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L'ombra è l'opposto del sole, ma si nutre di esso.
Un cielo grigio non genera ombre: nessun contrasto, nessun pensiero.


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martedì 31 marzo 2009

Alle fonti del Clitumno

Ancor dal monte, che di foschi ondeggia
frassini al vento mormoranti e lunge
per l'aure odora fresco di silvestri
salvie e di timi,
scendon nel vespero umido, o Clitumno,
a te le greggi: a te l'umbro fanciullo
la riluttante pecora ne l'onda
immerge, mentre vèr' lui dal seno de la madre adusta,
che scalza siede al casolare e canta,
una poppante volgesi e dal viso
tondo sorride: pensoso il padre, di caprine pelli
l'anche ravvolto come i fauni antichi,
regge il dipinto plaustro e la forza
de' bei giovenchi, de' bei giovenchi dal quadrato petto,
erti su 'l capo le lunate corna,
dolci ne gli occhi, nivei, che il mite Virgilio amava.
Oscure intanto fumano le nubi
su l'Apennino: grande, austera, verde
da le montagne digradanti in cerchio
l'Umbria guarda.
Salve, Umbria verde, e tu del puro fonte
nume Clitumno! Sento in cuor l'antica
patria e aleggiarmi su l'accesa fronte
gl'itali iddii. Chi l'ombre indusse del piangente salcio
su' rivi sacri ? ti rapisca il vento
de l'Apennino, o molle pianta, amore
d'umili tempi! Qui pugni a' verni e arcane istorie frema
co 'l palpitante maggio ilice nera,
a cui d'allegra giovinezza il tronco
l'edera veste: qui folti a torno l'emergente nume
stieno, giganti vigili, i cipressi;
e tu fra l'ombre, tu fatali canta
carmi, o Clitumno. 0 testimone di tre imperi, dinne
come il grave umbro ne' duelli atroce
cesse a l'astato velite e la forte
Etruria crebbe: di' come sovra le congiunte ville
dal superato Cimino a gran passi
calò Gradivo poi, piantando i segni
fieri di Roma.
Ma tu placavi, indigete comune
italo nume, i vincitori a i vinti,
e, quando tonò il punico furore
dal Trasimeno,
per gli antri tuoi salì grido, e la torta
lo ripercosse buccina da i monti:
— O tu che pasci i buoi presso Mevania
caliginosa, e tu che i proni colli ari a la sponda
del Nar sinistra, e tu che i boschi abbatti
sovra Spoleto verdi o ne la marzia
Todi fai nozze,
lascia il bue grasso tra le canne, lascia
il torel fulvo a mezzo solco, lascia
ne l'inclinata quercia il cuneo, lascia
la sposa a l'ara;
e corri, corri, corri! con la scure
corri e co' dardi, con la clava e l'asta!
corri! minaccia gl'itali penati
Annibal diro. —
Deh come rise d'alma luce il sole
per questa chiostra di bei monti, quando
urlanti vide e ruinanti in fuga
l'alta Spoleto
i Mauri immani e i numídi cavalli
con mischia oscena, e, sovra loro, nembi
di ferro, flutti d'olio ardente, e i canti
de la vittoria!
Tutto ora tace. Nel sereno gorgo
la tenue miro saliente vena:
trema, e d'un lieve pullular lo specchio
segna de l'acque.
Ride sepolta a l'imo una foresta
breve, e rameggia immobile: il diaspro
par che si mischi in flessuosi amori
con l'ametista.
E di zaffiro i fior paiono, ed hanno
de l'adamante rigido i riflessi,
e splendon freddi e chiamano a i silenzi
del verde fondo.
A piè de i monti e de le querce a l'ombra
co' fiumi, o Italia, è de' tuoi carmi il fonte.
Visser le ninfe, vissero: e un divino
talamo è questo.
Emergean lunghe ne' fluenti veli
naiadi azzurre, e per la cheta sera
chiamavan alto le sorelle brune
da le montagne,
e danze sotto l'imminente luna
guidavan, liete ricantando in coro
di Giano eterno e quanto amor lo vinse
di Camesena.
Egli dal cielo, autoctona virago
ella: fu letto l'Apennin fumante:
velaro i nembi il grande amplesso, e nacque
l'itala gente.
Tutto ora tace, o vedovo Clitumno,
tutto: de' vaghi tuoi delúbri un solo
t'avanza, e dentro pretestato nume
tu non vi siedi.
Non più perfusi del tuo fiume sacro
menano i tori, vittime orgogliose,
trofei romani a i templi aviti: Roma
più non trionfa.
Più non trionfa, poi che un galileo
di rosse chiome il Campidoglio ascese,
gittolle in braccio una sua croce, e disse
— Portala, e servi. —
Fuggir le ninfe a piangere ne' fiumi
occulte e dentro i cortici materni,
od ululando dileguaron come
nuvole a i monti,
quando una strana compagnia, tra i bianchi
templi spogliati e i colonnati infranti,
procedé lenta, in neri sacchi avvolta,
litaniando, e sovra i campi del lavoro umano
sonanti e i clivi memori d'impero
fece deserto, et il deserto disse
regno di Dio.
Strappar le turbe a i santi aratri, a i vecchi
padri aspettanti, a le fiorenti mogli;
ovunque il divo sol benedicea,
maledicenti.
Maledicenti a l'opre de la vita
e de l'amore, ei deliraro atroci
congiugnimenti di dolor con Dio
su rupi e in grotte;
discesero ebri di dissolvimento
a le cittadi, e in ridde paurose
al crocefisso supplicarono, empi,
d'essere abietti.
Salve, o serena de l'Ilisso in riva,
o intera e dritta a i lidi almi del Tebro
anima umana! i foschi dí passaro,
risorgi e regna.
E tu, pia madre di giovenchi invitti
a franger glebe e rintegrar maggesi
e d'annitrenti in guerra aspri polledri
Italia madre,
madre di biade e viti e leggi eterne
ed inclite arti a raddolcir la vita,
salve! a te i canti de l'antica lode
io rinnovello.
Plaudono i monti al carme e i boschi e l'acque
de l'Umbria verde: in faccia a noi fumando
ed anelando nuove industrie in corsa
fischia il vapore.


