martedì 15 maggio 2007

Racconto: "L'ultima notte del mostro"

Il mostro con le scarpe infangate si aggirava nel deposito dei camion in disuso.



Il vago bagliore lunare non sapeva disegnare la sua ombra, che si lasciava sciogliere come in un lugubre acquarello.


Smise di correre. Nessuno più lo inseguiva. Nessuno l'aveva mai inseguito. Si fermò, riprese fiato, si guardò indietro. Anco­ra nessuno. Era stanco di scappare. Si nascose ad aspettare die­tro una pila di bidoni ammucchiati. Nessuno venne.


Vagava da ore lungo i marciapiedi della piccola città che ben conosceva. Eppure, in qualche modo si sentiva lontano. Lonta­no da una stanza riscaldata, lontano da quel mondo logico e ras­sicurante che appena sfiorava camminando rasente ai muri, stri­sciando l'impermeabile contro le pareti esterne delle case. Den­tro, bambini ignari guardavano i programmi televisivi pieni di rumori e di colori. Con quelle storie fragorose, in cui anche la crudeltà ha una spiegazione, e nemmeno l'uomo cattivo ti può far paura.


Dalle sottili righe di luce delle tapparelle abbassate fug­givano attraverso immaginari pentagrammi i suoni di quel mondo, e lui riscriveva quel mondo con le gocce di pioggia su quei minu­scoli quaderni allineati, come un compito consegnato troppo tar­di. Come la paura di portare alla mamma un brutto voto. Rimani fuori un'infinità di minuti, a bere pioggia e lacrime, senza il coraggio di salire in casa, dove ti aspetta la liberazione da questa paura, il caldo, la tiepida luce della cucina, l'inevita­bile sgridata.


Dolce abbandonarsi alle solite parole di rimprovero, chinare la faccia sopra la minestra già pronta, sentire il vapore caldo che ti consola, il perdono che s'intravede già negli sguardi scu­ri che ti ordinano di mangiare.


Dolce abbandonarsi all'umido nelle ossa, nelle scarpe, nei piedi. Dolce non reagire più all'abbraccio dei vestiti fradici. Ora non bisognava più evitare le pozzanghere, correre a casa ad asciugarsi, ad arginare il raffreddore sicuramente in agguato. In quella casa c'era il sangue delle vittime, che scorreva senza più rimedio. Non aveva più senso riparare, mettere le scarpe sul ca­lorifero, le calze in bagno, preoccuparsi di non sporcare in giro col sangue.


Il sangue delle vittime. Ed ora il suo. Un bruciore feroce, una certezza da farti mordere i denti per resistere fino alla fi­ne.


Sedette sulla panca di cemento del cortile, e si guardava il respiro nebbioso disperdersi nel bagliore del lampione, una debo­le luce da sempre indecisa tra il giallo pallido e il bianco sporco. Si passò una mano sul viso e si sentì forte, sicuro del male.


I vecchi camions lo guardavano rassegnati, mostrando senza più difese i teloni intrisi d'olio e polvere che imbarcavano ac­qua, che cedevano, che sbrodolavano rigagnoli simili a quelli delle grondaie sfondate del deposito.


Rise sommessamente, poi tirò su col naso per respingere il dolore. Ora tremava un poco, e si strinse per raccogliere un ul­timo residuo di calore. Eppure non sentiva il bisogno di tornare al caldo. Si stava bene qui fuori, sembrava tutto più vero, più essenziale. Gli erano sempre piaciute le notti piovose, e le ge­lose solitudini di quelli che restano sotto l'acqua mentre tutti s'affrettano stizziti. Si sta bene da soli dopo aver ammazzato, mentre si sta per finire. Era tardi per rincasare, tardi per ri­parare.


Il gatto annaspava e lo guardava con diffidente noncuranza. Fece un miagolio rauco e si defilò muovendo appena un'ombra indi­stinta, che pareva lo seguisse di malavoglia.


