
A casa, entro certi limiti, è normale. Ma sempre più spesso mi accorgevo che Valeria e i ragazzi mi incrociavano senza notarmi. Li vedevo assorti, chiamavo e nessuno rispondeva. A tavola, dopo cena, l'attenzione era rivolta alla televisione, alle letture, alle telefonate, al computer... Alla conversazione avevo rinunciato da tempo, ma ora cominciavo a sentirmi trasparente, quasi inesistente.
Mi era capitato molte volte di partecipare a convegni e restare fuori casa per qualche giorno. Nell'ultimo periodo avevo assunto un incarico che comportava trasferte più frequenti, così diventò per tutti un'abitudine che fossi assente. Così nessuno più faceva caso alle mie partenze, né ai miei ritorni. Nessuno più mi chiedeva niente. Nessun congedo, nessun bentornato. A scuola ero spesso sostituito da un supplente, così anche là diventai un fantasma, favorito in ciò anche dalla mia scarsa propensione alla conversazione e alle relazioni sociali.
Un martedì pomeriggio, a fine Ottobre. In metropolitana c'erano tre miei studenti, Non soltanto non mi hanno salutato ma, oltre a non essersi avveduti di me, parlavano del supplente come del loro professore. Mai illudersi di costruire un rapporto con i ragazzi. Mai dipendere dalla loro simpatia.
Mi capitava sempre più sovente di cercare di rivolgere la parola e di non ottenere né risposta né cenni d'ascolto. In famiglia ciò era ogni giorno più penoso: ormai parlavo immancabilmente da solo. Chiamavo, ma non rispondevano. Facevo una domanda, e la mia voce veniva coperta da quella di un altro. Finii per tacere sempre più spesso, per immalinconirmi e rinchiudermi ulteriormente in un sopore dolente.
In Novembre mi ammalai. Niente di serio, ma ebbi la febbre e una brutta infreddatura. Ovviamente, tutto passò inosservato. Tossivo, chiamavo, urlavo. Niente. Arrivai all'esasperazione, rasentai la violenza fisica. Guardavano nel vuoto e distoglievano l'attenzione, come da un programma televisivo a volume troppo alto. A volte sentivo mormorii nell'altra stanza.
Così iniziò l'abbruttimento, che si alimentava reciprocamente con la rassegnazione, la rabbia silenziosa e impotente. Smisi del tutto di parlare. Mangiavo pochissimo, prevalentemente di notte. Da Gennaio smisi di lavorare, ma lo stipendio mi arrivava lo stesso in modo regolare. Restavo a casa, in pigiama, con la barba incolta, senza più nemmeno lavarmi. Dormivo sul divano, ma mia moglie nemmeno se ne accorgeva. Forse si era abituata da anni alle mie frequenti veglie notturne da insonne davanti al televisore, alla mia distrazione, al mio perenne mutismo, alla mia indeterminatezza.
Cominciavo a perdere consistenza fisica, lo percepivo con chiarezza. Dimagrivo, guardavo nel vuoto, esistevo ogni giorno di meno. Andavo alla deriva. Ero quasi del tutto invisibile.
Me ne andai di casa.

Vagavo per le strade, dormivo dove capitava, dove nemmeno gli altri clochard mi notavano.
Mi ritrovai seduto su un'auto della Polizia. Forse mi scaricarono a casa. Ora mi trovavo di nuovo sul divano. Sentivo voci sommesse. Forse il Dottor Riboldi. Qualcuno della famiglia. Sembrava un singhiozzo trattenuto. Poi, degli uomini in camice bianco che parlavano tra di loro. Io avrei voluto dire qualcosa, ma nessuno se ne accorse. Ancora il divano. Voci lontane che pronunciavano il mio nome. No, il nome di un altro uguale al mio.
Sono a letto. Sudo, forse ho la febbre alta, tutto scotta. Scatole e flaconi sul comodino. Un'infermiera assorta in una lettura scandalistica. Gossip, lo chiamano. Vorrei sapere da dove deriva questa parola, ma non so a chi chiedere. Lei, nemmeno mi guarda.
Ora mi sento leggero. Una fiala su un trespolo, una cannuccia che mi arriva al braccio.
Mi dissolvo. Non so se è la mia stanza. Nella penombra non distinguo bene.
Arturo.
Il mio nome.
Come stai?
Non rispondo. La voce si è smarrita, come tutto il resto.
Forse una volta ero vivo, non ricordo.
Forse non sono mai nato, oppure sono nato già vecchio.
Non me ne importava niente, perché cercare l'approvazione degli altri? Perché essere schiavi della volubile simpatia degli esseri umani, così frivoli e dediti a misere passioni?
Il non-essere, l'agonia in un letto d'ospedale, ecco la mia verità, la mia libertà.

Marco Laudiano, 21 Maggio 2007

(Tutti i diritti riservati)

1 commento:

  1. c'è l'idea della lentezza, di un moto decrescente lento e inesorabile che lotta contro it's better to burn out than to fade away. Fade away, suona bene, è terribile.
    Dissolvenza, un attimo di buio e poi una nuova illusione. Fino ad un'altra. Dissolvenza.

    RispondiElimina