Giosuè CARDUCCI

lunedì 23 marzo 2009

Viole di Marzo


Compaiono sui cigli dei fossi,
ai bordi di strade carraie
o abbarbicate tra suolo e muro
e colorano questi giorni di primo sole.

Sono le viole di campo,
minute e armoniose,
piccole cose
che compaiono a macchie
e scompaiono a ciocche.

Le violette,
umili fiori di campo
eppure così forti, tenaci,
resistono e fremono
ai ritorni del freddo,
profumano a tratti
e accompagnano
gelide folate
di vento invernale.
Sono lì,
splendido segno di rinascita
a guarnire campi tuttora silenti,
a cingere viali ancor spogli.

---0---

anonimo del 1900




mercoledì 18 marzo 2009

Malinconia

Malinconia
la vita mia
struggi terribilmente;
e non v'è al mondo, non c'è al mondo niente
che mi divaghi.
Niente, o una sola
casa. Figliola,
quella per me saresti.
S'apre una porta; in tue succinte vesti
entri, e mi smaghi.
Piccola tanto,
fugace incanto
di primavera. I biondi
riccioli molti nel berretto ascondi,
altri ne ostenti.
Ma giovinezza,
torbida ebbrezza,
passa, passa l'amore.
Restan sì tristi nel dolente cuore,
presentimenti.
Malinconia,la vita mia
amò lieta una cosa,
sempre: la Morte. Or quasi è dolorosa,
ch'altro non spero.
Quando non s'ama
più, non si chiama
lei la liberatrice;
e nel dolore non fa più felice
il suo pensiero.
Io non sapevo
questo; ora bevo
l'ultimo sorso amaro
dell'esperienza. Oh quanto è mai più caro
il pensier della morte,
al giovanetto,
che a un primo affetto
cangia colore e trema.
Non ama il vecchio la tomba: suprema
crudeltà della sorte.

1961, Umberto Saba

domenica 15 marzo 2009

mercoledì 11 marzo 2009

A Cinque Lune da Nobegmor (III)