Si alzò, riprese a camminare, più faticosamente.


Barcollava sul marciapiede rosicchiato di una via periferi­ca, calpestando le gramigne che prorompevano dalle crepe dell'a­sfalto.


Ai lati della carreggiata, poche auto con i finestrini ap­pannati dal piacere degli amanti emanavano un morbido tepore. Da una di esse, il suono attutito di una risata di ragazza, appagata dalla vittoria di quel piccolo amore furtivo. A casa, i genitori avranno il sollievo di vederla rientrare presto. Piena di caldo, col sorriso dissimulato da un finto malumore. Ansiosa di tornare a letto ad accarezzarsi un futuro magico come un sedile d'auto in cima ad un sogno impreciso.


Il mostro aveva la vista un po' annebbiata. Forse erano le gocce che penetravano negli occhi. Si sentiva un po' sudato, co­minciava a fare caldo. Già, si sta avvicinando la primavera: per questo piove così.


Stamattina al matrimonio si saranno bagnati tutti. Lei, an­cora più nervosa del solito. Lui, col suo sorriso disinvolto, rassicurante, indisponente. Le madri trepide, la parrucchiera, la sarta, il fotografo, gli amici pieni di allegria.


Poi, anche per loro due un quaderno a righe come tutti gli altri, per scriverci dentro l'intimità` della luce fioca sul co­modino, del neon in cucina, della minestra riscaldata.


Passò veloce una macchina che lo spruzzò. Lui si voltò ad imprecare, ma forse quella macchina aveva il tergicristallo rot­to: la si vedeva confusamente, come attraverso un parabrezza pie­no di gocce.


Si schiacciò il cappello informe, socchiuse gli occhi, fece qualche smorfia per farsi venire un po' da ridere. Cacciò fuori la lingua per sentirci sopra la pioggia. Si sedette per terra contro un muro qualsiasi, un posto come un altro per crepare sen­za aver ricevuto una spiegazione peraltro mai cercata.


Chissà quanto tempo passò. Il nuovo mattino avrebbe mostrato lucide le strade lavate. Ma era ancora lontano, e forse non aveva più tanta voglia di venire.


Passarono sogni negli occhi del mostro. Nei sogni si vede assai meglio, il tergicristallo funziona sempre, ed ho finito tutti i compiti prima di cena.


Si risvegliò in quella strana periferia. Aveva perso il tre­no, poi aveva camminato, e non aveva più ritrovato la strada. Se si affrettava, avrebbe fatto in tempo a prendere la prima corsa per ritornare a casa.


Ma non aveva voglia di svegliarsi. La testa gli pesava, e faceva maledettamente caldo.


Si assopì di nuovo, e quando si ridestò il cielo cominciava a farsi meno scuro. Che silenzio, però.


Ormai giaceva in un lago di sangue: cominciava a vederlo col primo chiarore. Quanto sangue aveva perso. Adesso avrebbe voluto rialzarsi, chiedere aiuto. Ma non ce la faceva, ed era troppo presto, non c'era in giro ancora nessuno. Non si poteva più rico­minciare daccapo. Proprio ora che gli pareva di risentirsi dentro la voglia di lottare. Magari di prendere a pugni quell'uomo sprezzante. Magari di ridere in faccia a lei, alle sue frenesie, alla sua sfrontata crudeltà. Magari con un’altra, che non l’a­vrebbe biasimato vedendo le cicatrici ai polsi. Che non avrebbe fatto domande imbarazzanti, paga di svegliarsi accanto a lui pri­ma dell'alba, in cima a quel sogno impreciso.


Ma lei era rincasata, non si era fermata, avrà pensato ad un balordo. E il treno se n’è andato.


Tirò fuori dalla tasca il biglietto. Era ridotto in polti­glia. Ma tanto sarebbe stato da rifare, perché era scaduto.


Infine sentì una sensazione di pace e di benessere, e capì di essere morto.


Marco Laudiano


(Tutti i diritti riservati)


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