CAPITOLO III°

Contrariamente alle previsioni di Gujil l'interno della grotta si rivelò perfettamente asciutto e privo di pericoli.
Si addentrarono nello stretto cunicolo frenando la loro impazienza, ora i gemiti si erano fatti perfettamente distinguibili.
La luminosità, diffusa, si andava facendo sempre più intensa.
Improvvisamente l'angusto corridoio terminò il suo tortuoso percorso ed essi si trovarono in un'ampia apertura colma di luce.
Dopo il primo attimo di sorpresa videro, nel fondo dell'antro, uno strano animale che, incatenato con le zampe al terreno, gemeva sommessamente.
Abbassarono le spade e si diressero subito verso di esso.
Giuntigli vicino lo riconobbero; era un unicorno dal mantello colore del vento.
Aveva tutti e quattro gli arti imprigionati da pesantissime catene che ne impedivano i movimenti e, si accorsero, stava piangendo copiose lacrime.
Queste, scivolavano lungo il morbido pelame dell'animale, si riversavano a terra tutte in uno stesso punto nel quale cresceva una strana erba dal colore rossastro.
- Ho sempre creduto che questo genere di animali esistesse solo nei racconti della fantasia. - disse Gujil a se stesso riponendo nel fodero la sua spada.
- Anch'io mio Gujil. - gli fece eco Mizaurio.
Lo sguardo dell'animale stazionava fisso su di loro.
Intuendo la loro voglia di domande l'unicorno parlò con queste parole:
- Il mio nome è Phuxarius nobili Signori.
Vi stavo da tempo aspettando.
Se volete posso a voi raccontare la mia triste storia.
Così disse loro l'unicorno e poi sospese la voce in attesa di una risposta.
L'unico suono che animava il silenzio pesante della caverna era il rumore metallico delle catene i cui anelli cozzavano tra loro ogni volta che l'animale compiva un movimento.
L'enorme volta dell'antro, amplificando a dismisura i rumori, diede a Gujil l'impressione di sentire il soffio del respiro che animava tutto il suo essere.
- Ti ascoltiamo. - disse il giovane Principe rivolgendosi a Phuxarius.
- In me vive il sorriso di Arhiac, - riprese l'unicorno - imprigionato dal sacrilego sortilegio di uno stregone chiamato Drosan.
E' il mio destino di Opoflop.
Io sono il sacrificio ricorrente che permette la vita di questo reame
Ho, nel mio pianto, la salvezza ed insieme la dannazione di tutto il paese perché, piangendo, le mie lacrime donano alla terra quell'acqua che serve affinché possano germinare i suoi frutti; ma, poiché è acqua di dolore, i frutti che ne nascono sono cattivi frutti.
Nutrendo me stesso ed il popolo di Opoflop, con questi aspri frutti, continuamente rinnovo il dolore ma, se non me ne pascessi, morrei e la terra inaridirebbe completamente segnando così un ben più tragico destino per la Principessa e la sua gente.
Dovete sapere che un tempo vagavo invisibile e libero per queste contrade e foreste stupende; allora la mia gioia irrorava le messe ed i volti degli uomini.
Quando Drosan di me venne a sapere mi volle e, con un incantesimo, mi rese visibile ai suoi occhi per potermi cacciare.
Mi trovò dopo lungo vagare, mi incatenò a questa roccia con catene di pulviscolo rosa più dure del ferro ed in me sgorgò il dolore che provo e che spargo con lacrime calde sopra tutto il paese.
stava già per uccidermi quando l'anima della dolce Arhiac, vagando in un sogno agitato, mi vide e provando pietà per la mia triste sorte, mi donò il suo sorriso a proteggere la mia agile forma dall'affilato pugnale di Drosan.
Infatti, non appena egli cercò di colpirmi, mi crebbe intorno la roccia che vedi ed io venni isolato dal resto del mondo.
Per lunghi giorni Drosan cercò di raggiungermi con le sue arti ma mai vi riuscì ed allora fuggì dopo aver depredato le ricchezze di Opoflop.
Il resto è racconto che voi già ben conoscete.
La mia libertà ora è il prezzo per Opoflop perché finché imprigionato io resto così resta Opoflop e con la mia prigionia io la salvo e la danno.
Così disse Phuxarius mentre dai suoi occhi copiose le lacrime cadevano a terra imbevendo di malefica linfa vitale le tenere radici di quell'erba che tutto intorno a lui cresceva.
A quel racconto non resse l'anima di Gujil che armò la mano di quella lama tagliente che portava al suo fianco.
Furibondo, il Principe di Ozman alzò la sua spada e l'abbattè con un grido rabbioso sui rosati anelli di una delle catene che imprigionavano l'unicorno.
- No!
Non lo fare! - urlò Phuxarius un attimo prima che la lama affilata cozzasse contro la maglia della catena.
Fu troppo tardi.
La spada urtò violentemente con un rumore di tuono e dall'impatto si levarono multicolori scintille che avvolsero completamente il giovane.
Nel balenare di un attimo la figura di Gujil si dissolse nell'aria e di lui non rimase nessuna traccia.

venerdì 6 marzo 2009

Respirare
fino a che l'aria non manca,

bere
a soffocare l'arsura

pensare
arrivando all'oblio

vivere insomma.
-
anonimo del 1900

giovedì 5 marzo 2009

A Cinque Lune da Nobegmor (II)

CAPITOLO II°


Il suono della voce del vecchio svanì affievolendosi e le fiamme ripresero il loro solito aspetto di sempre rinvigorendo le ossa di Gujil, Mizaurio e dei loro uomini, gelate dal grande senso di spavento che avevano appena provato.
Gujil, la testa piena di domande senza risposta, non chiuse occhio quella notte e Mizaurio e gli uomini della loro scorta gli tennero compagnia, vegliando sulle loro vite, adducendo al pretesto di avere già abbondantemente riposato in precedenza.
La prima luce del nuovo giorno li trovò pronti alla partenza.
La rugiada del mattino bagnava ogni cosa nella foresta e la terra beveva quell'umidità mentre la fitta nebbia nascondeva alberi ed immagini alla vista degli uomini intenti a riordinare le ultime cose prima di partire alla volta di Sinocon.
Il gruppo si mosse che ancora il sole non era riuscito a diradare, con i suoi caldi e luminosi raggi, la densa coltre della foschia mattutina.
Gujil in testa, affiancato da Mizaurio, faticava a trattenere la prorompente voglia di corsa della sua cavalcatura ed intanto ripensava all'episodio di quella notte cercando un nesso che lo potesse aiutare a capire quale comportamento sarebbe meglio adottare.
Gli fece piacere scoprire che mai nei suoi pensieri si era affacciato il desiderio di fuga ma, anzi, che in lui si era incrementata quella voglia di arrivare fino in fondo al problema.
Sognando ad occhi aperti si immaginava ormai di fronte ad Arhiac a parlarle parole dolci di miele per conquistare il suo cuore intristito e dolente e, nel suo fantasticare, credette di assaporare la fragranza delle labbra di lei ed il calore del suo abbraccio.
Ben altre prospettive si affacciavano alla mente di Mizaurio.
Lo scudiero pensava a quali pericoli avrebbero dovuto, loro malgrado, affrontare prima di arrivare alla meta e la cosa lo faceva sentire decisamente a disagio ed i suoi pensieri tornavano invariabilmente ai giorni in cui quell'assurda avventura non era ancora che una chimerica illusione nella testa di Gujil.
Mizaurio amava Gujil ma lo considerava impulsivo e testardo e non riusciva ancora a capacitarsi di come avesse potuto una persona, così colta ed intelligente, quale era il suo beneamatissimo Principe, innamorarsi di una donna che non solo mai aveva visto, ma sulla quale correvano tutte quelle voci così poco rassicuranti.
E se, da una parte, prima non aveva mai prestato troppa importanza ai coloriti racconti che circolavano su di lei, Sinocon e sul reame di Opoflop, ora, dopo lo sviluppo degli ultimi avvenimenti, era seriamente preoccupato per la situazione che si andava creando.
Sapeva che, comunque, sarebbe stato impossibile distogliere Gujil da quei ferrei propositi che si era ficcato in testa. Decise, da saggio pragmatico quale era, che l'unica soluzione logica sarebbe stata quella di aspettare e vedere cosa sarebbe successo in seguito.
Il resto del gruppo accompagnava la loro cavalcata con un'antica melodia di Ozman che cantava dell'amore, impossibile e grande, di un poeta con la luminosa stella del Nord.
Il suono di quelle voci penetrava il silenzio della foresta di Opoflop come fosse un appuntito pugnale.
Dopo alcune ore di estenuante marcia il disegno degli alberi si diradò e lasciò spazio ad una larga pianura di tenera erba.
Gujil decise di far fermare la colonna nei pressi di una sorgente per far riposare i loro animali provati dalla lunga cavalcata.
Mentre i cavalli pascolavano liberi, pascendosi dei teneri steli, gli uomini prepararono il campo in cui avrebbero trascorso l'imminente notte.
Il sole nel cielo stava declinando la propria parabola.
gujil, accompagnato da Mizaurio, decise di fare una passeggiata prima di cena ed insieme si avviarono seguendo il ruscello nel senso della corrente.
Assorti nei loro discorsi percorsero molta distanza ed in prossimità del tramonto si trovarono ad un bivio del torrente.
Sulla loro destra, seminascosta da alcune nuvole basse, scorsero in lontananza la sagoma di un lieve pendio alla cui sommità credettero di scorgere le alte chiome di alcuni cipressi.
- guarda Mizaurio, - disse Gujil rivolgendosi all'amico - non sarà forse quello il posto indicatoci da Noretex?
- Mio Signore, non lo possiamo dire con certezza, si, potrebbe esserlo come non esserlo; nel dubbio perché non facciamo ritorno al campo?
Domattina, ai primi chiarori dell'alba, potremo ritornare ad appurarlo.
- Neanche per sogno, - rispose Gujil - ci andremo ora!
- Ma ... mio Gujil, è quasi sera e di notte qui, come hai visto, possono succedere strane cose.
Rientriamo al campo, torneremo domattina.
Con una risata Gujil lo apostrofò scrollando il capo e si diresse deciso verso l'altura.
Mizaurio, allargando le braccia in un plateale gesto di sconforto, affrettò il suo passo per poterlo raggiungere.
A metà della loro salita il sole terminò la sua fatica e le tenebre presero il sopravvento sulla luce.
Dopo i primi istanti caratterizzati da cadute, scivolate, urti, i loro occhi cominciarono ad abituarsi gradualmente alla debole luce emanata dalla stelle e la loro salita ricominciò ad essere spedita.
Arrivarono sulla cima che la notte era ormai profonda.
Il terreno divenne pianeggiante ed in breve si trovarono circondati dagli alti fusti di secolari cipressi.
Ora camminavano a testa alta, incantati dal meraviglioso spettacolo offerto ai loro occhi dalle svettanti chiome di quegli alberi che sembravano danzare la loro mirabile imponenza al perfetto intreccio delle costellazioni che risaltavano i loro precisi disegni nella notte senza
La loro meraviglia venne disturbata dal suono lontano di alcuni deboli gemiti.
- Senti Mizaurio? - chiese Gujil fermando il suo passo.
- Sarà il vento mio Principe. - rispose il compagno.
- No. Taci! Vengono da quella direzione.
Seguimi! - disse Gujil indicando all'amico l'intreccio più fitto degli alberi.
Ciò detto il Signore di Ozman affrettò il passo e, tallonato da Mizaurio, si diresse seguendo la provenienza dei suoni.
Ben presto l'intreccio degli alberi si dispose ordinatamente a formare due file parallele, nel cui interno, sembrava abbozzato un sentiero da tempo dimenticato dai passi degli uomini.
Gujil e Mizaurio inforcarono quella via facendosi strada tra la folta vegetazione di rovi e rampicanti che era cresciuta lussureggiante in mezzo al sentiero.
Alla fine del cammino una grotta si delineò ai loro sguardi.
- Ecco Mizaurio, i gemiti provengono da quella grotta, ora li avverto distintamente.
Presto!
Facciamo presto, qualcuno sta male!
- Arrivo Gujil! - rispose Mizaurio estraendo la spada pronto a difendersi e a difendere il suo Principe da un eventuale attacco.
La loro corsa si arrestò all'ingresso dell'antro e si accorsero della debole luminosità che fuoriusciva da esso.
Calmarono i loro animi ed il loro respiro ed entrarono con circospezione proteggendosi reciprocamente i fianchi.

martedì 3 marzo 2009

I' m Easy

It's not my way to love you just when no one's looking.

It's not my way to take your hand if I'm not sure,

It's not my way to let you see what's going on inside of me,

When it's a love you'll not be needing, you're not free.

Please stop pulling at my sleeve if you're just playing,

If you'll not take the things you make me want to give,

I never cared too much for games and this one's driving me insane.

You're not half as free to wander as you claim.

I'm easy, I'm easy.

Say the word, I'll play your game, As though that's how it ought to be.

I'm easy.

Don't lead me on if there's nowhere for you to take me,

If loving you will have to be a sometime thing.

I can't put bars on my insides; my love is something I can't hide

I still hurt when I recall the times I've tried.

I'm easy, I'm easy.

Take my hand and pull me down. I won't put up any fight, because

I'm easy.

Don't do me favors, let me watch you from a distance,

Cause when you're near, it's hard for me to keep my head.

When your eyes throw light at mine, it's enough to change my mind

Make me leave my cautious ways and world behind.

I'm easy. I'm easy

Keith CARRADINE